Equivoci. La grande
manifestazione parigina di ieri
Da "Je suis partout" a "Je suis
Charlie"?
Dispiace dirlo, ma il “Je suis Charlie” (che in qualche
misura ne parafrasa la testata), invocato ieri da
più di un milione di persone e
ufficializzato dalla presenza di numerosi capi di stato (non c’era Obama
però…), ricorda quel pacifismo filohitleriano degli
anni Quaranta: in basso, tra le masse,
per la voglia disperata che tutto possa tornare come prima, senza alcun sacrificio e all’insegna di un
lasciateci vivere in pace… (
atteggiamento simile a quel “Meglio
rossi che morti”, filosovietico, assai
diffuso in Europa durante la Guerra fredda); in alto,
tra le élite, per guadagnare facile popolarità,
per rassicurare genericamente i cittadini, per mostrare una qualche reazione a
costo zero: calcoli a scopo dilatorio.
Perciò il vero punto è: alla grande manifestazioni di Parigi, seguiranno
misure concrete? Esiste, realmente, una volontà di lottare e colpire in modo inesorabile il nemico. Al quale -
attenzione - non basta "notificare" che si è disposti a
vivere, come prima, tutti insieme felice
e contenti: "liberi, eguali e solidali "(come si legge nella foto). Semplificando: se è il
nemico a sceglierti come tale, perché
vuole distruggerti, la mano tesa non
serve, perché ti verrà subito tagliata…
Ciò però non vuol dire che ieri si doveva marciare "in difesa della Civiltà", al ritmo del passo romano, digrignando i denti come cani arrabbiati in uniforme. Le manifestazioni di piazza, soprattutto
se pacifiche, fanno parte della nostra
cultura politica. Quindi saranno sempre benvenute. Ma non devono servire a creare illusioni di pace astratta tra le masse
e soprattutto come alibi a élite politiche
divise e indecise a tutto. Perciò, questa volta, niente equivoci: Gollisti, subito!
Carlo Gambescia
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