Per dirla francamente, se una persona nel pieno possesso delle sue facoltà decide di togliersi la vita, non vediamo in questo nulla di male.
La vita, di fatto, appartiene all’individuo, non si può scegliere di nascere, ma si può scegliere di morire. E questo, ripetiamo, è un fatto.
Parliamo di libera scelta, non di diritto, perché il diritto, così come è inteso oggi (altra cosa invece quando si opponevano i diritti allo strapotere del monarca assoluto), indica una legislazione, che rinvia, per essere chiari, alle leggi dello stato e alla conseguente articolazione sociale del diritto in chiave organizzativa.
Insomma, il diritto, sia oggettivo che soggettivo, tramuta la libera scelta in scelta organizzata sulla base di regole che rinviano alla gestione pubblica del diritto stesso: una commissione medica ad esempio che dichiari se le ragioni individuali in base alle legge, eccetera, eccetera; un funzionario che certifichi se in relazione alla circolare attuativa, eccetera, eccetera. Commissioni, contro le cui decisioni, ovviamente, si potrà ricorrere, eccetera, eccetera. E così via in “saecula saeculorum”…
Detto altrimenti: la trasposizione organizzativa della scelta in diritto soggettivo, la trasforma in scelta non più libera, perché sottoposta a processi valutativi di tipo organizzativo.
Che poi siano leggi approvate dal Parlamento, non significa un bel nulla: perché un parlamento di statalisti farà sempre leggi stataliste. Come del resto un popolo di statalisti, voterà sempre parlamentari statalisti.
Il discorso potrebbe essere esteso ad altri “diritti”, in particolare i diritti sociali, che curiosamente quanto più guadagnano terreno, tanto più riducono la sfera della libertà individuale. I meccanismi oppressivi del welfare state, ne sono un esempio palmare.
Tornando alla libera scelta di morire trasformata in diritto, insomma regolamentata per legge, va precisato che non si tratta assolutamente di un progresso per libertà individuale, come invece si legge oggi su “ La Stampa”. Proprio perché, dove c’è regolamento, c’è organizzazione, e dove c’è organizzazione non c’è più libertà individuale. Quindi di storico, nella decisione enfatizzata da “ La Stampa”, non c’è un bel nulla. Sarebbe meglio non scherzare con la storia.
Ovviamente, le società o sono organizzare o non sono. Servono regole, eccetera, eccetera. Nessuno lo nega, tanto meno la sociologia. Il che però non significa che le regole siano un bene di per sé. Asserire ciò vuol dire sposare la devastante mentalità di coloro che promuovono regole su regole fino al punto di opprimere le singole persone privandole di ogni libertà in nome della libertà…
Può sembrare pazzesco, ma è proprio così. Si chiama eterogenesi dei fini sociali: si cancella la libertà in nome degli stessi diritti che, come si ripete fino alla nausea, ne dovrebbero essere l’augusto compimento. Per quale ragione? Perché presuntuosamente ci si impone di decidere in alto del bene dell’individuo, per così dire, in basso.
Commettendo in questo modo un errore cognitivo. Perché, come si può conoscere il bene dell’individuo meglio dell’individuo stesso? In realtà, il decisore pubblico, per dirla in sociologhese, non conosce i fatti, fatti individuali, se non sulle base di non sempre fondate medie sui comportamenti standard dei singoli. E qui, ripetiamo, il welfare state, basato su palafitte cognitive, ne è un esempio, e dei peggiori.
Ecco perché, attualmente, parlare troppo di diritti può essere pericoloso, perché sono diritti gestiti dallo stato, non dal singolo.
Come dice giustamente l’amico Carlo Pompei: si costruisce la gabbia, vi si chiude l’individuo, e di volta si decide se dargli o meno la chiave. “La gabbia dei diritti”, potrebbe essere il titolo di un libro in argomento…
Pertanto, meno regole ci sono, più la libertà del singolo è tutelata. Alle regole va posto un freno. E di certo, non vanno aumentate. Occorre un freno soprattutto dove non servono, come nell’ambito delle scelte individuali, tra le quali c’è la scelta di morire. In qualche misura, piaccia o meno, siamo davanti alla più alta forma di libertà.
Pertanto il vero progresso è quello di lasciare all’individuo la libertà di decidere quando e come morire , magari con un semplice atto notarile per tutelare gli eredi in previsione di una malattia invalidante. Oppure di procedere direttamente, “attuando” di persona o con un aiuto tecnico. Riteniamo, anche se non siamo del tutto sicuri, che allo stato attuale della legislazione, possa bastare una depenalizzazione.
Così, senza complicare le cose, un cattolico sarà libero di attendere la decisione di un dio che lo ama, eccetera, eccetera, un laico, di decidere quando e come, in nome della sua libertà, eccetera, eccetera.
Si chiama libertà di scelta. E nel Settecento, secolo che ancora ammirava gli antichi, si diceva, che fosse un morire da Filosofi.
Carlo Gambescia
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