Ieri abbiamo recuperato un film su Raiplay (quando ovviamente funziona): “Welcome Venice” (2021) diretto da Andrea Segre. Nell’ incipit si apprende che la pellicola ha goduto di un finanziamento del fondo per il cinema e gli audiovisivi della Regione Lazio. Ma questa è un’altra storia…
Il film non è male, attori e sceneggiatura (scriviamo all’antica) reggono. Però guardandolo abbiamo pensato al generale Vannacci. Per la semplice ragione che i due estremi politici si toccano. Come e perché? La base cognitiva comune alla destra e alla sinistra degli anni Duemila sembra essere il primitivismo: nel senso di un approccio alla realtà come idealizzazione di un sistema di vita arcaico e fortemente identitario ( torna, in fondo, l’antico mito dell’età dell’oro).
Se a destra si guarda alla casta militare, eroica, eccetera, eccetera (Vannacci), a sinistra si guarda a un antico mestiere, il pescatore di “moeche” o granchi (Segre): una forma di casta anch’essa, perché il mestiere di pescatore, come un tempo quello di militare, si trasmetteva di padre in figlio. Quasi una corda al collo.
Si dirà che il pescatore di moeche rispetto a un generale, “pescatore” di soldati, è meno dannoso all’umanità. Giusto.
Però nel film di Segre si attacca radicalmente il turismo di massa, e ancora più aspramente, per così dire, l’ “industria” del turismo di massa. Nella pellicola, il fratello affarista vuole sfrattare il fratello pescatore che vive alla Giudecca, interessante riserva etnografica dal punto di vista antimoderno, per fare della sua malandata casetta un B&B.
Detto altrimenti: come il libro di Vannacci ruota intorno al concetto di legittima difesa da migranti, “omosessuali”, eccetera, il film di Segre vuole difendersi dal turista di massa.
Il comune nodo di fondo è il seguente: Vannacci e Segre non hanno mai digerito la modernità. che, piaccia o meno, è libertà di movimento. Regola che però deve valere per il migrante come per turista.
La contraddizione di Segre, che ha diretto non pochi film e documentari in difesa dei migranti, è di voler decidere lui chi meriti di “muoversi” o meno. Insomma, due pesi due misure: Segre scorge nel migrante un proletario, vittima disgraziata della modernità capitalista, mentre vede nel turista un invasore, soprattutto se americano, solo perché cavalca allegramente l’onda della globalizzazione turistica.
Qui però, non ci si faccia ingannare, i due estremi di nuovo si toccano: perché se Vannacci si preoccupa dell’identità italiana messa a rischio dal migrante di massa, Segre si schiera dalla parte dei pescatori di moeche (e più in generale dei veneziani), la cui identità è messa a rischio dal turismo di massa.
Vannacci e Segre idealizzano la stessa forma identitaria arcaica (l’Italia e Venezia come romanticamente erano…), quindi privilegiano cognitivamente il prima al dopo. In questo modo entrano però in conflitto con la società moderna, che invece è società di individui portati a spostarsi in massa, perché giustamente attirati dalle crescenti opportunità che si offrono sul piano del tempo libero come del lavoro.
“L’aria della città rende liberi”. Antico adagio che certifica le origini dell’individualismo moderno. Che risalgono almeno all’anno Mille. I secoli successivi videro prima il contadino fuggire in città per sottrarsi al patriarcalismo feudale, per poi trasformarsi nel tempo in borghese.
Si nutre invece grande antipatia verso “l’inurbato”, visto come un potenziale mercante: Segre lo vuole pescatore a vita, Vannacci, con la spada a difendere il solco tracciato con l’aratro.
La scelta di Segre e Vannacci è antropologica. Di fondo. Netta. Antimigliorista. Una vera e propria rivolta contro l’individualismo moderno, giudicato fonte di tutti i mali e nemico dello spirito identitario. Spirito che invece anima – qui il succo reazionario del loro discorso – il pescatore di moeche e il cittadino-soldato.
Vannacci però è un autodidatta, nel senso che, nonostante le sue tre lauree (così dice), sembra non sapere nulla di sociologia. Quindi ignora di essere primitivista. Come il Monsieur Jourdain di Molière non sospetta di parlare in prosa. Il che però non implica il “condono”, per la serie “dio perdona loro perché non sanno quello che fanno”.
Mentre Segre è addirittura dottore di ricerca in sociologia della comunicazione. Quindi dovrebbe riconoscere subito i pericoli del primitivismo come pure dell’identitarismo. E invece no. Perciò Segre non ha neppure l’alibi dell’ignoranza come il generale.
Però, alibi o meno, sta di fatto, che il risultato è lo stesso: il rifiuto della modernità.
Carlo Gambescia
Nessun commento:
Non sono consentiti nuovi commenti.