“Vent’anni di solitudine”, un editoriale di Michele Ainis che di bello ha solo il titolo
Del buon uso della storia
A voler essere duri si potrebbe parlare di
disonestà intellettuale. O forse no… Probabilmente si tratta solo di deformazione professionale… Certo, quando si scrive un editoriale non si può ricominciare ogni volta da Adamo ed Eva. Già il buon Panebianco, spesso esagera. Però non è del politologo liberale che
desideriamo parlare (il quale, tra l’altro, la storia la conosce, e molto bene), ma di
Michele Ainis, costituzionalista e firma del “Corriere della Sera”, che ieri se ne è uscito così :
«Rovesciare lo sguardo sul passato è come sporgersi da un pozzo:
ti fa venire le vertigini. E t’impaurisce, perché il passato è un fondo d’acque
limacciose. Sarà per questo che guardiamo sempre al dopo, come se ogni giorno
la vita stia per cominciare. È un errore: il futuro dipende dal passato. Vale
per gli individui, vale per la società nel suo complesso. E vale per l’Italia,
da tempo immersa in una stagione di «eccezionalità costituzionale». L’ha
definita così Napolitano, auspicando il restauro della norma, della regola.
Quale normalità? E dov’è stata, fin qui, l’eccezione? A girarsi indietro sui vent’anni della
seconda Repubblica, due fenomeni si stagliano sopra tutti gli altri: la
verticalizzazione del potere; la sua concentrazione personale. Entrano in crisi gli organismi
collegiali, dal Parlamento che la Costituzione situa a fulcro del sistema, ma che
ormai appare come una folla d’anime perdute; ai Consigli regionali, le cui
imprese allietano la cronaca giudiziaria, non più quella politica. Lo stesso
Consiglio dei ministri - che ai tempi della prima Repubblica costituiva il
crocevia nel quale s’intessevano gli accordi fra i partiti di governo - viene
offuscato e sormontato dal faccione del leader, del Gran Capo di turno».
L’editoriale,
dal titolo immaginoso (“Vent’anni di solitudine”), pur omaggiando lo studio del passato, poi prosegue secondo le linee
della solita frittata di melanzane e
cipolle formalistiche, concentrandosi sul nominalismo (“Re Giorgio”, invece di
Presidente Napolitano, “Premier” invece di Presidente del Consiglio”, che
orrore, eccetera). Come se le parole fossero le cose… O la forma, la sostanza…
Allora
dov’è la ciccia? Nel buon uso della storia. Di lungo periodo, però... Infatti, il personalismo
in politica, non è un prodotto della
Seconda Repubblica. Si potrebbe risalire ai papiri con le liste dei faraoni egiziani. La stessa storia politica
dell’Italia è piena zeppa di personalità
carismatiche, o tendenzialmente tali, che hanno dato il nome a lunghe stagioni
politiche: Cavour, Crispi, Giolitti, Mussolini, De Gasperi, Moro e
Fanfani, Craxi, Berlusconi. Uomini “speciali”, presenti anche a sinistra: Bissolati, Matteotti, Turati, Gramsci, Togliatti, Berlinguer. In
qualche misura, e tra le altre cose, la crisi della sinistra italiana, iniziò in sordina dalla morte di Togliatti, per prendere l’abbrivio dopo la scomparsa
di Berlinguer. Ma il punto non è questo.
Come
insegna la scienza politica, gli uomini tra l’essere governati dalle leggi o da altri uomini, spesso, se non
di regola, preferiscono il governo di un uomo, al quale, per proiezione
psichica, essi amano attribuire qualità straordinarie. Si tratta di una costante metapolitica che
trasversalmente segna la storia e i regimi
politici. Altro che Seconda Repubblica… Insomma, il fattore analitico decisivo, prima che costituzionale ( formale ) è storico e sociologico (di sostanza).
Certo,
il costituzionalismo moderno, ha tentato - anche giustamente -
di limitare il fenomeno del personalismo
politico e della "verticalizzazione" del potere, conseguendo però risultanti
alterni. Perché, alla fin fine, è come cercare di invertire il corso dei fiumi, per farli risalire dal basso verso l’alto… E a questa
scuola appartiene il professor Ainis…
Perciò
inclineremmo per la tesi della deformazione
professionale, ovviamente, con qualche spruzzo di cordiale antipatia verso
Renzi…
Carlo Gambescia
Nessun commento:
Posta un commento