mercoledì 27 settembre 2023

Napolitano, Berlusconi e i necessari bocconi amari della democrazia parlamentare

 


Basta sfogliare i quotidiani organici (“Il Giornale”, “Libero”, La Verità, “Il Tempo”) per capire quanto la destra continui a detestare anche da morto, Giorgio Napolitano.

L’accusa principale resta quella di aver tramato per far cadere nel novembre del 2011 il governo Berlusconi IV, in carica dal maggio del 2008. Per durata il secondo governo nella storia della Repubblica, preceduto solo dal Berlusconi II (2001-2005).

Più che di trame parleremmo però di un clima di sfiducia determinatosi nel paese e nella maggioranza che sosteneva il governo. Del quale lo stesso Berlusconi era consapevole. Clima non proprio sereno già presente all’indomani delle elezioni vittoriose, in seguito amplificatosi sulla spinta delle correnti di opinione antiberlusconiane. Un’atmosfera politica che però non fu risolutiva per la caduta del governo.

Infatti, non avendo più i numeri (ma per poco), il Cavaliere si dimise senza fare tante storie e poi votò il Governo Monti. Nessuna opposizione durissima e vendicativa, nessun appello alle piazze di Forza Italia.

Del resto la stessa lunga durata del Berlusconi IV, che aveva già superato la scissione di Fini, attesta che da parte del Quirinale non vi era alcun progetto prestabilito per far cadere il governo del Cavaliere.

Ovviamente Napolitano, uomo di sinistra, e con più di qualche lettura, non poteva non tener conto, culturalmente parlando, della cappa di crescente malumore che avvolgeva e opprimeva il governo del Cavaliere

In realtà, se proprio di “complotto” si vuole parlare, va detto che Berlusconi, che non era un signor nessuno e aveva i suoi addentellati nei vari settori della società civile, della magistratura, e dell’amministrazione pubblica (polizia, carabinieri ed esercito inclusi ), se avesse voluto, avrebbe potuto puntare i piedi, recuperare i pochi voti che gli mancavano in Parlamento e continuare a governare fino al termine della legislatura.

Il punto è che Berlusconi temeva di diventare impopolare: non avrebbe mai preso le inevitabili misure economiche poi varate da Monti. Non voleva “passare alla storia”, come invece è accaduto al suo successore, come una specie di “carnefice” di pensionati, commercianti, impiegati statali, geometri, commercialisti, partite Iva, eccetera.

In sintesi: Berlusconi, sapeva benissimo che si doveva intervenire, ad esempio, sulle pensioni, ma temeva che gli italiani – l’Italia profonda, quella del Masaniello piccolo-borghese, che oggi vota Meloni – non lo avrebbe mai perdonato.

Se complotto fu, il Cavaliere lasciò fare. E in questo modo, probabilmente senza volerlo, salvò la continuità istituzionale. Perché? Per la semplice ragione che nella storia delle democrazia parlamentare, fin dalle lontane origini britanniche,il rovesciamento di un governo, come risultato di una pressione esterna, cavalcata anche dalla dialettica delle passioni e degli interessi della pubblica opinione, ha sempre giocato un ruolo non secondario.

Il punto fondamentale resta quello del senso della misura. Capire dove ci si debba fermare. Soprattutto sul piano delle reazione politica dopo la defenestrazione. Che riguarda soprattutto i “defenestrati”. Cioè la loro capacità di “incassare” il colpo.

Ad esempio, la Terza Repubblica francese, che visse di rovesciamenti parlamentari, spesso improvvisi, durò settant’anni (grosso modo dal 1870 al 1940). La Repubblica di Weimar, altrettanto instabile, si spense neppure dopo quattordici anni (1919-1933). L’Italia repubblicana sotto questo profilo ha superato la longevità della Terza Repubblica francese: viaggia per gli ottant’anni.

Per dirla brutalmente: la democrazia parlamentare, implica il boccone amaro. Una democrazia parlamentare ha regole tacite che qualche volta prevedono il colpo basso. E la capacità di incassarlo. Ovviamente, se si vuole che la democrazia duri. Si chiama, come detto, continuità istituzionale. E implica la condivisione. Altrimenti, se si passa al colpo su colpo, se si accetta la spirale dell’odio complottista, accade che ai Guizot seguono i Napoleone III, ai Giolitti i Mussolini.

Vittorio Emanuele II, con il secondo Proclama di Moncalieri, nel novembre del 1849, sciolse la Camera, per ottenere una maggioranza favorevole a ratificare il duro trattato di pace imposto dall’Austria vittoriosa, promettendo però di salvaguardare la continuità istituzionale del parlamento liberale. I deputati si fecero “defenestrare”, gli elettori votarono una Camera pronta a ratificare, il Re mantenne la sua parola. Vittorio Emanuele II si guadagnò l’appellativo popolare di “Re Galantuomo”.

Anche nel 2011 la continuità istituzionale fu garantita. Sebbene grazie alla fifa di Berlusconi. Atteggiamento che oggi, ovviamente, la destra politica e giornalistica, non ama ricordare. Di qui le accuse di complotto, di vittima sacrificale, eccetera, eccetera. La nobilitazione. Come pure le dure critiche a Napolitano, perfino da morto.

In realtà, la vera domanda è un’altra. In una situazione simile a quella del 2011, come si comporterebbe Giorgia Meloni?

La risposta ai lettori.

Carlo Gambescia

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