Bernstein e la crisi
economica attuale
C’era una volta il ceto
medio… (*)
Più di un
secolo fa Eduard Bernstein iniziava la (notissima) “revisione” del marxismo,
base del futuro sviluppo della socialdemocrazia (tedesca e non), con il saggio
(preceduto da diversi articoli) “I presupposti del socialismo e i compiti della
socialdemocrazia”. Nel quale tra le varie critiche agli enunciati di Marx (e di
Engels) la più celebre è quella alla “caduta del saggio di profitto” e alla
conseguente concentrazione della proprietà dei mezzi di produzione nelle mani di
pochi, con generale proletarizzazione. Bernstein scrive che nel “Capitale” Marx
“parla soltanto della «diminuzione costante del numero dei magnati del
capitale», e anche nel terzo libro, in linea di principio, il discorso non
muta. È vero che quando si viene a trattare del saggio di profitto e del
capitale commerciale, si toccano fatti che rinviano ad una frammentazione dei
capitali, ma senza trarne le conseguenze ai fini della nostra questione… Ma non
è affatto così. La forma della società per azioni agisce, in larga misura, in
senso contrario alla tendenza della centralizzazione dei capitali attraverso la
centralizzazione delle aziende. Essa permette un vasto frazionamento di
capitali già concentrati, e rende superflua l’appropriazione di capitali da
parte di singoli magnati allo scopo di concentrare le imprese industriali”[1]
e ne conclude “È dunque assolutamente falso ritenere che l’attuale sviluppo
indichi una relativa o addirittura assoluta diminuzione del numero dei possidenti.
Il numero dei possidenti aumenta non «più o meno», ma semplicemente più, ossia in senso assoluto e in senso relativo”[2].
La critica
era esatta: il capitalismo, lungi dal proletarizzare la società, ha aumentato
il numero dei dipendenti e fatto espandere il “ceto medio”; i lavoratori con
mansioni operaie sono largamente diminuiti (in percentuale) sulla forza-lavoro
complessiva. Tutti fatti che provano come Marx ed Engels avessero errato le
previsioni e, di converso, Bernstein avesse visto giusto.
Ma è vero da
circa 20-25 anni ad oggi? Il capitalismo nuovo, globalizzato e finanziarizzato
dei giorni nostri ha ancora l’effetto benefico del vecchio, di incrementare il
numero dei possidenti, ridurre le differenze economiche e sociali e arricchire
e non impoverire la società? Questo, almeno nel mondo sviluppato?
Chi scrive
non è un economista e non ha dati sicuri: ma da molti indizi appare altamente
probabile che il divario tra ricchi e poveri nel mondo sviluppato sia in
aumento, soprattutto in Italia. Se questo fosse vero, come probabilmente è,
occorre trarne le conseguenze sul piano politico.
Il sistema
capitalista ha potuto espandersi nei secoli precedenti non solo per la – notata
da Marx – capacità di incrementare la ricchezza generale con la produzione di
beni e servizi a costi competitivi, ma anche per quello che affermava
Bernstein: che riduceva il divario tra ricchi e poveri e aumentava il numero
dei possidenti. L’incremento di un robusto (e crescente) ceto medio forniva così
consenso e stabilità sociale e politica.
Ma se questo
non avviene più occorre trarne i possibili prossimi scenari: che consenso e
stabilità andranno a scemare, creando il presupposto per un futuro che non si
riesce a delineare.
E quello che
si può affermare è che questo futuro non sarà migliore del passato, e richiederà,
comunque per mantenersi, l’uso dei mezzi “classici” della politica: la forza e
l’astuzia. Per ora non appare – anche se ve ne sono i sintomi, almeno nelle
aree “periferiche” del pianeta – che venga incrementato l’uso della forza.
Tuttavia è evidente che lo sia quello dell’astuzia, attraverso il controllo dei
mezzi di comunicazione di massa e la manipolazione dell’opinione pubblica mediante
– praticamente tutte – le tecniche collaudate all’uopo, della disinformazione
alla distrazione dell’attenzione, dall’uso di un linguaggio soporifero ed
edulcorato (neo-lingua, langue de bois, politically correct) alla vera e
propria propagazione di notizie false.
Ma quanto
potrà durare è imprevedibile: speriamo che avesse ragione Lincoln ad affermare
che si può prendere in giro qualcuno per sempre e tutti per un periodo
limitato, ma non tutti e per sempre.
Teodoro Klitsche de la Grange
(*) L’ottimo
articolo dell’amico Teodoro Klitsche de la
Grange , necessita di una precisazione su un punto
fondamentale. Ci spieghiamo subito. Il divario tra ricchi e poveri è nel Dna delle società (e
dell’uomo): immutabile, piaccia o meno, come del resto provano i pionieristici studi
di Pareto. Il che però non esclude l'esistenza, fin dai tempi di Aristotele, di una classe media, la cui consistenza può fluttuare nel tempo. Quindi mai confondere il noto (esistenza di ricchi e poveri) con l'ignoto (le dimensioni della classe media). Nonostante questo pericolo, esistono, nell' ambito della distribuzione dei redditi, due forme opposte di rappresentazione delle gerarchie sociale: la piramide e il fiasco. La piramide non richiede spiegazioni, il fiasco sì: parliamo di un "fiasco" dal collo sottile (i ricchi) e dal fondo largo (i poveri), ma non più esteso della “pancia" (il ceto medio). Sicché, da un lato, gli avversari del capitalismo cercano di
provare che il ceto medio, la pancia, (più o meno
dall’inizio degli anni Ottanta, complice il "neoliberismo",
quando si dice il caso…) andrebbe irrimediabilmente assottigliandosi: di qui, il più o meno lento trasformarsi del fiasco in piramide. Dall’altro, i difensori del
capitalismo tentano di dimostrare il contrario: la persistenza del fiasco.
In realtà, le due diverse, e pur potenti "derivazioni" (piramide e fiasco), rappresentano la riprova di un fatto fondamentale: che le dimensioni del ceto medio sono fluttuanti. E quindi difficilmente quantificabili una volta per sempre. Tutto qui.
In realtà, le due diverse, e pur potenti "derivazioni" (piramide e fiasco), rappresentano la riprova di un fatto fondamentale: che le dimensioni del ceto medio sono fluttuanti. E quindi difficilmente quantificabili una volta per sempre. Tutto qui.
Ovviamente, la portata retorica delle interpretazioni (interessate) non è senza conseguenze politiche: la fluttuazione verso il basso, se giudicata temporanea (come ritiene la destra filocapitalista ), può rinviare a un processo ciclico interno al capitalismo (crisi
infrasistemica), se invece giudicata irreversibile (come ritiene la sinistra anticapitalista), può rinviare a un processo esterno, senza possibilità di ritorno (crisi sistemica). De la
Grange, pur a malincuore, sembra ritenere che si tratti di crisi sistemica: da lontano, vede spuntare una piramide... La sua fiducia nei cosiddetti istinti animali del capitalismo sembra essere addirittura inferiore a quella di Indro Montanelli: il quale, da grande scettico, amava ripetere spesso che la giusta difesa dei meccanismi dell' economia capitalistica non implica la frequentazione dei capitalisti...
(C.G.)
Teodoro Klitsche de la Grange è avvocato,
giurista, direttore del trimestrale di cultura politica“Behemoth" (http://www.behemoth.it/ ). Tra i suoi libri: Lo
specchio infranto (1998), Il salto di Rodi (1999), Il
Doppio Stato (2001), L'apologia della cattiveria (2003),
L'inferno dell'intellettuale (2007), Dove va lo Stato? (2009), Funzionarismo (2013).
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