La sociologia della conoscenza un tempo si insegnava, e con profitto, nelle facoltà di sociologia e persino di scienze politiche. Oggi, invece, la si è smembrata in numerose microdiscipline, probabilmente per quel processo di moltiplicazione delle cattedre che caratterizza una struttura universitaria, in Italia, largamente pubblica. E così abbiamo la sociologia dei processi culturali, sociologia della comunicazione, sociologia della ricerca e dell’innovazione, eccetera.
Chi ci segue si chiederà che razza di rapporto ci può essere tra la sociologia della conoscenza e la guerra scatenata dai russi in Ucraina, cavallo di battaglia, tristemente diciamo, dei nostri quotidiani interventi.
Presto detto. La sociologia della conoscenza, che rinvia a maestri della disciplina come Karl Mannheim, studia le costanti culturali e l’interazione tra cultura e comportamento sociale e politico.
Per fare un esempio, e per entrare in argomento, perché la Russia, nel senso della sua dirigenza politica e sociale, continua a comportarsi come la Russia sovietica? Perché, per andare ancora più indietro, la Russia sembra ricalcare le orme della Russia zarista?
Altra domanda, perché l’Occidente euro-americano, sembra invece aver rimosso l’idea di guerra, e continua a ragionare in termini di negoziati, trattati e così via? Insomma, a privilegiare la ragione rispetto alla forza? Per inciso, ciò è vero fino a un certo punto, perché poi la verità sociologica si vendica delle razionalizzazioni umane, spesso a fondo a giustificatorio e illusorio, come provano l’inevitabile invio di armi agli ucraini e il progressivo coinvolgimento strategico dell’Occidente.
Diciamo che, storicamente, in Russia la cultura del contratto non ha mai attecchito, e per varie ragioni: assenza di un ceto borghese; di città, la cui aria rendeva liberi i contadini dalle catene feudali; di una distinzione tra stato patrimoniale e stato di diritto; di una mancata separazione tra stato e chiesa, eccetera, eccetera. E va anche sottolineato, che i russi, intellettuali inclusi (in larga parte), sono sempre stati fieri della loro diversità, e prontissimi ad accrescerla e difenderla anche con le armi. Come provarono le riforme di Pietro il Grande, che predicava il progresso tecnologico, senza però voler cambiare i rapporti di proprietà nella campagne. In altri termini: gente moderna a metà, incapace di tradire l’ oscuro fondo più “asiatico” che “euro”, risalente ai tempi del medievale dominio mongolico-turco.
Di qui, anche per reazione, non solo verso Oriente ( dopo però averne incamerato i costumi politici), la nascita e il proliferare delle correnti politiche slavofile e panslaviste, vivissime anche negli anni del comunismo, sebbene sotto una mano di vernice proletario-internazionalista, come ai tempi di Stalin e Breznev. Ma anche le grandi avventure militari.
Insomma, l’ abitudine a regolare tutto con la forza. Avventure spesso culminate in disastri, come le sanguinose guerre russo-ottomane, contro il Giappone, fino alla stessa Prima guerra mondiale, cui seguì una terribile guerra civile di natura rivoluzionaria.
Diciamo pure che la vittoriosa estensione politico-militare, quasi fino all’Adriatico, dopo la Seconda guerra mondiale, rappresenta il culmine di un processo secolare (circa trecento anni), di espansione a Ovest, al quale però si è opposta, dopo la dissoluzione dell’Unione sovietica, la ripresa del flusso contrario, da Ovest e Est, della cultura occidentale, invece assai apprezzata da larga parte dei popoli dell’Europa orientale. Come prova la larga partecipazione di questi popoli alle vicende della storia europea, prima ancora che russa: dall’espansione, non pacifica, del Mangraviato di Brandeburgo, agli effetti di ricaduta culturale delle straripanti dinastie jagellonica e degli Asburgo, Solo per fare alcuni esempi.
Ora, a questa cultura, di tipo asiatico, antropologicamente e culturalmente erede della violenza sistematica, dei popoli nomadi contro i popoli sedentari, l’Occidente, oppone la moderna cultura del contratto, che giunge fino all’utopistico rifiuto della guerra. Cultura che ha radici illuministe e che giudica l’uomo plasmabile e riplasmabile culturalmente. E soprattutto capace – l’uomo – di capire, una volta per tutte, che la violenza deve essere bandita dalla storia.
Per ridurre la differenza culturale tra Russia e Occidente euro-americano a un’unica radice, così come dettata dalla sociologia della conoscenza, la si può rinvenire nel rifiuto della cultura illuminista.
La storia dell’illuminismo russo di breve periodo, ristretto in particolare alla contraddittoria figura di Caterina II, amica di filosofi ma anche del pugno di ferro, può essere ben riassunta, in negativo, a distanze di decenni dalla morte di Caterina, dal moto rivoluzionario decabrista (1825), sostanzialmente rifiutato dal popolo ignorante come dalla reazionaria aristocrazia russa, tra l’altro creatura nelle mani dello zar fino al 1917.
Il moto decabrista fu la classica rivoluzione passiva, per dirla con il Cuoco, per certi aspetti, come quella napoletana del 1799.
Pertanto, in termini di sociologia della conoscenza, la Russia di Putin e l’Occidente di Biden, a prescindere, dalla qualità dei politici, non comunicano né possono comunicare. E Zelensky, che parla la lingua dell’ Occidente, doveva essere ascoltato prima. Dall’Occidente. Invece di irriderlo, come Bismarck con i nobili polacchi: “Sotto il manto di zibellino, nascondono la biancheria lisa”.
Si tratta del classico dialogo tra sordi. O comunque sia, si parlano lingue profondamente diverse: sintetizzando, quella delle armi e quella degli avvocati.
Il che non facilita le soluzioni, in particolare quelle pacifiche. Di qui la forte possibilità di una soluzione militare della “crisi” ucraina. Perché, come detto, piaccia o meno, la verità sociologica, della sociologia della conoscenza, anche se la si smembra in cattedre, si vendica sempre.
Carlo Gambescia
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