Il realismo politico (e sociologico) deve molto all’opera di Ibn Khaldūn, straordinaria figura di Machiavelli nordafricano, vissuto un secolo prima del Segretario fiorentino, ma altrettanto acuto, seppure più timorato di dio. Un inciso, a sua volta, per par condicio storiografica, si potrebbe definire Machiavelli un Ibn Khaldūn italiano...
Ma veniamo al punto. Che intendiamo dire con il termine realismo politico e sociologico? Un approccio che studia la realtà umana e sociale per ciò che è e non per ciò che deve essere.
Per capirsi, ricordiamo due assiomi fondamentali, il primo politico: dove c’è un nemico, là c’è la politica, ergo prepararsi al conflitto, come pure alla cooperazione ma sempre in funzione del possibile conflitto; il secondo, sociologico: le buone intenzioni non bastano, quindi va privilegiata l’etica della responsabilità rispetto a quella dei principi, perché gli effetti perversi delle azioni sociali non perdonano.
Per dirla in termini poco togati, la vita è dura. E bisogna prenderne atto. Senza sconti per nessuno. Quindi guai a utopisti e sognatori politici.
Non per niente due maestri del realismo politico del Novecento, come Julien Freund e Gaston Bouthoul, hanno dedicato pagine importanti a Ibn Khaldūn e alla sua “Muqaddima”. Siamo davanti, insomma, come recita il titolo tradotto (“Prolegomeni”), a un’ introduzione di sopraffina scienza politica e sociologica alla storia universale. Di cui però si attende ancora, a centocinquant’anni circa dalla traduzione francese, la versione in lingua italiana (sembra ora in corso per i tipi di Bompiani…).
Immagini quindi il lettore la nostra gioia di sociologi realisti nel poter leggere, finalmente, una approfondita analisi del suo pensiero sociologico, “anche” attenta a questi aspetti. Ci riferiamo all’ottimo libro di Annalisa Verza, professore associato di Sociologia e Filosofia del diritto presso l’Università di Bologna: "Ibn Khaldūn. Le origini arabe della sociologia della civilizzazione e del potere" (*).
Il libro, che si dipana in cinque capitoli, armonici anche per numero di pagine (più o meno una media di cinquanta per capitolo), ha almeno quattro piani di lettura.
Il primo, rinvia alla storia della sociologia, alla grande e irrisolta questione dei suoi precursori e “inventori” (cap. I). Di qui, la verifica di una serie di raccordi, di anticipi e posticipi, tra Ibn Khaldūn e i padri del pensiero sociologico europeo. Ad esempio, la questione della asabiyya, concetto cardine khalduniano ( che può essere tradotto con “spirito di corpo”, “lealtà di gruppo”, come sottolinea l’autrice), precede chiaramente il dibattito otto-novecentesco, sul rapporto tra status e contratto, ben ricostruito da Robert Nisbet, sui vari tipi di solidarietà sociale e politica (cap. II).
Come del resto, altro fondamentale concetto khalduniano, il conflitto tra società nomade e sedentaria, alla base dei processi di conquista, consolidamento, degenerazione e caduta delle civiltà urbane (o marittime per dirla con Jacques Pirenne), rinvia al conflitto tra comunità e società, altro cavallo di battaglia di padri e classici della sociologia (capp. II e III). Tutti aspetti, puntualmente individuati da Annalisa Verza, che sembra privilegiare ma con cautela, la tesi dell’anticipatore (cfr. cap. I, par. 4.2).
Un secondo piano di lettura rimanda all’esegesi biografica e intellettuale dell’opera khalduniana e alle stratificazioni interpretative (in particolare cap. I) che riflettono a specchio ( o quasi) le mutevoli concezioni politiche, culturali, sociali e religiose succedutesi nel tempo. Per così dire, un Ibn Khaldūn per tutte le stagioni. Fondamentalista per i fondamentalisti, ateo per gli atei, materialista per i materialista per i materialisti, illuminista per gli illuministi, eccetera, eccetera.
Lo studio delle genealogie di pensiero, pur essendo importantissimo dal punto di vista della storia delle idee, rimanda al “Così è (se vi pare)” di Luigi Pirandello. Fermo restando, in questo caso, la dotta e impeccabile rassegna interpretativa, portata a termine dall’autrice, con una determinazione degna del capitano Achab, senza le stesse manie suicide, ovviamente.
Un terzo piano di lettura riconduce a quella che può essere definita l’euristica della crisi ( cap. IV). E perciò a una serie di concetti, in qualche misura operativi, utilissimi per il ricercatore. Ci riferiamo, ad esempio, alla tematica delle generazioni e ai successivi livelli di leadership: dal “costruttore” (il conquistatore, la prima generazione) al distruttore, (la quarta , il re fannullone), passando per i gradi intermedi dell’esemplarità (il figli del costruttore, la seconda generazione) e del tradizionalismo pedissequo (i nipoti, la terza). Un tema, tra l’altro interessantissimo, che ha affascinato, ancora di prima Mannheim e Sorokin il nostro Giuseppe Ferrari, sociologo ante litteram, oggi misconosciuto. Tutti insieme ovviamente anticipati da Ibn Khaldūn.
Il quarto e ultimo piano di lettura, è quello dell’attualità non solo politologica ma politica della “Muqaddima”. Qui, forse, la parte meno convincente dell’ottimo studio di Annalisa Verza. E per due ragioni. Innanzitutto, l’approccio di Ibn Khaldūn, nonostante l’eccellente fisionomia realista, resta olista: il pensatore non è un individualista metodologico. Sotto questo aspetto, non comincia mai dall’individuo, quindi dalla parte, ma dal tutto, come prova l’uso sistematico e pregiudiziale di un pur importante concetto come quello di asabiyya. È vero che privilegia il conflitto. Però lo usa in chiave olistica di contrasto tra gruppi, istituzioni o blocchi di società (ad esempio nomadi contro sedentari). Inoltre, sembra che tra i quattro tipi di azione weberiani, Ibn Khaldūn sottovaluti l’agire razionale rispetto allo scopo. Il che, proprio quando si occupa di economia, e di tasse eccessive, come fattore di crisi e decadenza, lo porta a ignorare la moderna tipologia degli investimenti in conto capitale, che rinvia alla libera impresa e ai processi di innovazione studiati da Schumpeter.
Del resto, però, si parla di un pensatore vissuto nel XIV secolo, quindi non può non essere così. Sarebbe anacronistico imputargli l’assenza di una mentalità capitalistica. Diciamo che Ibn Khaldun è al di là di Keynes come di Hayek. Da che mondo è mondo il fiscalismo è all’origine della caduta di imperi e stati: ma una cosa è il moderno welfare state (Keynes) o il libero mercato capitalistico (Hayek), un’altra le economie dell’harem. Si ricordi, come narra gustosamente Runciman, lo storico delle Crociate, lo stupore dei nobili europei, appena arrivati a Gerusalemme, a proposito dello stile, tipico delle economie dell’harem, imitato dai reucci crociati: dello spreco per lo spreco, assai lontano, da quella mentalità protocapitalistica che fece fare affari d’oro, con le Crociate, soprattutto le ultime, a Veneziani e Genovesi, alimentando gli sprechi dei principi Crociati, stanziali, pigri e arabizzanti.
Infine, il nodo dell’individualismo metodologico, in qualche misura, non consente a Ibn Khaldūn di approfondire la questione degli effetti perversi delle azioni sociali. Ovviamente il pensatore non sottovaluta il ruolo dell’eterogenesi dei fini. Si respira però nelle sua opera un clima durkhemiano, o se si preferisce, più modernamente, struttural-funzionalista, di assoluta inevitabilità e pesantezza dei fenomeni sociali. All’istanza costruttivista, del valore guerriero della coesione di gruppo, Ibn Khaldūn sembra affiancare certo determinismo anti-individualista. In sintesi: tutto ciò che è città, pur producendo ricchezza, è male, perché ha in sé i germi della inevitabile dissoluzione.
Pertanto, per tornare all’attualità di Ibn Khaldūn, quale ruolo potrebbe giocare il suo pensiero in una società come la nostra che celebra l’individuo e la città? Di ammonizione? Di non tirare troppo la corda? Ma se la decadenza è nelle cose (di città), come sottrarsi alle cose (di città)? Tornando al nomadismo guerriero? Nelle sue conclusioni, diremmo con una ammirevole abilità interpretativa, Annalisa Verza, parla di una asabiyya, anzi “super asabiyya”, democratico-liberale, capace di ricompattare il quadro politico dell’Occidente, ritornando alle nostre origini, che però - ecco il punto - sono urbane. Quindi, inevitabilmente, sempre secondo Ibn Khaldūn, condannate a perire.
Certo, resta l’individuo, nulla è definitivo... Però se alla parte si privilegia il tutto, ci si preclude ogni possibile di fuga. Tutto diventa definitivo.
E qui torniamo all’individualismo metodologico, e, politicamente parlando, al pensiero liberale, un pensiero “ di città”... Si può essere khalduniani e liberali al tempo stesso?
Carlo Gambescia
.
(*) Annalisa Verza, "Ibn Khaldūn. Le origini arabe della sociologia della civilizzazione e del potere", Franco Angeli, Milano 2018, pp. 280, euro 34,50; https://www.francoangeli.it/Ricerca/Scheda_libro.aspx?codicelibro=1525.55 .
Nessun commento:
Posta un commento