Ieri discutendo con alcuni amici lettori sulle origini della Grande Guerra e sulle responsabilità italiane (*), mi sono accorto che a un certo punto le differenze si radicalizzavano fino a polarizzarsi sulla frattura tra fautori della pace, come rifiuto della guerra in quanto tale, e sostenitori della guerra, come inevitabile continuazione della politica con altri mezzi.
Quindi ho ritenuto inutile continuare a discutere… Anche come forma di rispetto per le opinioni altrui. Tutte lecite, soprattutto, come ieri, quando ben argomentate e, cosa che non guasta, avanzate in modo cortese.
Per venire al nodo della questione, sulla guerra e sulla pace esistono quattro posizioni.
La prima, pacifista, sostiene che la guerra va sempre rifiutata. Si deve fare il possibile per “espellerla” dalla storia. Il pacifista rifiuta non solo la guerra offensiva ma anche la guerra difensiva (in caso di aggressione). Per dirla con Max Weber, siamo davanti a un agire che non fa i conti, razionalmente, con la realtà, con le cose come sono, in termini di risorse e valori. Pura etica dei principi.
La seconda, semipacifista, ritiene che non ci si possa sottrarre alla guerra giusta, ad esempio difensiva, se attaccati, oppure per aiutare un alleato ingiustamente aggredito. Racchiude un inizio di azione razionale, perché accetta, anche se solo in parte, il principio del calcolo.
La terza, realista, ritiene la guerra inevitabile in alcune situazioni. Come nel caso della guerra preventiva, quindi offensiva, per mettere fuori gioco un nemico che può farsi in futuro pericoloso. Le uniche ragioni avanzate sono quelle del calcolo, sulla convenienza o meno di una guerra, considerata un mezzo politico, come un altro (ma si badi, non l’unico). Per dirla sempre con Weber siamo in pieno agire razionale rispetto allo scopo, nei termini di un serbatoio di risorse e valori. Pura etica della responsablità.
La quarta, ultrarealista, giudica la guerra una vera e propria continuazione della politica con altri mezzi, violenti nel caso. Ma in termini di unica soluzione di tutte le cose. Di qui, la non distinzione tra guerre giuste e ingiuste, ma anche i gravi errori di calcolo a causa di una irrazionale volontà di potenza non realmente rapportata a risorse e valori.
Il pacifismo, come pensiero politico strutturato, è un prodotto del XX secolo, frutto di una cultura umanitaria, dalle radici religiose, che affondano nella conquista pacifica, dall’interno, dell’Impero Romano d’Occidente.Tuttavia, una volta asceso al potere, il cristianesimo sostituì al pacifismo assoluto, il semipacifismo delle guerre giuste e il realismo delle guerre preventive, salvo ricorrere contro “gli eretici” all’ultrarealismo.
Il semipacifismo, spesso più che di convinzione è frutto di debolezza. Si pensi allo sconfitto, ad esempio, che di necessità fa virtù: semirazionalizza la sconfitta. Si pensi, all’Italia, che, sconfitta, ha inserito nella Costituzione il rifiuto della Guerra (art. 11), salvo poi evocare (art. 52), il concetto di guerra difensiva.
La terza concezione, quella realista, rinvia alla normale dinamica storica, segnata da guerra e pace, da nuove guerre, nuove paci, frutto di strategie, tattiche, alleanze, alle quali gli uomini mai rinunceranno. Diciamo che è una visione che si fonda sullo studio e l’osservazione della storia, quindi sui calcoli circa la necessità di fare la guerra o meno. Si potrebbe parlare di “realisti razionali”.
La quarta concezione, ultrarealista, rinvia ai fondatori di grandi istituzioni politiche ( o più semplicemente che hanno tentato), come imperi e monarchie ad esempio. Figure storiche (non facciamo nomi perché la scelta è ampia) che hanno sistematicamente usato la violenza per appagare una volontà di potenza che solo secondariamente sarebbe sfociata, quasi in modo inconsapevole, in una realtà politica di largo respiro.
Come si può capire “espellere” la guerra dalla storia è molto difficile, se non del tutto impossibile. E per una semplice ragione: non basta dire che non si vogliono avere nemici, per eliminare o evitare le guerre, perché, il semipacifista, il realista e soprattutto l’ultrarealista, scorgono inevitabilmente i nemici e agiscono di conseguenza. Le buone intenzioni non bastano. Si ricordi il famoso discorso, riportato da Tucidide, degli Ateniesi agli abitanti dell’isola di Melo: lasciandoli in pace, la debolezza mostrata avrebbe rappresentato un cattivo esempio, un invito a ribellarsi, per tutti gli altri stati e staterelli sotto la sfera d’influenza ateniese.
Né può valere la tesi all’educazione mondiale alla pace. Dietro la guerra, c’è una volontà di potenza, innata nell’uomo, che ciclicamente torna in superficie. Una volontà di potenza che si alterna con la volontà di pace, anch’essa forte. Il che spiega, anche per altre ragioni strutturali, i periodi di pace.
Tuttavia la guerra è sempre possibile e probabile. Di qui la necessità di non farsi cogliere alla sprovvista. Ma anche la pericolosità, per la sopravvivenza, del pacifismo puro, che ritiene sia sufficiente dichiarare di non volere nemici. In realtà è sempre il nemico a scegliere il suo nemico, indipendentemente dalle blandizie e arrendevolezze pacifiste.
Ciò che invece si può fare è regolamentare la guerra, fin dove possibile, via accordi internazionali, sul piano organizzativo circa l’ uso di armi troppo potenti, come di certe forme disumane e inutili di eliminazione fisica del nemico.
Ora, per tornare, alla discussione di ieri, il pacifismo del XXI secolo sembra essere molto forte nell’opinione pubblica, soprattutto dell’ Occidente euro-americano. Mentre non lo è in Cina, in Russia e nel mondo islamico.
Perciò prima o poi, l’Occidente, come l’Italia nel 1915, certo allora su scala più piccola, si troverà a fare delle gravi scelte.
Il discorso sull’utilità o meno di entrare in guerra nel 1915, dovrebbe spingere ancora oggi a discutere la questione dal punto di vista del realismo politico, della terza posizione, del calcolo, quella dei “realisti razionali”.
Per citare Max Weber, la discussione dovrebbe esclusivamente incentrarsi intorno all’ agire razionale rispetto allo scopo (come allora i giolittiani) o all’ agire razionale rispetto ai valori (come all’epoca l’interventismo democratico).
Tuttavia all’epoca giocarono un ruolo decisivo il pacifismo (allora socialista) e l’ ultrarealismo ( dei nazionalisti): alla fine vinsero gli ultrarealisti, persero i pacifisti. Va però ricordato che le due correnti rappresentavano ( e rappresentano) un’ irrazionale volontà di pace come di guerra, che subito dopo la fine del conflitto, seppellì le “ragioni razionali” dei giolittiani come degli interventisti democratici.
Come detto, l’Occidente, prima o poi, si ritroverà inevitabilmente dinanzi allo stesso dilemma del 1915. Dove sono oggi i “realisti razionali”?
Di qui, la possibilità, di una nuova pericolosa sfida, senza alcun ponte, tra pacifisti e ultrarealisti. Segnata dall’alternativa, secca e irrazionale, tra guerra o pace, senza condizioni.
Carlo Gambescia
(*) Qui l'articolo di ieri: https://cargambesciametapolitics.altervista.org/1915-1918-una-guerra-per-la-liberta/
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