mercoledì 15 febbraio 2017

Gianfranco Fini  indagato e il destino della destra  
Triste, solitario y final



Le indagini su Fini, già dominus  di Alleanza Nazionale,  indicano, anche ai più protervi, la fine di una stagione politica: quella della ricomposizione  delle varie anime della destra italiana,  intrapresa da Berlusconi nel lontano 1994. Per dirla con Soriano,  ormai  si può parlare di  “triste, solitario y final”. E di un intero progetto politico che guardava a una vasta alleanza di centro-destra.
La vicenda politica  di Fini, dalle stalle alle stelle e di nuovo alle stalle (se ci si perdona l'abusata metafora),  rappresenta  e compendia  i limiti di una destra politica di estrazione neofascista che non è riuscita a trasformare se stessa in un normale partito liberalconservatore, né  a incidere sulla leadership berlusconiana provando a lottare all’interno del Pdl, mostrandosi capace di non cedere alle blandizie degli amici e dei nemici del Cavaliere.  La caduta finale  di Ubu-Fini,  rivela anche i limiti di una destra vanagliorosa,  sempre pronta a vantarsi della sua purezza politica morale,  che tuttavia, una volta giunta al potere, ha contribuito senza alcuna esitazione a  scrivere leggi  ad personam,  ha lottizzato, accettando poltrone, il più delle volte strapuntini,  e  frequentato, come mostra la vicenda Fini, personaggi non propriamente raccomandabili. Ma soprattutto non ha prodotto alcuna classe dirigente,  quei pochi preparati si sono  dispersi nella diaspora post-finiana.  Oggi, si assiste ai litigi, neppure politici ma personali,  tra un pugno di reduci rancorosi, non più di Mussolini ma di Fini e Berlusconi.
Inutile qui dilungarsi sulle remote  possibilità  di trasformazione ideologica di un partito profondamente condizionato da un' identità politica, radicalmente anti-liberale, come quella  fascista, quindi non solo critica  dei  fallimenti del mercato ma di tutto l’impianto concettuale del  liberalismo. Giano Accame, intellettuale che amava le sfide,  tentò nei suoi libri di unificare il meglio della tradizione sociale europea: dai Disraeli ai Bismarck, passando per il socialismo risorgimentale e pre-marxiano, la dottrina sociale della Chiesa, il festival dannunziano politico-sociale di Fiume e il welfare state mussoliniano. Ma per quella gente miracolata, passata improvvisamente dall'oppio dell'ideologia all'adrenalina  politica di Palazzo Chigi,  Accame  volava troppo alto.  La sua destra sociale, pur discutibile dal punto di vista liberale, imponeva troppo studio, troppo sperimentalismo, troppo coraggio.      
Probabilmente, occorreva  un  segretario politico di ben altro valore, capacità, visione.  E non un burocrate incolto e  vanitoso come Gianfranco Fini.   Anche se va riconosciuto  che  i suoi colonnelli non erano sicuramente migliori di lui.  Fini, purtroppo,  veniva puntualmente assecondato nelle sue ovvietà, spesso scritte da altri,  riverniciate,  fantasiosamente,  nell’ultima fase (quella “futurpresentista”), dagli pseudo-intellettuali di partito  come  libertarismo di destra,  le cui origini  - come si scriveva senza provare alcuna vergogna - rinviavano addirittura al fascismo: un fascismo, questa la tesi. che, come per il comunismo, poteva essere e invece non fu. Per la serie,  mancò la fortuna non l'onore, eccetera, eccetera. Pure fantasie oniriche  da ghost writer mal pagati  con il complesso della retroattività ideologica.
Naturalmente, la mancata ricomposizione non va imputata solamente a Fini. Il conflitto di interessi e l’egocentrismo politico di Berlusconi hanno fatto il resto. Anche il Cavaliere si è dimostrato un liberale a chiacchiere. E qui si  pensi al suo stile democristiano, in perfetta linea con quello dei Casini e degli Alfano, nel promettere sovvenzioni a tutti, a prescindere dal merito e dal senso di responsabilità, penalizzando di fatto, come dire, i portatori sani del  rischio imprenditoriale (da lui pur apprezzato, ma solo parole).  
Berlusconi è responsabile della successiva involuzione salviniana di una Lega che all’inizio racchiudeva nel suo corpaccione politico  alcuni preziosi  germi di liberalismo: si pensi al federalismo (che poteva essere sviluppato anche in chiave costituzionale di parallelo  rafforzamento del potere esecutivo federale rispetto agli "stati", una cosa all'americana, per semplificare il concetto). Radici, insomma, che andavano coltivate.  Certo, parliamo di  una regressione  facilitata, a sua volta, dalla emersione della  “questione europea”,  che ha favorito la trasformazione della Lega, da partito regionalista/europeista  in partito ferocemente sciovinista.  E nazionalismo e liberalismo, come  mostra lo storico  “scivolone” fascista,  seguono strade differenti. 
In questi giorni  si legge  che le sparse forze  di un fallito  progetto di ricomposizione,  in caso di elezioni,  dovrebbero allearsi, formare una coalizione, fare le primarie, per sfidare Renzi e Grillo. Ma su quali basi politiche?  Il villarzillismo di Berlusconi, indecorosamente  sospeso a una sentenza della Corte Europea? Il trumpismo, che per ora  è solo una versione “altra” del sogno americano (che comunque non possiamo permetterci)? Il grillismo in fotocopia, con qualche sbianchettatura?  Il lepenismo all’italiana senza Giovanna D’Arco ma con Matteo Salvini e Giorgia Meloni, come figli di un dio minore? Magari Putin? Altro bel modello  di liberal-democrazia?   E se, cosa molto difficile, questa destra di naufraghi che ricorda la Zattera della Medusa  riuscisse a vincere, come potrebbe governare?  

Carlo Gambescia


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Siamo felici di pubblicare a integrazione del nostro pezzo, l'interessante e  vivacissima riflessione di Carlo Pompei. Buona lettura  (C.G.)



C'eravamo tanto odiati
di Carlo Pompei



Ottimo, come sempre: un pilone inamovibile nella convinzione che la  situazione sociopolitica,  purtroppo, è quel che è. 
D'altronde, se fosse perfetta, qui si parlerebbe d'altro.
Tuttavia sei flessuoso nelle spigolature sull'analisi dei personaggi (un "barba e capelli" degno di Figaro, se mi consenti il parallelo irriguardoso).
Tolto via l'imbarazzo del paradosso incombente (quello del se valga la pena parlarne), mi chiedo chi sia (stato) veramente Gianfranco Fini, se non – come ho già avuto modo di scrivere – il "frutto" congiunto (aborro, come sai, il "combinato disposto" caro a certi scrittori di "area") della testardaggine e della stanchezza di Pino Rauti e Giorgio Almirante.
Il primo non lo poteva vedere neanche in fotografia (andò in bestia quando pubblicammo una sua foto su LINEA).
Il secondo lo vide come un Caronte moderato, alto e ben vestito, forse adatto, forse no, ma non importava più, almeno a lui.
Sui colonnelli di un generale indegno del comando lui affidato stendo velo pietoso, anche se, umanamente, ne comprendo la pre-frustrazione da poltrona, ma non ne giustifico il "post-gargarozzismo" una volta acquisita.
Citi giustamente Giano Accame – che non ho avuto il piacere di conoscere (e tu sai quanto avrei voluto) – come unico interprete-ponte di una certa idea, ma molto con i piedi per terra.
Tradurre ideologie in pratiche da statisti, però, è la cosa più difficile da attuare ovunque, ma forse soprattutto in Italia, un Paese rovinato più dai torcicolli curati male, che dal "passato che non passa", adagio iperabusato da chi, ancora oggi – all'ombra di Scelba e Mancino – vede fantasmini con le mani tese in qualsiasi populista-nazionalista (ex secessionista e separatista) dell'ultima ora, senza uno straccio di programma che non sia la reiterazione di slogan riverniciati con l'antiruggine scaduta.
Con stima e notevole rammarico nel constatare che hai, purtroppo per l'Italia, ragione da vendere.

Carlo Pompei


Carlo Pompei, classe 1966, “Romano de Roma”. Appena nato, non sapendo ancora né leggere, né scrivere, cominciò improvvisamente a disegnare. Oggi, si divide tra grafica, impaginazione, scrittura, illustrazione, informatica, insegnamento ed… ebanisteria “entry level".