lunedì 4 settembre 2023

Pierfrancesco Favino, il protezionista

 


Si respira una brutta aria. È grave che Pierfrancesco Favino evochi un’idea degna del Ventennio: il protezionismo.  

Il popolare attore invita produttori e registi a privilegiare gli attori italiani. Come si trattasse del pistacchio di Bronte. Evidentemente non bastano più i programmi di cucina della Rai tutti imperniati sul “chilometro zero”.

Se c’è un valore senza confini va ravvisato nell’arte e nella cultura. E se anche il cinema è arte e cultura non si capisce perché gli attori non possano essere “intercambiabili”. Perché un italiano deve essere più bravo di un americano e viceversa? Ovviamente parliamo degli attori bravi, non dei “cani”. Si dirà che gli attori americani, con Hollywood alle spalle, sono per forza più popolari. Basta piagnistei. Anche l’Italia ha avuto grandi attori, attrici, registi, tuttora notissimi, anche se scomparsi da anni.

Inoltre, asserire, come fa Savino, che i grandi personaggi storici italiani debbano essere interpretati solo da attori italiani è veramente roba da Luigi Freddi. Che Mussolini nel 1934 mise a capo della Direzione generale della cinematografia, potentissima lunga mano dello stato sul cinema: “l’ arma più potente del regime”.

Insomma, roba da retrogradi, da uomini delle caverne in camicia nera.

E cosa ancora più grave nessuno contesta, a destra (dove sono finiti gli ultimi liberali?) come a sinistra (ora più statalista addirittura di Giorgia Meloni), un’affermazione che maleodora di nazional-fascismo culturale: l’Italia rischia di ricadere nel pozzo nero del peggiore provincialismo culturale. Altro che valori di respiro universale.

Il nazionalismo, soprattutto culturale, che è una forma di protezionismo, è scorciatoia per cervelli pigri. Roba da latifondisti della cultura che producono quel tanto e non più. Come asseriva Pareto, il protezionismo è il socialismo degli imprenditori che sono nemici del mercato e del rischio. Il protezionismo è il nemico delle imprese favorevoli solo alle forme di mercato che si possono controllare con l’aiutino dello stato.

Si produce un capovolgimento di valori: non è il mercato, con le sue leggi dell’offerta e della domanda, che controlla l’imprenditore, ma l’imprenditore che controlla il mercato, con la complicità dello stato. Insieme decidono quel che si deve consumare nel caso specifico anche al cinema: “prodotti” italiani.

Gli economisti, anche quelli della cultura (esiste una apposita disciplina), spiegano che quanto più il mercato è ristretto tanto più si riduce la sfera delle scelte consumatore. Per capirsi: si può anche andare al cinema tutti i giorni, con il biglietto sociale (come del resto è accaduto quest’ anno), ma per vedere che cosa? Film mediocri.

In futuro, se vinceranno i protezionisti (il clima è questo), le pellicole saranno sempre più mediocri, perché quando si pone un limite all’espansione del numero dei consumatori di film, restringendo il consumo al mercato nazionale o europeo (come se il nazionalismo europeo in linea principio fosse diverso dal nazionalismo italiano, francese, tedesco, eccetera), l’imprenditore da creatore di reddito si trasforma in percettore di reddito: perché investire e rischiare se lo stato garantisce in forma diretta o indiretta, entrate non elevate ma sicure? Detto alla buona: meglio una triste mesata che una cattiva giornata.

Del resto crediamo che sulla mediocrità del cinema italiano attuale  nessuno possa più nutrire dubbi.

Un Fellini  parlava al mondo ed era ascoltato dal  mondo. Stesso discorso per attori e attrici. Il che motivava i produttori, favorendo un circuito virtuoso, con effetti a cascata sulla distribuzione. Di fatto, in termini di fama, viviamo ancora sulle fortune di Mastroianni e Sofia Loren. Cosa che non accadeva né ai registi e attori italiani, attivi nel Ventennio, né accade, a parte qualche rara eccezione, ai Mastrandrea ai Servillo, ai Giannini (figlio), attori difesi di Favino. Quando si dice il caso.

Attenzione: in Italia il mediocre cinema di oggi è fin troppo assistito. Ci si preoccupa di perequare dal punto di vista assistenziale i “lavoratori” del cinema a tutti gli altri lavoratori, che in larga parte non scelgono il lavoro che fanno. Mentre chi fa cinema, a tutti i livelli, sa benissimo perché lo fa. È una scelta. Però oggi chi fa cinema non vuole accettare i rischi di un “lavoro” bello e maledetto. Solo per dirne un’altra: oltre allo stato ci sono anche le Regioni a finanziare film mediocri che non vede nessuno.

Ecco, se vogliamo ridurre alla sua essenza il discorso protezionista di Favino, la si può ravvisare nella costrizione per lo spettatore di sorbirsi mediocri film finanziati dalla Regione Molise (sia detto con tutti il rispetto per i simpatici e laboriosi molisani). Alla radice del protezionismo ritroviamo lo stato ( o la Regione) che sceglie, non l’individuo.

In ultima istanza, nel cinema vero, quello che vuole parlare al mondo, decide il botteghino: che, sia detto per i democratici, soprattutto di sinistra, resta la più alta forma di democrazia. Quella della consumatore. Piaccia o meno.

Dicevamo all’inizio del brutto clima che si respira. Il lettore avrà finalmente capito perché: si guarda indietro al cinema di Freddi e Mussolini. Si vuole tornare al passato. Quel che invece non è cambiato è il servilismo di certi attori, abili nel fiutare i cambiamenti di vento: fascisti con Mussolini, comunisti con Togliatti, eccetera, eccetera.

Ora, corsi e ricorsi, di nuovo fascisti e protezionisti con Giorgia Meloni, che prontamente ha rinnovato le provvidenze per il cinema… Tanto lo spettatore è un cretino che manda giù di tutto.

Carlo Gambescia

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