La sfida jihadista
Dopo i tragici fatti di Parigi, la
nostra impressione è che l’Europa non
abbia alcuna intenzione di affrontare “fuori
casa” la sfida jihadista. Insomma, di schierare la sua forza militare e
tecnologica per contrastare il fenomeno nelle aree dove si va pericolosamente espandendo. Al riguardo rinviamo
a un articolo di Carlo Pelanda in cui sono indicate alcune linee di intervento scalare nel quadro, a suo avviso auspicabile, di una "alleanza occidentale” rivolta verso il comune nemico esterno (*).
Tuttavia, per ora, le uniche misure in discussione sono di tipo interno: maggiori controlli, più collaborazione
tra le forze di polizia, maggiori potere
all’Intelligence, istituzione di superprocure (come in Italia), aumento delle
pene. Altro che ferree alleanze geopolitiche con gli Stati Uniti, tra l'altro, se ci si passa la semplificazione, di Obama-rivestiti e piuttosto svogliati… L’ottica europea sembra essere la stessa della lotta alla criminalità e al terrorismo politico interno. E
qui risulta interessante porsi una domanda:
perché una questione militare viene
ridotta a pura questione di polizia?
In primo luogo, perché la pubblica
opinione europea è debellicizzata: per
una serie di ragioni storiche legate
alla tragica guerra civile 1914-1945, l’Europa
di oggi, quasi a tutti i livelli, rifiuta non solo la guerra ma la cultura militare in quando tale.
In secondo luogo, le classi politiche non possono non
assecondare la tendenza pacifista. E per due ragioni: a) di legittimità istituzionale e politico-culturale ( sono andate
al potere nel 1945, promettendo una pace duratura); b) di conservazione del potere (una guerra provocherebbe inevitabili spostamenti di potere dai civili
ai militari, mentre le forze di polizia
dipendono e dipenderanno sempre dall’autorità
civile).
Sicché, all’attacco l’Europa preferisce, la difesa… Al militare, il poliziotto… Insomma, l’Europa continuerà a mettere fiori nei suoi cannoni... Fino a quando?
Carlo Gambescia
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