Riflessioni
Decisione
e rappresentanza,
l’endiadi spezzata
di Giuliano
Borghi
C’è uno spettro che da oltre mezzo
secolo aleggia sul sistema politico italiano. E lo paralizza.
Si tratta del problema, a suo tempo
non risolto dalla Costituente stessa, della forma-governo.
L’aver eluso il momento tipico della Decisione,
e averlo stemperato e soffocato in quello improprio della Rappresentanza, anche se una qualche ragione può essere trovata
nella temperie di quegli anni, ha provocato prima un decennale blocco
istituzionale, poi ha reso accidentato il percorso delle riforme filigrane
nella Carta Costituzionale. Con conseguenze, sia politiche, quanto
costituzionali deleterie per un buon governo della società italiana.
Al momento della Rappresentanza appartiene, invece, la scelta di quel sistema
elettorale che meglio può esprimere gli interessi, le passioni e le idee dei
Cittadini. Questo vuol dire che neppure il migliore sistema elettorale è in
grado di assicurare la governabilità, perché questa può essere trovata solamente
nella sfera della Decisione, che è
altra dalla sfera della Rappresentanza.
Insomma, prima si deve scegliere la
forma di governo, poi il tipo di sistema elettorale coerente con la forma di
governo voluta.
Ben diversamente si sono svolti i
fatti al tempo dell’Assemblea Costituente.
Nel 1946, l’Assemblea Costituente
affida alla 2° Sottocommissione il compito di dar soluzione alla questione
della forma-governo. Su questo tema si trova incaricato della relazione
introduttiva Costantino Mortati. Il giurista calabrese, dopo una analitica e
ampia disanima delle possibili soluzioni, insistita sempre sull’alternativa fra
un regime presidenziale, garante della stabilità e della unitarietà della
direzione politica, e un regime parlamentare , garante della certezza del
diritto e del rispetto delle minoranze escluse dal governo, indica alla fine
come teorica via d’uscita, la creazione di un regime intermedio. Tecnicamente
il suo buon funzionamento veniva assicurato da un potere forte di designazione
del primo ministro, da parte del Presidente della repubblica, da un altrettanto
forte potere del Parlamento nell’accordare o meno la fiducia al governo e dalla
garanzia per esso di poter lavorare senza tema di imboscate parlamentari per un
periodo fisso di almeno due anni.
Nel dibattito che ne segue in
sottocommissione, la proposta Mortati non viene accolta.
Agli altri componenti appare subito
chiaro che il quadro ipotizzabile per l’Italia di quelle ore, cioè
pluripartitismo, diretta conseguenza del sistema elettorale proporzionalistico,
nonché probabili governi di coalizione, avrebbe resa impraticabile l’ipotesi di
un governo in grado di porsi come vero antagonista al parlamento e capace allo
stesso tempo di programmi con forte coerenza.
A questo la soluzione più efficace
poteva venire sola da un regime presidenziale. Coerentemente con questo,
allora, Pietro Calamandrei chiede che la 2° sottocommissione si pronunci
fermamente a favore dell’elezione diretta del Presidente della Repubblica, lì
stabilendo il luogo della decisione.
Contro, interviene un altro
costituzionalista, il democristiano Egidio Tosato, per ammonire che in un sistema pluripartitico l’elezione
diretta del Capo dello Stato avrebbe potuto generare un conflitto permanente tra
esecutivo e legislativo. Preferibile, piuttosto, poteva essere il potenziamento
della figura del Presidente del Consiglio con la clausola vincolante e
protettiva che in caso di sfiducia solamente due dovevano essere gli sbocchi
possibili. Nell’eventualità di una sfiducia votata a maggioranza assoluta,
automaticamente diveniva Presidente del Consiglio il primo firmatario della
mozione. Nell’eventualità di una sfiducia votata a maggioranza relativa, il
Presidente della Repubblica avrebbe dovuto sciogliere le Camere.
Nessuna delle indicazioni, però,
riesce a convincere totalmente. Viene dato incarico, allora, al repubblicano
Perassi di tentare di rimuovere le difficoltà. Ma questi non trova altra
soluzione se non quella di non decidere e presenta un ordine del giorno nel
quale il problema irrisolto della forma-governo viene rimosso a beneficio del
regime parlamentare, annegando così la Decisione
nella Rappresentanza. Il 5 settembre
1946 l’ordine del giorno viene votato e inizia la vicenda di quel
parlamentarismo semiassoluto che struttura la seconda parte della Costituzione.
Eluso il luogo legittimo della
Decisione, il sistema parlamentare consegna ai partiti la funzione di
“motori”costituzionali, di agenti nascosti della balance costituzionale.
Purtroppo, fin dai quei tempi, i
“partiti” non erano quegli ideali corpi intermedi “istituzionali” tra Stato e
Cittadini, votati al bene comune, sognati da Costantino Mortati, la lezione del
quale aveva esercitato una influenza determinante sulle scelte di voto del
gruppo dei professori cattolici riuniti attorno a Giuseppe Dossetti. Ed
evidente era già, per chi voleva vedere, che ri-fondare la legittimità politica
sullo zoccolo della Rappresentanza,
la fonte della quale erano i partiti di massa, più che una ingenua utopia, era
l’avvio verso quella deriva politica e istituzionale che solo pochi anni dopo
lo stesso Calamandrei avrebbe violentemente denunciato.
Ma così allora fu detto, così allora
fu fatto.
E la domanda di governabilità è ancora
oggi in attesa di una risposta definitiva.
Giuliano Borghi
Giuliano Borghi, docente
di filosofia politica nelle università di Roma e Teramo. Ha pubblicato studi su
Evola, Platone, Nietzsche, il pensiero tragico e la filosofia della crisi.
Si occupa in particolare dei rapporti tra pensiero politico ed economico
dal punto di vista dell'antropologia filosofica.
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