Massimo Maraviglia, che conosco da anni attraverso i suoi scritti, alcuni molto interessanti, è, come si dice, un intellettuale “impegnato”, più culturalmente che politicamente però. Insomma non ha mai studiato da ministro.
Genericamente, lo si potrebbe ricondurre a destra. Posizionamento che però Maraviglia non accetterebbe, ritenendosi probabilmente per visione della vita e idee un fascista, al di là della destra e della sinistra...
Ovviamente, non pensiamo al fascista pittoresco dei saluti romani, del “quando c’era Lui”, eccetera, eccetera.
Lo schema ideale e culturale di Maraviglia è quello del non conformista degli anni Trenta del XX secolo, ben descritto da Tarmo Kunnas, ne “La tentazione fascista”. In sintesi estrema: antiliberalismo e anticapitalismo sul piano culturale, olismo su quello metodologico, individualistico-estetizzante, con verticalizzazione dal sacro al trascendente, su quello antropologico-religioso.
Per farla breve, Massimo Meraviglia come non conformista degli anni Venti del XXI secolo
Il che dal punto di vista di una concezione del mondo individuale può essere accettato. Libertà di opinione, innanzitutto. Ci mancherebbe altro.
Qui risiede l’errore dell’antifascismo che mescola concezioni individuali e politico-partitiche, facendo di tutta l’erba un "fascio"... Costringendo, per reazione, uno studioso e docente di qualità, come Maraviglia, a scrivere articoli, come quello di ieri, altrettanto polemici. Il cui titolo è una specie di dichiarazione di guerra: “Perché la destra non può e non deve essere antifascista” (*).
Per un verso, non si può non essere d’accordo con Maraviglia, perché l’antifascismo ( come insegnano Del Noce e Noventa) non è che un fascismo rovesciato, un totalitarismo che da nero si fa rosso. Tuttavia, e questo è un primo limite del suo articolo, Maraviglia, sembra non tenere in considerazione, il momento totalitario che accomuna fascismo e comunismo. Si limita a ribattere, in chiave molto polemica, di critica del politicamente corretto, alle tesi dell’antifascismo “rosso”.
Dopo di che, e qui il secondo, pesantissimo, limite, Maraviglia elogia il fascismo, quello “nero”, o se si preferisce "rosso-nero", come visione del mondo, alla quale, la destra non può e non deve rinunciare.
Maraviglia si riferisce al fascismo come visione del mondo ma anche come pratica politica. Perché, come si legge, il fascismo avrebbe liberato la destra dai “bacchettoni”, in buona sostanza dalle frange ultraconservatrici.
In realtà, cosa sulla quale Maraviglia dovrebbe riflettere con maggiore attenzione, il fascismo ha conculcato, sempre a destra, i valori liberali (che non sono quelli dei liberal-socialisti che ci governano oggi), come, più in generale, ha oltraggiato la libertà pura e semplice dei cittadini: risucchiati dalla macchina centripeta monopartitica, via via sempre più totalitaria.
Un macchina infernale, per così dire, dalla quale la successiva “Repubblica dei partiti” non si è mai liberata, se non nel 1992-1994, per precipitare però nella “Repubblica giudiziaria e populista”.
Quindi se proprio di eccessi si desidera parlare, l’Italia dal 1922 ai nostri giorni ha peccato di totalitarismo, prima monopartitico poi pluripartitico a sfondo partitocratico. Dal momento che l’idea di partito-governo, e di riflesso quella di stato, come strumento di trasformazione sociale, quindi come fattore costruttivista, è rimasta sempre la stessa. Del resto i liberal-socialisti, che oggi governano in Italia, in mezza Europa e negli Stati Uniti, condividono con i fascisti la stessa idea della stato interventista.
Ecco, perché la destra, al contrario di quanto sostiene Massimo Maraviglia, non può non dichiararsi antifascista, come pure anticomunista e antiliberal-socialista. In una parola, antitotalitaria.
La destra deve essere liberale, nel senso di opporsi a ogni tendenza costruttivista e statalista. La lezione liberale, ben recepita nell’Ottocento, non è quella novecentesca dello stato sociale dal diritto motorizzato in nome dei diritti più vaghi e bizzarri, ma è quella del lasciar fare, lasciar passare, del lento mutare dei costumi, dell’autoriforma sociale, quando e se necessaria, senza alcun intervento dall’alto.
Il che implica una visione del potere non legata al conseguimento del consenso a ogni costo. Ma capace di nutrirsi di una concezione del potere, come istituzione sempre pronta a fare un passo indietro. Il che, lo ammettiamo, considerata la natura dell’uomo, può apparire utopico.
Però una cosa è partire da una visione non costruttivista, spontaneista, che accetta il rischio individualista, un’altra invece da un visione costruttivista, che in ultima istanza non crede nell’individuo. O comunque, se vi crede, celebra l’ individuo di domani, del dopo le riforme dall’alto eccetera, eccetera.
Ovviamente, ci si può rispondere, che esiste un fascismo-poesia sociale del XX secolo che non è statalista, che non è costruttivista, mai pienamente realizzato, eccetera, eccetera. Concediamo pure che si potrebbe dire la stessa cosa del liberalismo.
Aggiungiamo però che lo studioso di sociologia alla poesia preferisce la prosa dei fatti. Che insegna che il rapporto tra ideologia e realtà è molto complicato e che le buone intenzioni dei costruttivisti - ammesso che siano sempre buone - non bastano. C’è una cosa che si chiama effetto perverso delle azioni sociali.
Regola, ovviamente, che vale per tutti: fascisti, comunisti, liberali, socialisti, democristiani e così via.
Nessuno è perfetto. Perciò, meglio evitare i voli pindarici degli ingegneri sociali.
Dopo di che, per carità, come scriveva Max Weber, ognuno di noi resta libero di servire il proprio demone.
Carlo Gambescia
(*) Qui: https://vendemmietardive.blogspot.com/2021/10/perche-la-destra-non-puo-e-non-deve.html
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