martedì 6 giugno 2017

L’ "apertura" della Corte di Cassazione
 Metapolitica di Totò Riina ( e della mafia)



A prima vista si rischia di non capire perché gli stessi che sono contrari alla pena di morte e al carcere a vita, pretendono invece che Totò Riina  muoia in carcere.  La risposta   deve andare  oltre  la solita argomentazione politica  dei due pesi due misure, di volta in volta  usata, a rimbalzo, nei talk show televisivi. 
Allora qual è la ragione vera?   Per scoprirla bisogna interpellare la metapolitica.  E in particolare la "logica"  amico-nemico: una  regolarità, per l'appunto metapolitica,  di  natura  extragiuridica. Soprattutto,  se si vuole  capire cosa accade, come poi vedremo,   quando  tale logica sia  condotta alle sue ultime e nefaste conseguenze,  ossia alla trasformazione del nemico  da relativo in  assoluto.  E in modo peculiare  nei riguardi di un nemico pubblico ma  interno, come nel caso italiano.  
Inutile girarci intorno, la mafia, negli anni,  ha subito quel processo  di reductio a male assoluto, universale, che ne ha fatto il capro espiatorio dei mali relativi, particolari, italiani. Insomma, la si è tramutata  in risorsa politica,  strumento mobilitante.  In altre parole  nel  mezzo  da usare  per un fine politico: la sconfitta dell’ avversario, da coprire di vergogna, e, se possibile, rinchiudere in carcere, buttando via le chiavi.   
Ciò è comprovato dal fatto che sulla mafia  si è sviluppata  una macro-letteratura, in senso lato (estesa al cinema, alla musica, all’arte,  eccetera), di natura complottistica, che ha finito per conquistare l’immaginario collettivo, nei termini di lotta del Bene contro il Male. La parola mafia, di conseguenza, ha perso qualsiasi valore contestuale, relativo, divenendo sinonimo di malaffare sociale e politico, qualcosa di assoluto. In che modo? Assumendo un  valore anatemico: il mafioso, di qualsiasi genere, è  un colpevole da maledire e  immolare alla società civile,  o comunque da escludere per sempre dal consorzio umano.
Ma, allora,  si dirà, che fine ha fatto il mite e razionale  diritto liberale?  Resta tale, ma non per quel nemico che subisce  la reductio a male assoluto. Il che spiega,  per tornare sul punto, la natura metapolitca, delle categorie amico-nemico:  categorie che persistono.  Insomma, che attraversano  le varie forme storiche di regime politico. Come dire, per rendere l'idea?  Che esistono,  a prescindere. E con le quali anche il  liberalismo  non può non fare i conti, soprattutto, ripetiamo, come in questo caso, dinanzi al nemico interno.
Certo, rimangono dischiusi,  proprio perché la nostra è una società  liberale -  quindi con una sua unicità storico-ideologica (non sociologica) -  degli spazi  di libera  contestazione: perché da un lato, la società liberale, aperta e pluralista,   permette  che i giudici, come nel caso di Riina,  possano essere miti, interpretando il diritto positivo  in chiave umanitaria e relativistica,  per l’altro consente alla politica di essere dura, colpendo, sempre per mezzo di provvedimenti legislativi,  in modo inesorabile,  il nemico assoluto. Le cose, nonostante tutto, sono più complicate di come sembrino.
Il che quindi,  proprio perché implica  una dialettica, non significa che non possano  esistere, al contrario,  giudici non umanitari e politici umanitari.  Ciò spiega la diversità delle sentenze giudiziarie e  delle reazioni politiche: il giudice che considera Riina un nemico assoluto  non lo farà mai uscire dal carcere, il politico che vede in Riina un povero vecchio sofferente, che ormai ha pagato, quindi un nemico relativo (anche in virtù, per ricaduta,  del  colpo inferto alla mafia), sarà favorevole alla sua liberazione. E così via,  per ruoli intercambiabili.
Quel che però  va  compreso - dialettica o meno -   è che la metapolitica finisce sempre  per vendicarsi, dal momento che il discrimine  tra nemico relativo e assoluto  è di tipo sociologico (non storico o ideologico),  ossia, se ci si perdona la brutta espressione, concerne  il tasso  di assolutismo o relativismo (presi in se stessi) che contraddistingue la percezione collettiva del nemico. Quanto più un nemico è visto come il male assoluto, tanto più verrà trattato come tale. E tanto  più una società, nel suo complesso (ecco il punto fondamentale), sarà crudele verso di esso.
Come evitare la deriva (socialmente) disumanizzante?  Tentando di relativizzare il “male” mafia. Evitando gli anatemi e il cortocircuito politico-mediatico-giudiziario a sfondo letterario-complottistico.  L’esatto contrario di ciò che è avvenuto in Italia.  In questo senso  la sentenza della Cassazione  che ritiene Riina meritevole "del diritto a una morte dignitosa",  rappresenta un passo, seppure timido (ne siano consapevoli o meno i giudici),  verso la relativizzazione del nemico mafioso. Attenzione,  non  della  sua “minimizzazione”,  ma  in direzione di una  mite e  liberale ri-umanizzazione del nemico.  
Il che ovviamente, non può piacere, in primis, a coloro che Leonardo Sciascia definiva i professionisti dell’anti-mafia...

Carlo Gambescia