Gianfranco Fini indagato e il destino della destra
Triste,
solitario y final
Le
indagini su Fini, già dominus di Alleanza
Nazionale, indicano, anche ai più
protervi, la fine di una stagione politica: quella della ricomposizione delle varie anime della destra italiana, intrapresa da Berlusconi nel lontano 1994. Per dirla
con Soriano, ormai si può parlare di “triste, solitario y final”. E di un intero
progetto politico che guardava a una vasta alleanza di centro-destra.
La
vicenda politica di Fini, dalle stalle alle stelle e di nuovo alle stalle (se ci si perdona l'abusata metafora), rappresenta e compendia
i limiti di una destra politica di estrazione neofascista che non è
riuscita a trasformare se stessa in un normale partito liberalconservatore,
né a incidere sulla leadership berlusconiana
provando a lottare all’interno del Pdl, mostrandosi capace di non cedere alle blandizie degli amici e dei nemici del Cavaliere. La caduta finale di Ubu-Fini, rivela anche i limiti di una destra vanagliorosa, sempre pronta a vantarsi della sua purezza politica morale, che
tuttavia, una volta giunta al potere, ha contribuito senza alcuna esitazione a scrivere leggi ad personam, ha lottizzato, accettando
poltrone, il più delle volte strapuntini,
e frequentato, come mostra la vicenda Fini, personaggi non propriamente raccomandabili. Ma soprattutto non ha prodotto alcuna classe dirigente, quei pochi preparati si sono dispersi nella diaspora post-finiana. Oggi, si assiste ai litigi, neppure politici ma personali, tra un pugno di reduci rancorosi, non più di
Mussolini ma di Fini e Berlusconi.
Inutile
qui dilungarsi sulle remote possibilità di trasformazione ideologica di un
partito profondamente condizionato da un' identità politica, radicalmente anti-liberale, come quella fascista, quindi non solo critica dei fallimenti del mercato ma di tutto l’impianto
concettuale del liberalismo. Giano Accame, intellettuale che amava le sfide, tentò nei suoi libri di unificare il meglio della tradizione sociale europea: dai Disraeli ai Bismarck, passando per il socialismo risorgimentale e pre-marxiano, la dottrina sociale della Chiesa, il festival dannunziano politico-sociale di Fiume e il welfare state mussoliniano. Ma per quella gente miracolata, passata improvvisamente dall'oppio dell'ideologia all'adrenalina politica di Palazzo Chigi, Accame volava troppo alto. La sua destra sociale, pur discutibile dal punto di vista liberale, imponeva troppo studio, troppo sperimentalismo, troppo coraggio.
Probabilmente, occorreva un segretario politico
di ben altro valore, capacità, visione. E non un burocrate incolto e vanitoso come Gianfranco Fini. Anche se va riconosciuto che i suoi colonnelli non erano sicuramente
migliori di lui. Fini, purtroppo, veniva puntualmente assecondato nelle sue ovvietà, spesso scritte da altri, riverniciate, fantasiosamente, nell’ultima fase (quella “futurpresentista”),
dagli pseudo-intellettuali di partito come libertarismo di destra, le
cui origini - come si scriveva senza provare alcuna vergogna - rinviavano addirittura al fascismo: un fascismo, questa la tesi. che, come per il comunismo, poteva essere e invece non fu. Per la serie, mancò la fortuna non l'onore, eccetera, eccetera. Pure fantasie oniriche da ghost writer mal pagati con il complesso della retroattività ideologica.
Naturalmente,
la mancata ricomposizione non va imputata solamente a Fini. Il conflitto di
interessi e l’egocentrismo politico di Berlusconi hanno fatto il resto. Anche
il Cavaliere si è dimostrato un liberale a chiacchiere. E qui si pensi al suo stile democristiano, in perfetta linea con quello dei Casini e degli Alfano, nel promettere sovvenzioni a tutti, a prescindere dal merito e dal senso di responsabilità, penalizzando di fatto, come dire, i portatori sani del rischio imprenditoriale (da lui pur apprezzato, ma solo parole).
Berlusconi è responsabile della successiva involuzione salviniana di una Lega che all’inizio racchiudeva nel suo corpaccione politico alcuni preziosi germi di liberalismo: si pensi al federalismo (che poteva essere sviluppato anche in chiave costituzionale di parallelo rafforzamento del potere esecutivo federale rispetto agli "stati", una cosa all'americana, per semplificare il concetto). Radici, insomma, che andavano coltivate. Certo, parliamo di una regressione facilitata, a sua volta, dalla emersione della “questione europea”, che ha favorito la trasformazione della Lega,
da partito regionalista/europeista in
partito ferocemente sciovinista. E nazionalismo e liberalismo, come mostra
lo storico “scivolone” fascista, seguono strade differenti.
In
questi giorni si legge che le sparse forze di un fallito progetto di ricomposizione, in caso di elezioni, dovrebbero allearsi, formare una coalizione,
fare le primarie, per sfidare Renzi e Grillo. Ma su quali basi politiche? Il villarzillismo di Berlusconi, indecorosamente sospeso a una sentenza della Corte Europea? Il trumpismo, che per ora è solo una versione “altra” del sogno
americano (che comunque non possiamo permetterci)? Il grillismo in fotocopia,
con qualche sbianchettatura? Il
lepenismo all’italiana senza Giovanna D’Arco ma con Matteo Salvini e Giorgia
Meloni, come figli di un dio minore? Magari Putin? Altro bel modello di liberal-democrazia? E se,
cosa molto difficile, questa destra di naufraghi che
ricorda la Zattera
della Medusa riuscisse a vincere, come potrebbe governare?
Carlo Gambescia
***
Siamo felici di pubblicare a integrazione del nostro pezzo, l'interessante e vivacissima riflessione di Carlo Pompei. Buona lettura (C.G.)
C'eravamo tanto odiati
di Carlo Pompei
Ottimo, come sempre: un pilone inamovibile nella
convinzione che la situazione sociopolitica, purtroppo, è quel che
è.
D'altronde, se fosse perfetta, qui si parlerebbe d'altro.
Tuttavia sei flessuoso nelle spigolature sull'analisi dei
personaggi (un "barba e capelli" degno di Figaro, se mi consenti il
parallelo irriguardoso).
Tolto via l'imbarazzo del paradosso incombente (quello
del se valga la pena parlarne), mi chiedo chi sia (stato) veramente Gianfranco
Fini, se non – come ho già avuto modo di scrivere – il "frutto"
congiunto (aborro, come sai, il "combinato disposto" caro a certi
scrittori di "area") della testardaggine e della stanchezza di Pino
Rauti e Giorgio Almirante.
Il primo non lo poteva vedere neanche in fotografia (andò
in bestia quando pubblicammo una sua foto su LINEA).
Il secondo lo vide come un Caronte moderato, alto e ben
vestito, forse adatto, forse no, ma non importava più, almeno a lui.
Sui colonnelli di un generale indegno del comando lui
affidato stendo velo pietoso, anche se, umanamente, ne comprendo la
pre-frustrazione da poltrona, ma non ne giustifico il
"post-gargarozzismo" una volta acquisita.
Citi giustamente Giano Accame – che non ho avuto il
piacere di conoscere (e tu sai quanto avrei voluto) – come unico
interprete-ponte di una certa idea, ma molto con i piedi per terra.
Tradurre ideologie in pratiche da statisti, però, è la
cosa più difficile da attuare ovunque, ma forse soprattutto in Italia, un Paese
rovinato più dai torcicolli curati male, che dal "passato che non passa",
adagio iperabusato da chi, ancora oggi – all'ombra di Scelba e Mancino – vede
fantasmini con le mani tese in qualsiasi populista-nazionalista (ex
secessionista e separatista) dell'ultima ora, senza uno straccio di programma
che non sia la reiterazione di slogan riverniciati con l'antiruggine scaduta.
Con stima e notevole rammarico nel constatare che hai,
purtroppo per l'Italia, ragione da vendere.
Carlo Pompei
Carlo Pompei, classe 1966, “Romano de Roma”. Appena nato, non sapendo
ancora né leggere, né scrivere, cominciò improvvisamente a disegnare. Oggi, si
divide tra grafica, impaginazione, scrittura, illustrazione, informatica,
insegnamento ed… ebanisteria “entry level".