George Floyd e la società Usa
Il razzista?
Una guardia bianca della
stupidità umana
Nella
società statunitense, grosso modo fino all’inizio del Novecento, successo e
ricchezza sono stati visti come una
benedizione, un segno della benevolenza divina, che premia il meritevole. Ovviamente, la secolarizzazione e la pratica sociale, come
in altre parti del mondo, hanno in seguito eliminato o quasi qualsiasi
riferimento ultraterreno al successo e
alla ricchezza, laicizzandoli, incidendo però sui livelli di loyalty.
Naturalmente,
anche negli Stati Uniti i meccanismi di redistribuzione
del valore individuale ed economico sono imperfetti, perché inevitabilmente dipendono dalle condizioni sociali di partenza, dalle reti fiduciarie, dalla fortuna, sorte o caso. In ogni società i processi di redistribuzione
(attraverso il mercato o attraverso lo stato) creano inevitabilmente scontento:
i posti in alto sono pochi, i candidati molti. Di conseguenza non tutti possono
farcela. Tuttavia, il tasso di loyalty, ossia
di rassegnazione e di consenso politico
e sociale, non può non dipendere dal grado di coesione sociale verso i valori dominanti, nel
caso americano, meritocrazia, successo, ricchezza.
Il che può creare "problemi". Perché in
qualsiasi società, se alle imperfezioni costitutive, ineliminabili a prescindere
dal regime economico e politico, vanno ad aggiungersi altri motivi di
scontento, come l’ideologia e la razza,
il consenso intorno ai valori base tende periodicamente a rarefarsi o
comunque a causare crisi
cicliche di dissenso sociale, segnate da azioni collettive di voice (protesta democratica) e in alcuni casi di exit (di
uscita dal sistema, anche attraverso la violenza rivoluzionaria).
L’
ennesima crisi che gli Stati Uniti
stanno vivendo in questi giorni non rimanda però a una critica del regime politico liberal-democratico e del sistema
economico capitalista, in termini di exit,
ma soltanto alla discriminazione razziale, in
termini di voice.
Detto altrimenti: coloro
che protestano scorgono nella discriminazione razziale un fattore limitante, dal punto di vista meritocratico, rispetto alla realizzazione di valori americani come successo e ricchezza. Si
tratta quindi di un voice sistemica.
Non è il 1917. Nessuna "crisi finale". Nonostante quel che riportano erroneamente, soprattutto gli insinuanti mass
media europei quasi tutti non immuni dal virus dell’antiamericanismo, la
protesta degli afroamericani, condivisa
tra l’altro da numerosi cittadini di origine etnica differente, rinvia alla voice per una maggiore eguaglianza formale. Si "lotta" per favorire una migliore selezione meritocratica. Nella
protesta, perciò (a parte alcune “frange lunatiche”) non c’è alcuna traccia di quel veleno anticapitalista che invece certo antiamericanismo
e anticapitalismo di destra e sinistra, soprattutto in Europa, si ostina a vedere. L’afroamericano
che protesta vuole essere integrato, non vuole distruggere alcun "sistema".
Quanto
al razzismo, siamo davanti ai residui mentali, al lascito culturale se si
vuole, della società aristocratica e
schiavista del Sud, che per sgocciolamento dall’alto è penetrato nel resto del Paese, seppure non in misura predominante, soprattutto
tra le fasce di popolazione meno istruite a basso reddito. Tra gli scontenti, spesso cronici.
Parliamo,
per le sue linee base, di una mentalità
di tipo feudale, imperniata sul servaggio, che con il capitalismo non ha mai avuto nulla a che vedere: anzi il
latifondismo sudista ha sempre rappresentato l’antitesi dei principi capitalistici come dei valori americani, in particolare circa la natura meritocratica del successo e
della ricchezza.
Il
razzista - cosa che deve essere concettualmente
chiara - combatte non per la supremazia
di una società aperta e meritocratica, ma
per una società chiusa e feudale. Mancando oggi i grandi proprietari terrieri sudisti, il
razzista, in genere un fallito sociale (quantomeno psicologicamente), è una
pura e semplice guardia bianca di un ordine primitivo. Un comportamento, insomma, autolesionistico.
Da stupidi, come i poliziotti che hanno ucciso George Floyd.
Carlo Gambescia