venerdì 12 novembre 2021

SULLA POLITICA COME PROFESSIONE


 

 Francia,  Gran Bretagna, Spagna, sono paesi che negli ultimi dieci anni  sono riusciti a esprimere leader nuovi:  si  pensi a  Macron, Sánchez, Johnson, solo per fare qualche nome.  

È vero che l’Italia ha espresso Giuseppe Conte. Ma qui ci riferiamo  ai  leader  usciti  dai  quadri tradizionali ( o quasi)  della classe politica, cioè leader con esperienze politiche pregresse. Detto altrimenti: professionisti della politica.   

In Italia, un caso del genere può  essere rappresentato da Renzi,  che ha una  formazione tutta politica. Ma il discorso riguarda anche  Matteo Salvini, Giorgia Meloni e altri.   Politici puri,   di professione,  che però arrancano. Non riescono a sfondare. Come, per contro, non ha sfondato Conte, privo di  qualsiasi formazione politica.  

Purtroppo, in Italia, dopo Tangentopoli e la lunga galoppata di Berlusconi,  sembra  prevalere   l’idea che i leader debbano provenire dalla società civile o dalla tecnocrazia economica e  bancaria, perché, si dice, capaci e onesti.

Il fatto  che  i risultati siano stati più che modesti sembra non preoccupare gli Italiani. I quali, alle  prossime elezioni,  potrebbero  addirittura andare a votare in massa Fedez...  

Al  di là delle battute (ma fino a un certo punto), si pensi agli  esempi di Ciampi, poi  di   Monti,   ora di  Draghi.  Persone sicuramente oneste. Ma politicamente capaci?  Veri professionisti della politica?  Bah...

In realtà,  il problema è stato ben posto, celiando da Croce:  “Cari cittadini,  vi fareste operare da un chirurgo onesto ma incapace, o disonesto ma capace?”.   

In Italia, come pare,  almeno a far tempo  dalle tempeste moralistiche  degli anni Novanta,  l’idea di politica come professione  è malvista e giudicata peggio. Per tornare alla metafora crociana. Si preferisce il suicidio: farsi operare dal chirurgo incapace ma onesto.   

Insomma, ci siamo incamminati lungo  la strada sbagliata. Ciò non significa che il politico disonesto vada premiato... Ma che è  preferibile non mettere in discussione il concetto di professionismo politico

Il professionismo politico è la  modernità.  Rientra nell’ambito dell’idea moderna di divisione del lavoro, di possesso di alcune qualifiche specifiche,  di retribuzione del lavoro svolto,  nonché  - attenzione -   di capacità di guardare alle cose politiche da un punto di vista generale.

Insomma, il politico moderno come esperto in “generalismo”.  E qui rinviamo alle celebri pagine di Max Weber.             

Può  sembrare paradossale, ma  in questo modo la politica come professione si riallaccia alla politica nel  senso più antico:  di protezione della città, della polis. Si pensi a  una  funzione  protettiva,   capace di andare oltre i conflitti tra fazioni, mediando e includendo.  Scopo, non sempre  perseguito, che però aveva ed ha un suo importante  valore regolativo.

Sotto questo aspetto, più ci si allontana dal professionismo politico, più si perde la visione generale delle cose.   Con questo si vuole dire  che  un economista, un banchiere,  un imprenditore, ma anche un professore, un generale, un  filosofo,  un medico, un prete, non avranno mai una visione generale delle cose. E quindi la possibilità  tradurla  in decisione politica.

Si prenda, ad esempio  la lunga storia dell’epidemia, pardon pandemia, di cui non si scorge la fine.  

Che significa, in questo caso, possedere  una  visione generale delle cose?  

Capire che l’insistenza sulle misure  di sicurezza rischia di  tarpare le ali a un ritorno alla vita normale, ritorno che deve rappresentare l’obiettivo generale. Che ovviamente dai nostri improvvisati politici non viene negato,  ma a parole.

Mentre  di fatto, visto che non si tratta di professionisti della politica, di “generalisti”, si traduce nel pendere dalla labbra  di  medici ed  esperti. Alimentando confusione, proteste e risposte autoritarie.  

Parliamo di una visione "panoramica"  che i  cosiddetti esperti, proprio perché conoscitori di un solo “ramo” del famoso albero,  non possono avere. Insomma, l’esatto contrario del  generalismo politico. Di qui, la palude, in cui siamo finiti, da cui, nonostante i proclami,  si rischia di non uscire più.

Si dirà, ma allora la divisione del lavoro?  La politica non la nega, anzi ne vive,  ma proprio perché tale il suo compito specifico è quello di vedere le cose dall’alto, di individuare e difendere un senso delle cose che va oltre, il senso, o i “sensi” particolari propugnati dai non specialisti della politica.

Ora, Sánchez, Macron, Johnson, non sono perfetti, anzi...  Tuttavia,  sono politici puri.  Certo  sbagliano, ma almeno  tentano di guardare lontano. Ci provano.  

In Italia invece, che accade?  Si celebra (da ultimo Bruno Vespa) l’autorevolezza di Draghi.

Che cosa significa autorevolezza? Avere stima, fiducia credito. In una parola essere influenti. E l’influenza quale rapporto può avere con la decisione politica?  Un  puro rapporto di neutralità.

L’influenza, al massimo è  un presupposto.  Che, proprio perché tale,  non  implica il possesso di una visione generale, capace di caratterizzare la decisione come impone il professionismo politico.

L’autorevolezza, rinvia, soprattutto quando si tratta di politici non di professione, a  qualcosa che ci si porta dietro  -  una specie di bagaglio - da una precedente professione.

Sicché un  banchiere può essere influente ma  al tempo stesso un pessimo politico.

Certo, si possono dare particolari congiunture storiche, sociali, stellari, eccetera. Tuttavia, preferiamo  lasciare  l'astrosociologia agli antichi saggi babilonesi.

Concludendo, l’influenza,  se non proviene dalla politica pura,  è uno scatolone pieno di sabbia.

Capita l’antifona?   

Carlo Gambescia        

    

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