venerdì 26 giugno 2020

 Smart working per tutti?  Calma e gesso…

L’ articolo di Rosaria Amato su "Repubblica" approfondisce ma non troppo la questione dello smart working da casa (*).  Del resto è un pezzo giornalistico, pieno di entusiasmo per una svolta che si ritiene epocale.   
A dire il vero, la giornalista  evidenzia  alcuni punti interessanti sui quali riflettere.  Il più importante è quello  della separazione tra tempo di lavoro e tempo libero, si pensi ad esempio alla questione del diritto del lavoratore alla disconnessione, oppure al diritto dell’impresa alla reperibilità del lavoratore.  
In realtà, però, sono questioni  marginali.  Soprattutto  dal punto di vista delle possibili ripercussioni economiche di una  crescente  estensione  dello smart working.  Si rifletta:  siamo dinanzi a un fenomeno che di regola  abbraccia  il lavoro d’ufficio, svolto attualmente da  milioni di dipendenti.  E qui  si pensi solo per un momento  alle conseguenze per i trasporti, pubblici, privati, e indotto, nonché per la ristorazione e  per il commercio: tutti settori che sarebbero  gravemente penalizzati dalla riduzione del traffico quotidiano di impiegati  in presenza, persone  che attualmente si spostano, fanno carburante,  colazione,  pranzo,  compere  e altre  spese quotidiane. 
In economia,  ogni mutamento ne provoca un altro, e così via a catena. E i cambiamenti indotti  da una estensione diffusa  dello smart working  metterebbero  in discussione l’esistenza di interi settori del commercio.  E - attenzione -   in un momento di crisi come questo, già difficile per  centinaia di migliaia di lavoratori. Di conseguenza,  chiunque parli  dello smart working come grande opportunità post Covid,  mostra di non sapere  nulla di economia.

Si pensi al noto adagio attribuito a Milton Friedman del  “nessun pasto è gratis”.  Ad esempio - letteramente! -  la cessazione, e all’improvviso,  del  micro fenomeno economico  dei “buoni pasto” (oggi, di fatto, trasformati in buoni spesa)  determinerebbe perdite secche per diversi miliardi di euro nella grande distribuzione alimentare. Ecco la riprova che  in economia tutto si tiene, dal momento che  la diminuzione di un costo aziendale (il buono pasto) rischia di  trasformarsi  in una perdita per altre aziende (le catene  dei  supermercati).  Insomma,  nessun pasto è gratis.  
Pertanto, sul piano economico, vanno tenuti a freno gli entusiasmi.    
Quanto all’aspetto sociologico, il lavoro da casa, come noto,  determina nel lavoratore dipendente  un crescente  senso di oppressione, spesso fisico, con ricadute psicologiche, frutto della sempre più avvolgente  indistinzione  tra tempo di lavoro e tempo libero; indistinzione, si badi,  che invece nel lavoratore autonomo  è  compensata dalla sfida costante del miglioramento economico e del perseguimento di un crescente e appagante senso di  deferenza sociale. Tra un giornalista, un commercialista, un avvocato, e l’impiegato di una impresa farmaceutica addetto alla decriptazione dei  “bugiardini” o all’introduzione di dati socio-professionali  su fogli elettronici, esiste una distanza sociale e morale incolmabile.  Quindi l'impiegato, come si legge,  apparentemente desideroso di passare allo smart working non sa ancora bene cosa lo aspetterà...  

Nel professionista  il lavoro da casa  ha motivazioni fortissime: guadagno e soprattutto considerazione sociale; nell'impiegato il guadagno  resta invece  l’unica motivazione, per giunta  residuale e poco lucrosa,  soprattutto quando manchi qualsiasi etica costitutiva del lavoro. Sicché depressione e nichilismo passivo sono in agguato.
Come si può intuire, la transizione allo smart working non è impresa facile.  E sicuramente  non aiuta  l’ingenuo  entusiasmo di chi invece dovrebbe conoscerne le implicite conseguenze.
Concludendo, smart working per tutti?  Calma e gesso...

Carlo Gambescia