Il libro della settimana: Albert Schweitzer, Filosofia della civiltà, Fazi Editore, 2014, pp. 384, Euro 19,00.
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Su Albert Schweitzer non abbiamo mai digerito l' infelice giudizio di Ernesto De Martino. Il quale retrocesse, una figura prestigiosa come quella del medico, teologo, musicologo e filosofo alsaziano, al rango inferiore di esempio del “fervore missionario”, frutto “del
senso di colpa e del desiderio di
espiazione del colonialismo borghese” (1); il suo era “un darsi alla filantropia e alla pedagogia spicciola”... (2). Pagine dettate, probabilmente dall’ odiosa ideologia della "guerra civile europea". Non
è però di De Martino che desideriamo occuparci, bensì dell’ottima idea dell’Editore Fazi di proporre in versione integrale la Kulturphilophie (Filosofia della civiltà), pubblicata nel 1923 in due volumi dal Premio Nobel per la Pace: un' opera meditata e scritta con l'animus del teologo-filosofo, sotto il duro peso di incalzanti eventi formativi e storici: dal primo soggiorno africano al grande conflitto
mondiale.
Del resto il primo volume
uscito in Italia nel 1963 per i
tipi di Comunità con il titolo di Agonia della
civiltà, un centinaio di pagine tradotte da Mario Tassoni, non era più reperibile da anni. Perciò doppiamente meritoria la scelta editoriale
di farlo uscire nuovamente insieme al secondo volume e nell' agile traduzione dal tedesco di Alberto Guglielmi Manzoni. E tra l’altro, cosa non secondaria, nella rigogliosa - quale altro aggettivo più giusto? - collana “Campo dei fiori”, dove il lettore
potrà trovare ottimi libri di interesse, come dire, contiguo: quelli di Bainton su Serveto, di Bielawski su Panikkar, di Levergeois su Giordano Bruno di Raguin sul Tao, di Jaspers su Socrate, Buddha, Confucio, Gesù. Ancora complimenti.
http://www.raistoria.rai.it/articoli/albert-schweitzer-il-medico-dei-poveri/10797/default.aspx |
La
prima parte, Caduta e ricostruzione della civiltà (pp. 9-80, I. Verfall und Wiederaufbau der Kultur) racchiude una critica assai tagliente dei nodi utilitaristici della civiltà
occidentale venuti al pettine tra Otto e Novecento. La crisi post-positivista nasce dal rifiuto di un approccio etico, come autoconsapevolezza ragionata della necessità di rispettare l’Altro: quanto più si vive per stessi, tanto più si ignora il mondo che ci circonda. Un universo composito che non è proprietà esclusiva di uomini e donne bensì di tutti gli esseri viventi. Di qui, detto per inciso, quel rispetto per la natura e per gli animali (si vedano le ispirate pagine sulla vivisezione) che contrassegna il pensiero di Schweitzer, conferendo alla sua opera un tocco di geniale attualità. Quanto più la
filosofia, la tecnica e la morale (quest'ultima barbaramente ridotta a pura nomenclatura comportamentale), perdono tale consapevolezza, tanto più la civiltà, che è fenomeno intimamente etico (prima che culturale,
politico, economico, estetico, eccetera), si corrompe, rischiando l'autodistruzione. Come osserva Schweitzer, l’etica quale progressiva conoscenza vivente di Noi stessi e
dell’Altro ha natura circolare, virtuosamente circolare: più si amplia per autocombustione interiore, elevandosi a concezione del
mondo, più alimenta un processo di conoscenza morale infinita, capace di andare oltre l’umano. Su questo punto, come nota un maestro del pensiero sociologico (3), “Schweitzer concorda con Spengler, Schubart, Koneczny, Berdjaev, e in una certa
misura, con Northrop, nel sottolineare il primato della
conoscenza vivente e intuitiva dell’Essere infinito nelle sue infinite manifestazioni” rispetto ad altre forme di conoscenza mediate o esterne come il sapere scientifico.
La seconda parte, Civiltà ed etica (pp. 81-380, Kultur und Ethik), propone invece una stringente ricostruzione del pensiero filosofico e morale dell'Occidente. In
relazione a che cosa? Qual è la leva? L'etica, ossia la condicio sine qua non per lo sviluppo di qualsiasi civiltà. Non un etica qualsiasi, come abbiamo già visto, ma una concezione forte, capace di proclamare e realizzare il
rispetto per la vita. Secondo Schweitzer, ogni volta che nel passato si è avuta una renaissance etico-morale ( i due termini nel suo discorso spesso sono intercambiabili), anche la civiltà è rifiorita e viceversa. Purtroppo, non tutte le forme di pensiero hanno avvertito l’urgenza della questione. In Occidente solo la filosofia stoica, così amata dagli antichi e la razionalista del secolo XVIII hanno recepito l'importanza del momento etico, favorendo così la piena fioritura delle civiltà romana e occidentale. Sotto questo aspetto, Schweitzer
è una specie anti-Spengler: al
determinismo parabiologico a sfondo particolaristico (se non etnico) del morfologo tedesco oppone il suo anti-determinismo etico a carattere universalistico. Del resto, per restare nel sassoso giardino dei "maledetti", anche l' insistenza di Schweitzer - che rappresenta il trait d'union tra le due parti - su una vita-etica vista come più-che-vita, perché si apre continuamente all'altro senza mai cercare di fagocitarlo (un contenuto che non trova mai la sua forma definitiva, per dirla con Simmel vs Schopenhauer), ne fa - azzardiamo l' interpretazione, forse osé - un creativo Nietzsche cristiano, non al di là del bene e del male, bensì esclusivamente dalla parte del bene... Come prova, a differenza dello Zarathustra tedesco, la sua esistenza spesa in funzione degli altri e mai di se stesso.
Quali le sue conclusioni? Ascoltiamolo:
“
Nel rispetto per la vita , invece, la civiltà riconosce di non aver nulla a che
fare con una evoluzione del mondo, ma di
avere
il suo significato in se stessa. L’essenza della civiltà consiste nel fatto
che, nella nostra volontà di vita, sia
personale che collettiva, si afferma
sempre più l’influenza e l’importanza
del rispetto per la vita. La civiltà, quindi, non è l’immagine di una evoluzione
del mondo, ma un’esperienza della volontà di vita che è in noi stessi, che non
possiamo né dobbiamo necessariamente
mettere in relazione con gli avvenimenti del mondo che conosciamo dall’esterno. Il compimento
della nostra volontà di vita basta già di per sé […] Questo e nient’altro è civiltà: il fatto che, in conseguenza di tutti i progressi che
l’essere umano e l’umanità possono realizzare, ci sia nel mondo una volontà di
vita che abbia il massimo rispetto per la vita di tutti gli essere viventi che giungono
nel suo raggio d’azione e che cerchi il
perfezionamento nella spiritualità del rispetto della vita” (pp. 357-358).
Una vita che ami la vita, in
tutte le sue forme, rispettandole: una vita- più-che-vita, ecco l’essenza della civiltà per Albert Schweitzer. Questa la sua lezione. Altro che il singhiozzo dell'uomo bianco, ingiustamente attribuitogli da Ernesto De Martino...
Certo, Schweitzer ragiona in termini di filosofia del "dover essere": una filosofia sempre a rischio, perché costretta a subire i brutali contraccolpi delle dure necessità dell’ "essere" delle "cose" politiche ed economiche. Un impolitico? Sicuramente. Ma di grandissima classe.
Certo, Schweitzer ragiona in termini di filosofia del "dover essere": una filosofia sempre a rischio, perché costretta a subire i brutali contraccolpi delle dure necessità dell’ "essere" delle "cose" politiche ed economiche. Un impolitico? Sicuramente. Ma di grandissima classe.
Carlo Gambescia
(1) E. De Martino, Furore Simbolo Valore, Feltrinelli 2002, pp. 107-108.
(2) E. De Martino, La Fine del mondo, Einaudi 2002, p. 473, par. 264.
(3) Pitirim A. Sorokin, Social Philosophies of an Age of Crisis, The Beacon Press 1951, p. 182.
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