L’ "apertura" della Corte di Cassazione
Metapolitica di Totò Riina ( e della
mafia)
A prima vista si rischia di non capire
perché gli stessi che sono contrari alla pena di morte e al carcere a vita, pretendono
invece che Totò Riina muoia in carcere. La
risposta deve andare oltre
la solita argomentazione politica
dei due pesi due misure, di volta in volta usata, a rimbalzo, nei talk show televisivi.
Allora qual è la ragione vera? Per scoprirla bisogna interpellare la metapolitica. E in particolare la "logica" amico-nemico: una regolarità, per l'appunto metapolitica, di natura extragiuridica. Soprattutto, se si vuole capire cosa accade, come poi vedremo, quando tale logica sia condotta alle sue ultime e nefaste conseguenze, ossia alla trasformazione del nemico da relativo
in assoluto. E in modo peculiare nei riguardi di un nemico pubblico ma interno, come nel caso italiano.
Inutile girarci intorno, la mafia, negli anni, ha subito quel processo di reductio a male assoluto, universale, che ne ha fatto il capro espiatorio dei mali relativi, particolari, italiani. Insomma, la si è tramutata in risorsa politica, strumento mobilitante. In altre parole nel mezzo da usare per un fine politico: la sconfitta dell’ avversario, da coprire di vergogna, e, se possibile, rinchiudere in carcere, buttando via le chiavi.
Inutile girarci intorno, la mafia, negli anni, ha subito quel processo di reductio a male assoluto, universale, che ne ha fatto il capro espiatorio dei mali relativi, particolari, italiani. Insomma, la si è tramutata in risorsa politica, strumento mobilitante. In altre parole nel mezzo da usare per un fine politico: la sconfitta dell’ avversario, da coprire di vergogna, e, se possibile, rinchiudere in carcere, buttando via le chiavi.
Ciò
è comprovato dal fatto che sulla mafia
si è sviluppata una macro-letteratura,
in senso lato (estesa al cinema, alla musica, all’arte, eccetera), di natura complottistica, che ha finito per conquistare l’immaginario
collettivo, nei termini di lotta del Bene contro il Male. La parola mafia, di
conseguenza, ha perso qualsiasi valore contestuale, relativo, divenendo
sinonimo di malaffare sociale e politico, qualcosa di assoluto. In che modo?
Assumendo un valore anatemico: il
mafioso, di qualsiasi genere, è un
colpevole da maledire e immolare alla
società civile, o comunque da escludere
per sempre dal consorzio umano.
Ma,
allora, si dirà, che fine ha fatto il
mite e razionale diritto liberale? Resta tale, ma
non per quel nemico che subisce la reductio a male assoluto. Il che spiega, per tornare sul punto, la
natura metapolitca, delle categorie amico-nemico: categorie che persistono. Insomma, che attraversano le varie forme storiche di regime politico. Come dire, per rendere l'idea? Che esistono, a prescindere. E con le quali anche il liberalismo non può non fare i conti, soprattutto, ripetiamo, come in questo caso, dinanzi al nemico interno.
Certo, rimangono dischiusi, proprio perché la nostra è una società liberale - quindi con una sua unicità storico-ideologica (non sociologica) - degli spazi di libera contestazione: perché da un lato, la società liberale, aperta e pluralista, permette che i giudici, come nel caso di Riina, possano essere miti, interpretando il diritto positivo in chiave umanitaria e relativistica, per l’altro consente alla politica di essere dura, colpendo, sempre per mezzo di provvedimenti legislativi, in modo inesorabile, il nemico assoluto. Le cose, nonostante tutto, sono più complicate di come sembrino.
Il che quindi, proprio perché implica una dialettica, non significa che non possano esistere, al contrario, giudici non umanitari e politici umanitari. Ciò spiega la diversità delle sentenze giudiziarie e delle reazioni politiche: il giudice che considera Riina un nemico assoluto non lo farà mai uscire dal carcere, il politico che vede in Riina un povero vecchio sofferente, che ormai ha pagato, quindi un nemico relativo (anche in virtù, per ricaduta, del colpo inferto alla mafia), sarà favorevole alla sua liberazione. E così via, per ruoli intercambiabili.
Certo, rimangono dischiusi, proprio perché la nostra è una società liberale - quindi con una sua unicità storico-ideologica (non sociologica) - degli spazi di libera contestazione: perché da un lato, la società liberale, aperta e pluralista, permette che i giudici, come nel caso di Riina, possano essere miti, interpretando il diritto positivo in chiave umanitaria e relativistica, per l’altro consente alla politica di essere dura, colpendo, sempre per mezzo di provvedimenti legislativi, in modo inesorabile, il nemico assoluto. Le cose, nonostante tutto, sono più complicate di come sembrino.
Il che quindi, proprio perché implica una dialettica, non significa che non possano esistere, al contrario, giudici non umanitari e politici umanitari. Ciò spiega la diversità delle sentenze giudiziarie e delle reazioni politiche: il giudice che considera Riina un nemico assoluto non lo farà mai uscire dal carcere, il politico che vede in Riina un povero vecchio sofferente, che ormai ha pagato, quindi un nemico relativo (anche in virtù, per ricaduta, del colpo inferto alla mafia), sarà favorevole alla sua liberazione. E così via, per ruoli intercambiabili.
Quel
che però va compreso - dialettica o meno - è che la
metapolitica finisce sempre per vendicarsi, dal momento che il
discrimine tra nemico relativo e
assoluto è di tipo sociologico (non storico o ideologico), ossia, se ci si perdona la brutta espressione,
concerne il tasso di assolutismo o relativismo (presi in se stessi) che contraddistingue la
percezione collettiva del nemico. Quanto più un nemico è visto come il male
assoluto, tanto più verrà trattato come tale. E tanto più una società, nel suo complesso (ecco il punto fondamentale), sarà crudele verso di esso.
Come
evitare la deriva (socialmente) disumanizzante? Tentando di relativizzare il “male” mafia. Evitando gli anatemi e il cortocircuito politico-mediatico-giudiziario a sfondo letterario-complottistico. L’esatto contrario di ciò che è avvenuto in Italia. In questo senso la
sentenza della Cassazione che ritiene Riina meritevole "del diritto a una morte
dignitosa", rappresenta un passo, seppure timido (ne siano consapevoli o meno i giudici), verso la relativizzazione del nemico mafioso. Attenzione, non della sua “minimizzazione”, ma in direzione di una mite e liberale ri-umanizzazione del nemico.
Il che
ovviamente, non può piacere, in primis, a coloro che Leonardo Sciascia definiva i professionisti
dell’anti-mafia...
Carlo
Gambescia