Smart
working per tutti? Calma e gesso…
L’
articolo di Rosaria Amato su "Repubblica" approfondisce ma non troppo la questione dello
smart working da casa (*). Del resto è un pezzo giornalistico, pieno di entusiasmo
per una svolta che si ritiene epocale.
A
dire il vero, la giornalista evidenzia alcuni punti interessanti sui quali
riflettere. Il più importante è quello della separazione tra tempo di lavoro e tempo
libero, si pensi ad esempio alla questione del diritto del lavoratore alla disconnessione,
oppure al diritto dell’impresa alla reperibilità del lavoratore.
In
realtà, però, sono questioni marginali.
Soprattutto dal punto di vista
delle possibili ripercussioni economiche di una crescente estensione dello smart working. Si rifletta: siamo dinanzi a un fenomeno che di regola abbraccia il lavoro d’ufficio, svolto attualmente da milioni di dipendenti. E qui si pensi solo per un momento alle conseguenze per i
trasporti, pubblici, privati, e indotto, nonché per la ristorazione e per il commercio: tutti
settori che sarebbero gravemente
penalizzati dalla riduzione del traffico quotidiano di impiegati in presenza, persone che attualmente si spostano, fanno carburante, colazione, pranzo, compere
e altre spese quotidiane.
In
economia, ogni mutamento ne provoca un altro, e così via a catena. E i
cambiamenti indotti da una estensione
diffusa dello smart working metterebbero in discussione l’esistenza di
interi settori del commercio. E - attenzione - in un momento di crisi come
questo, già difficile per centinaia di
migliaia di lavoratori. Di conseguenza, chiunque parli
dello smart working come grande opportunità post Covid, mostra di non sapere nulla di economia.
Si
pensi al noto adagio attribuito a Milton Friedman del “nessun pasto è gratis”. Ad esempio - letteramente! - la cessazione, e all’improvviso, del micro
fenomeno economico dei “buoni pasto”
(oggi, di fatto, trasformati in buoni spesa) determinerebbe
perdite secche per diversi miliardi di euro nella grande distribuzione alimentare. Ecco la riprova che in economia tutto si tiene, dal momento che la diminuzione di un costo aziendale (il buono pasto) rischia di trasformarsi in una perdita per altre aziende (le catene dei supermercati). Insomma, nessun pasto è gratis.
Pertanto,
sul piano economico, vanno tenuti a freno gli entusiasmi.
Quanto all’aspetto sociologico, il lavoro da casa, come noto, determina nel lavoratore dipendente un crescente
senso di oppressione, spesso fisico, con ricadute psicologiche, frutto
della sempre più avvolgente indistinzione tra tempo di lavoro e tempo libero; indistinzione, si badi, che invece nel lavoratore autonomo è compensata dalla sfida costante del miglioramento
economico e del perseguimento di un crescente e appagante senso di deferenza sociale. Tra un giornalista, un
commercialista, un avvocato, e l’impiegato di una impresa farmaceutica addetto
alla decriptazione dei “bugiardini” o
all’introduzione di dati socio-professionali su fogli elettronici, esiste una distanza sociale e morale
incolmabile. Quindi l'impiegato, come si legge, apparentemente desideroso di passare allo smart working non sa ancora bene cosa lo aspetterà...
Nel professionista il lavoro da casa ha motivazioni
fortissime: guadagno e soprattutto considerazione sociale; nell'impiegato il guadagno resta invece l’unica
motivazione, per giunta residuale e poco lucrosa, soprattutto quando manchi qualsiasi etica costitutiva del
lavoro. Sicché depressione e nichilismo passivo sono in agguato.
Come
si può intuire, la transizione allo smart working non è impresa facile. E sicuramente non aiuta
l’ingenuo entusiasmo di chi invece dovrebbe conoscerne le implicite
conseguenze.
Concludendo, smart working per tutti? Calma e gesso...
Carlo Gambescia