Vedere la firma di Giovanni Orsina sul “Giornale” ferisce di per sé. Poi scoprire che difende le ragioni del “conservatorismo” della destra che governa (sono obbligatorie le virgolette, poi spiegheremo perché), assomiglia al classico coltello rigirato nella piaga.
Giovani Orsina è uno storico brillante. Però con la mania di scrivere per i giornali. Di sentirsi importante, soprattutto se si tratta dei quotidiani a grande tiratura, quindi influenti.
Influenti? Forse ai tempi di Albertini e in seguito di De Gasperi. Ma questa è un’altra storia.
In realtà, e parliamo anche per esperienza personale, sui giornali importanti si devono pesare le parole, ma anche sulla stampa minore, soprattutto se politica, non si scherza. Il giornalismo, piaccia o meno, è un esercizio di autocensura.
Però, a un certo punto, ci si può anche stancare. E quando e se il problema economico non è decisivo si può tranquillamente lasciar perdere, per concentrarsi sui libri seri, soprattutto l’accademico. Perché si rischia.
Che cosa? Di solito la produzione accademica del professore che si dedica all’attività giornalistica – a parte qualche rarissima eccezione – risente troppo dell’ attualità, come problemi e contrasti. Si veda l’ultima produzione di uno scienziato politico del calibro di Giovanni Sartori determinata dall’ossessione-Berlusconi. Poco più che mediocre.
Per tornare a Orsina, quel che si legge oggi sul “Giornale” non sarebbe mai “passato” sulla “Stampa” e su “Repubblica”. Orsina, se non erriamo, collabora anche alla “Stampa”. Evidentemente qualcosa non ha funzionato. E Orsina ne ha tratto le conseguenze. Comunque sia, sono affari suoi.
Ma veniamo al punto. Come è possibile che Orsina, che ha studiato a fondo il berlusconismo e altri fenomeni storici italiani, possa credere che l’ideologia dio, patria e famiglia sia spendibile sul piano politico? Cioè, può esserlo, ma in chiave disfunzionale non funzionale. Come il fascismo fu per l’Italia: funzionale nel breve periodo, disfunzionale nel lungo.
È di ieri la seguente dichiarazione di Giorgia Meloni dinanzi a un pubblico di reazionari, Orbán in prima fila.
«Serve “una grande battaglia” per “difendere la famiglia”, perché difendere la famiglia significa “difendere Dio, la nostra identità e tutto quello che ha contribuito a costruire la nostra civiltà”, ha detto la presidente del Consiglio Giorgia Meloni, nel corso del suo intervento in inglese al Budapest Demographic summit. “Viviamo in un periodo in cui tutto quello che apprezziamo è esposto a degli attacchi. Questo è pericoloso per la nostra identità nazionale, religiosa, familiare. Questo nuovamente richiama l’attenzione sui nostri diritti e deve far scaturire la forza per difendere i nostri diritti” perché “senza questa identità non siamo altro che meri numeri”, ha aggiunto il premier» (*).
Dio, identità, famiglia (esclusivamente quella tra persone di sesso diverso), sono un passo indietro. Ecco perché parliamo di reazione e non di conservatorismo. Si torna a una miscela ideologica del passato, pericolosissima: il nazional-cattolicesimo. Che non ha nulla in comune con la civiltà occidentale, come si è sviluppata nei secoli moderni, e soprattutto dopo l’assalto, fortunatamente ben contrastato, di nazisti, fascisti e comunisti.
Il nazional-cattolicesimo appoggiò i regimi fascisti. Si pensi a Franco in Spagna. Ma, a dire il vero, due fratelli coltelli, come Hitler e Stalin, in tempi diversi (il primo durante l’ascesa, il secondo in guerra) sollecitarono l’aiuto dei cristiani, protestanti e ortodossi, evocando la triade dio, identità e famiglia. Insommma Meloni e Orbán sono in bruttissima compagnia. Ma quale conservatorismo…
Ora, un storico come Giovanni Orsina come può dar credito a questa “gentuza” per dirla nella lingua di Cervantes? Che nel lungo periodo ha provocato solo rovine.
La sinistra vuole la tabula rasa? Può darsi. Il giacobinismo non è mai morto. Tuttavia, si può ridurre la politica, solo perché "funzionante" e "funzionale", a un conflitto tra fascisti e giacobini?
Crediamo che Orsina ragioni come quei liberali falliti, di destra, come Salandra, già interventista, confluiti nel listone fascista del 1924, che, anche dopo il delitto Matteotti, continuarono a credere nel fascismo, perché “funzionava”: in Italia era tornato l’ordine, si diceva, grazie ai fascisti. Una mezza verità. Il fascismo, se funzionò nel breve, non funzionò però nel lungo periodo. E con quali catastrofici risultati…
Dispiace dirlo, ma crediamo che Giovanni Orsina soffra della sindrome di Salandra. Dal momento che non basta che le cose funzionino a breve. Di presbiopia può soffrire un politico, non uno storico.
Il funzionalismo storiografico giustifica quasi sempre i vincitori. E poi per dirla con il grande Walter Maturi delle Interpretazioni del Risorgimento (Einaudi editore, Torino 1965, p. 433), per un intellettuale è sempre antipatico aderire ai regimi illiberali…
Carlo Gambescia
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