martedì 30 giugno 2020

“Batosta” per Macron alle  muncipali
L’elettore autolesionista

Al netto del voto di protesta contro Macron, quel che emerge dalle  municipali  francesi, è l’autolesionismo non solo dell’elettore francese, ma di tutti gli altri elettori,  ovunque vincano, e sembra capitare sempre più spesso, forze politiche ecologiste, verdi come si dice.  
L’elettore comune sembra ignorare che le politiche ambientaliste implicano leggi, regolamenti, divieti, nuove tasse. Per inciso, in Francia, anche Macron, liberale di sinistra, non è insensibile al tema ambientalista, tutt’altro... Ad esempio,  alle origini della protesta dei gilet gialli ritroviamo  la sua severa politica fiscale ambientalista.    
Insomma, comunque la si metta, ecologismo significa  meno libertà per tutti. E in nome di  che cosa? Dell’utopismo, pericolosissimo, a sfondo costruttivista, di liberare  l’intero pianeta, mediante l’introduzione dall’alto  di una rigida legislazione, come spesso si legge,    dai danni ambientali   e dagli sprechi causati invece dall’unico sistema economico, capace di garantire un livello di vita storicamente senza precedenti: il capitalismo.  
La gente comune, in particolare in Occidente,   non si rende conto  che quanto più crescono i costi delle politiche “verdi”, tanto più le nostre economie  si fanno  meno competitive.  Il che significa  meno ricchezza,  meno  benessere.  
Chiunque voti verde, vota contro se stesso. E in primis  la  regola  vale per quei  gilet gialli  che votando per il  sindaco ecologista  si sono  scavati la fossa (fiscale)  da soli.

Si dirà che si tratta di un concetto semplice. Eppure, l’elettore medio sembra non comprendere.  Per quale ragione? Perché  anni e anni di propaganda  politico-mediatica  alimentata dai tradizionali nemici dell' economia di mercato (verdi, per l’appunto, ma anche socialisti, comunisti, fascisti, liberali di sinistra, tradizionalisti religiosi e non), hanno prodotto e  veicolato  una  retorica capillare, inculcata nelle scuole  fin dalla più tenera età.
Un mantra, ormai annidatosi  nella mente dell’elettore, che si fa forte della falsa  idea  che un capitalismo regolamentato sotto il profilo ecologico  funzioni meglio: lo si chiama, in attesa di debellarlo,  "capitalismo sostenibile", come se fosse una malattia cronica...  Inoltre si promuove, soprattutto sui social, la romantica fantasia che le tasse ecologiche, unite ai divieti, favoriscano il ritorno a una specie di mondo edenico, dove il lupo e l’agnello, eccetera, eccetera.   
Utopie che invece rendono  la vita delle persone impossibile,  e da subito. E per una semplice ragione:  l’ecologismo impone controlli, i controlli necessitano di burocrazie,  e le burocrazie, finanziate con ogni genere di imposte e  tasse (ovviamente  crescenti),  sono per antonomasia il ritratto dello spreco e dell'inefficienza sociale. Detto brutalmente:  il cittadino paga  per vivere in prigione, o meglio per finanziare i suoi carcerieri.  Autolesionismo allo stato puro.


Non abbiamo accennato alla questione ecologica in sé, dal momento che secondo gli studiosi più seri  in pratica  non esiste: si tratta semplicemente della continuazione della guerra al capitalismo con altri mezzi, quelli dell’arrogante e predatorio  statalismo “postfascista” e  “postcomunista”. E della  relativa retorica politica, uguale persino nei dettagli.
Purtroppo, come si può intuire,  le spiegazioni razionali sembrano lasciare indifferente  la gente comune che invece mostra di  dare credito alla favola ecologista.  E votare di conseguenza.  Come è noto però, il sonno della ragione, eccetera, eccetera. 

Carlo Gambescia

                                                     



lunedì 29 giugno 2020

  L’appuntamento del lunedì…
Cappuccino, cornetto e  “Linea”

Il numero 18  è scaricabile gratuitamente  qui:



Editoriali, articoli, servizi di
Carlo Pompei, Roberto Pareto, Federico Formica, Carlo Gambescia e altri ancora...

domenica 28 giugno 2020

L’articolo di Riccardo Ficini
A proposito di  metapolitica…

Ringrazio, innanzitutto, il dottor Riccardo Ficini, studioso di filosofia politica,  della citazione nel succoso profilo dedicato alla  “metapolitica”  (*).
Ovviamente   riconosco  l’importanza del  taglio metodologico del suo articolo,  teso a ricondurre il concetto di metapolitica nell’alveo della filosofia politica. In particolare ho apprezzato  la giustificata attenzione  verso  una filosofia concreta del lessico concettuale: quel lessico che innerva, talvolta pregiudicandole, talaltra no, la cognizione e l'azione politiche.  
Tuttavia, l’ambito in cui si muove la mia ricerca è metodologicamente diverso,  non dico sia migliore, però, di sicuro diverso  da  quello del dottor Fucini.  A ciascuno il suo, ci mancherebbe altro.  
Io intendo la  metapolitica  quale  studio delle regolarità politiche e sociologiche  che caratterizzano l’azione politica, ossia dell’uomo in situazione:  regolarità  che non possono essere ignorate da chiunque si ponga seriamente  il problema dello studio teorico dell’uomo in ambito politico.  Si pensi, ad esempio, quanto a regolarità,  al conflitto amico-nemico,  alla struttura elitaria ed egemonica del potere, alle dinamiche protezione-obbedienza,  movimento-istituzione,  nonché al ruolo della "tradizionalità"  secondo i diversi tipi sociali,  eccetera, eccetera.
Insomma, la metapolitica come studio di ciò che non è transeunte, ma persiste,  pur nella diversità dei contenuti storici. Penso quindi a  una disciplina  di taglio scientifico,  che pur partendo dalla politica,  sia capace di andare oltre,  senza però mai  perderla di vista  nelle sue forme o regolarità metapolitiche, scientificamente acclarate,  ovviamente fino a prova contraria. Quindi, per capirsi,  popperianamente, falsificabili.

Di conseguenza, come ha ben rilevato il dottor Fucini,  uso distinguere tra  una teoria  metapolitica (come studio delle regolarità) e un’azione metapolitica (che rimanda all’attore sociale e alle sue pratiche situazionali): a un uomo, in questo secondo caso, che spesso inconsapevolmente, anche constrastandola, parla in prosa metapolitica senza neppure saperlo...
Diciamo che   - semplificando al massimo, quasi banalizzando  -  la metapolitica à la Carlo Gambescia  è una specie di sociologia-politologia storica  che si articola intorno all’uso euristico di alcune regolarità, storicamente osservate  (almeno finora). 
In sintesi, la metapolitica - certo, dal mio punto di vista - non deve occuparsi dello “stato ottimo”, come dovrebbe essere sotto l'aspetto etico-politico, ma dello stato, o meglio della politica, anzi del "politico",  di cui lo stato è una delle incarnazioni storiche,  come è.  

Carlo Gambescia

sabato 27 giugno 2020

Lucia Azzolina, la scuola di massa  e la decadenza  delle élite

Il ruolo   di Ministro della Pubblica Istruzione (per semplificare) è forse è uno dei più difficili. Perché? Per una ragione semplicissima: in una società in cui istruzione ed educazione (civica) di massa rappresentano la ragione stessa della sua esistenza, il Ministro della Pubblica Istruzione  si ritrova a svolgere  un ruolo che sconfina nell’utopia.  Di qui la difficoltà, se non l'impossibilità di portare a termine la sua missione. 
Ci spieghiamo meglio:  istruzione ed educazione, proprio perché di massa, non possono non tradursi, rispettivamente, in nozionismo e conformismo. In qualcosa di antimeritocratico per eccellenza.  Del resto,  la  scuola di massa, soprattutto nella sua versione dell’obbligo,  è l’esatto contrario di qualsiasi logica sociale elitaria: deve promuovere tutti per ragioni di consenso sociale.
Dinanzi a una situazione del genere, un ministro, se vuole restare tale, non può che assecondare, con  rarissime variazioni sul tema, la contraddittoria vulgata, come abbiamo visto,  sulla scuola di massa come strumento di elevazione sociale.  Di qui, le rituali promesse sui finanziamenti pubblici, sulla sviluppo della formazione, sull’assunzione di docenti, eccetera, eccetera. 
Il che significa anche un’altra cosa:  docenti e ministri, che non possono  non provenire  dalla stessa scuola di massa, hanno, in primo luogo,  una preparazione sommaria e, in secondo luogo, volenti o nolenti, devono attenersi al mito incapacitante della scuola di  massa come strumento di elevazione sociale. Quindi alla radice della questione non c'è un problema di scuola pubblica o privata (o comunque non solo),  ma di teoria e pratica (strettamente collegate) dell'antimeritocrazia, che si traduce in un abbassamento  dei valori  generali  di preparazione delle élite repubblicane. 
Di conseguenza,  perché meravigliarsi che un personaggio, in fondo seriale, come  Lucia Azzolina,  non sia  all’altezza del ruolo?  In Italia, fin dalla scuola primaria,  quel che non funziona è la selezione delle élite repubblicane,  perché le nostre istituzioni scolastiche  non rispondono a criteri meritocratici.  Ma non potrebbe non essere così, perché come abbiamo detto, la scuola di massa, sociologicamente, è una contraddizione in termini. Per dirla brutalmente,  come si può essere selettivi, se tutti devono essere promossi?  Se non si può negare a nessuno, il famigerato pezzo di carta?  
Scuola di massa è sinonimo di “diplomificio”. E quest' ultimo termine indica che il vero fondamento dell’intero sistema scolastico  ( primario, secondario  e perfino universitario), non è nella selezione meritocratica delle élite, ma nel perseguimento del consenso sociale, puntando sullo sviluppo crescente delle aspettative collettive.  Di qui, le promesse salvifiche, cui segue scontento sociale, quindi nuove promesse, nuovo scontento, e così via.  Fino a quando però?    

Carlo Gambescia                  

venerdì 26 giugno 2020

 Smart working per tutti?  Calma e gesso…

L’ articolo di Rosaria Amato su "Repubblica" approfondisce ma non troppo la questione dello smart working da casa (*).  Del resto è un pezzo giornalistico, pieno di entusiasmo per una svolta che si ritiene epocale.   
A dire il vero, la giornalista  evidenzia  alcuni punti interessanti sui quali riflettere.  Il più importante è quello  della separazione tra tempo di lavoro e tempo libero, si pensi ad esempio alla questione del diritto del lavoratore alla disconnessione, oppure al diritto dell’impresa alla reperibilità del lavoratore.  
In realtà, però, sono questioni  marginali.  Soprattutto  dal punto di vista delle possibili ripercussioni economiche di una  crescente  estensione  dello smart working.  Si rifletta:  siamo dinanzi a un fenomeno che di regola  abbraccia  il lavoro d’ufficio, svolto attualmente da  milioni di dipendenti.  E qui  si pensi solo per un momento  alle conseguenze per i trasporti, pubblici, privati, e indotto, nonché per la ristorazione e  per il commercio: tutti settori che sarebbero  gravemente penalizzati dalla riduzione del traffico quotidiano di impiegati  in presenza, persone  che attualmente si spostano, fanno carburante,  colazione,  pranzo,  compere  e altre  spese quotidiane. 
In economia,  ogni mutamento ne provoca un altro, e così via a catena. E i cambiamenti indotti  da una estensione diffusa  dello smart working  metterebbero  in discussione l’esistenza di interi settori del commercio.  E - attenzione -   in un momento di crisi come questo, già difficile per  centinaia di migliaia di lavoratori. Di conseguenza,  chiunque parli  dello smart working come grande opportunità post Covid,  mostra di non sapere  nulla di economia.

Si pensi al noto adagio attribuito a Milton Friedman del  “nessun pasto è gratis”.  Ad esempio - letteramente! -  la cessazione, e all’improvviso,  del  micro fenomeno economico  dei “buoni pasto” (oggi, di fatto, trasformati in buoni spesa)  determinerebbe perdite secche per diversi miliardi di euro nella grande distribuzione alimentare. Ecco la riprova che  in economia tutto si tiene, dal momento che  la diminuzione di un costo aziendale (il buono pasto) rischia di  trasformarsi  in una perdita per altre aziende (le catene  dei  supermercati).  Insomma,  nessun pasto è gratis.  
Pertanto, sul piano economico, vanno tenuti a freno gli entusiasmi.    
Quanto all’aspetto sociologico, il lavoro da casa, come noto,  determina nel lavoratore dipendente  un crescente  senso di oppressione, spesso fisico, con ricadute psicologiche, frutto della sempre più avvolgente  indistinzione  tra tempo di lavoro e tempo libero; indistinzione, si badi,  che invece nel lavoratore autonomo  è  compensata dalla sfida costante del miglioramento economico e del perseguimento di un crescente e appagante senso di  deferenza sociale. Tra un giornalista, un commercialista, un avvocato, e l’impiegato di una impresa farmaceutica addetto alla decriptazione dei  “bugiardini” o all’introduzione di dati socio-professionali  su fogli elettronici, esiste una distanza sociale e morale incolmabile.  Quindi l'impiegato, come si legge,  apparentemente desideroso di passare allo smart working non sa ancora bene cosa lo aspetterà...  

Nel professionista  il lavoro da casa  ha motivazioni fortissime: guadagno e soprattutto considerazione sociale; nell'impiegato il guadagno  resta invece  l’unica motivazione, per giunta  residuale e poco lucrosa,  soprattutto quando manchi qualsiasi etica costitutiva del lavoro. Sicché depressione e nichilismo passivo sono in agguato.
Come si può intuire, la transizione allo smart working non è impresa facile.  E sicuramente  non aiuta  l’ingenuo  entusiasmo di chi invece dovrebbe conoscerne le implicite conseguenze.
Concludendo, smart working per tutti?  Calma e gesso...

Carlo Gambescia


giovedì 25 giugno 2020

Il  tempestoso dibattito mediatico sul futuro del Covid
Tutti contro tutti



L’onesto articolo di  Paolo Giorgi (AGI) mette chiaramente in luce il corto circuito  in atto  tra scienza e giornalismo a proposito delle previsioni contrastanti sul “futuro” del Covid (*). Un impazzimento  che, per ricaduta,  sfocia  sul piano collettivo nell’esatto contrario del dibattito pubblico liberale. Insomma, nel  tutti contro tutti. E ferocemente. 
Ci spieghiamo meglio:  se per deliberare è necessario conoscere, spettatori e cittadini, dopo uno dei tanti arroventati programmi  e dibattiti televisivi di questi giorni, non sono  più grado né di conoscere né di deliberare… Ma solo, se ci si  passa l'espressione, "di menare".
Ieri parlavamo di caos calmo (*).  Il flusso di dati contrastanti, usati come proiettili dagli esperti, e amplificati dai media,  rafforza l’ immagine di una anormalità normale, ossia  di un caos, gestito in mondo (autoritario) calmo, dalle autorità politiche, che - ecco il punto -    allo scontro giornalistico-scientifico sulle differenti interpretazione circa la  natura e gli  effetti del Covid, risponde applicando estesamente il principio di precauzione (altro pericoloso strumento politico-concettuale).  Per capirsi: “ Io Governo, Io Stato, nell’incertezza scientifica, chiudo tutto”. Pertanto quanto più si dibatte, tanto più cresce il rischio dell’autoritarismo politico. Il Leviatano, se si vuole, che in cambio di obbedienza fornisce protezione.
Paradossalmente, il massimo  di   libertà può condurre al massimo di illibertà.  Per evitare, ciò che si può chiamare  il "paradosso della libertà",  servirebbe invece un grande senso di responsabilità da parte di politici, scienziati, giornalisti.  E soprattutto la consapevolezza che il dibattito scientifico è una cosa, quello giornalistico un’ altra,  la decisione politica un’ altra ancora.
Purtroppo le società hanno regole proprie, metapolitiche, e vivono di conflitti, sicché  per trasformare l’avversario in nemico, basta un attimo, soprattutto quando   manchi  nelle classi dirigenti (politici, scienziati, giornalisti)  senso di responsabilità.

Responsabilità.  In politica sembra quasi una parola magica:  tutti la evocano, nessuno sa cosa sia di preciso.  In realtà, non è molto difficile definirla: ha senso di responsabilità chiunque sia in grado di valutare le conseguenze delle proprie azioni. Ora, per un verso, è vero, che tutte le azioni hanno conseguenze, di regola, non prevedibili sul piano dell’effetto ricaduta collettivo. Ad esempio, iscriversi al  partito nazista, poteva essere giustificato per un ex soldato disoccupato a  causa del Trattato di Versailles, però  l’iscrizione in massa di ex soldati, avrebbe favorito, la nascita di un movimento politico,  che condusse  alla  morte per   guerra o per  fame dei figli dell’ex soldato.
Ma, per un altro verso, è altrettanto vero, che  il possesso del senso di responsabilità sul piano politico non può essere disgiunto  dalla conoscenza, indispensabile per un  politico, della lezione della storia e della sociologia.  E che cosa insegnano queste discipline?   Una cosa fondamentale:  che  è difficile, se non impossibile, prevedere le conseguenze delle decisioni politiche.  Insomma, il senso di responsabilità rappresenta l’esatto contrario del principio di precauzione. Insomma, un  politico responsabile  governa il meno possibile.  
E invece che cosa sta succedendo? Che si vuole governare il più possibile,  affidandosi al  parere della scienza, che,  proprio perché tale, non può non essere  falsificabile (in senso popperiano), quindi di mutare idee in  ipotesi  in continuazione:  altrimenti dovremmo  parlare  di religione e non di scienza. E quel che è peggio,  i pareri contrastanti degli scienziati (e ripetiamo non  potrebbe essere diversamente) sono usati come risorse mediatiche per “emotivizzare”, (come impone la logica comunicativa)  il  discorso pubblico. Per non parlare di quel che accade, e di peggio,  sui Social...

Un disastro, insomma. Altra acqua al mulino del caos calmo…  Il che spiega -  nuova prova dell’eterogenesi dei fini sociali -  la crescita dell’autoritarismo politico in nome del principio di precauzione, presentato, probabilmente anche in buona fede, come  strumento per difendere la nostra libertà,  che però, come si aggiunge in modo sibillino,  non può essere mai disgiunta dalla sicurezza…
Riassumendo, il  corto circuito mediatico tra  scienziati e  giornalisti  porta  alla  decisione dei politici di puntare sul  "precauzionalismo". Il che però mette a rischio la nostra libertà.   
Come uscirne? Mostrando senso di responsabilità. E come? Governando il meno possibile.                                                     


Carlo Gambescia




mercoledì 24 giugno 2020

La fase  “post Covid” che rischia di  non finire più
Caos calmo




Sono mesi che ripetiamo le stesse cose. Il Covid non è la peste del Terzo Millennio, colpisce  al  99 per cento anziani e  persone con “patologie pregresse”.   Chi invece  ha pagato veramente  - notizia di oggi  -  sono i malati di tumore al polmone  che non hanno potuto accedere alle terapie intensive , riservate in tutta Italia  al  diluvio  annunciato di casi di  Covid  che invece  non  si è verificato (*).
Sarà interessante scoprire, in termini di tassi di mortalità,  quel che la pandemia psichiatrico-politica,  reinventata da  governi  ammalati  o contagiati dal populismo,  ha  prodotto  nell'ambito delle altre patologie.  E, crediamo,  proprio  a causa della riduzione, anche in termini di spazi fisici,  dei piani terapeutici ai casi più gravi.  Nonché, altra cosa importante, del conseguente  azzeramento delle attività ambulatoriali di rivalutazione e prevenzione. Per inciso,  ecco rivelato l'autentico pericolo del  welfare totalmente dipendente da stato e governo: per condannare a morte un paziente  basta un colpo di spugna deciso in alto.  
Sotto i nostri occhi, come ripetiamo da mesi,  ciò  che poteva essere l’immaginazione di un disastro si sta  tramutando in terribile  realtà.  L’Italia è paralizzata, in  tutti  i settori.  Ci  si balocca con lo smart working,  misura che invece sta  falcidiando l’indotto economico e sociale che gravita intorno al mondo del lavoro in presenza: dalla ristorazione ai trasporti.  E presto, come osservava ieri il Sindaco di Milano, l’occupazione nel suo complesso,  con imprese  a profitto zero, non potrà non  risentirne gravemente.
Altro triste esempio. L’Italia sta andando  a fondo e il Ministro dell’Istruzione vuole passare alla storia  promettendo  la riapertura delle scuole a settembre “in totale sicurezza”. Ma dov’è il pericolo? Quando  al di sotto dei quindici anni, non ci sono state praticamente vittime?   
Tutto ciò è folle. E purtroppo  i richiami alla forza della ragione non sembrano assolutamente scuotere i governi populisti, o contagiati dal populismo   che continuano a  imporre divieti e  controlli. 
Regolarità  metapolitica:  il potere una volta che ha saggiato  la sua forza -  come ha provato il Lockdown -   difficilmente  è  disposto  a fare un passo indietro. Ovviamente, potere significa burocrazia, e burocrazia significa  caos apparentemente calmo.  Cioè,  che tutto rischia  di sembrare normale, incluse le inefficienze, le lentezze, le prepotenze (tipiche di ogni burocrazia),  perché i cittadini si comportano come spugne: assorbono, adattandosi  al peggio.  Sicché,  a poco a poco,   tutto finisce per sembrare normale.  Un caos, quindi, calmo…
L’italiano sembra subire, serenamente o quasi, tutto…  Come nel film di Moretti,  in cui un padre traumatizzato da un lutto familiare,  passa le sue giornate seduto su una panchina, aspettando che la figlioletta esca di scuola, “in sicurezza”, grazie all'incombente  figura  paterna che  domina con lo sguardo i giardinetti di fronte all'edificio scolastico.
Ecco, si sostituisca il governo  a quel padre e il gioco è  fatto.   
Si potrebbe anche  parlare di banalità del bene. Un bene imposto dall’alto e reputato come frutto di un potere "benevolo" dagli stessi cittadini, del resto blanditi con promesse di aiuti e minacciati, se disobbedienti,  di  pesanti sanzioni.           
Un disastro, innanzitutto morale, perché come ogni tirannia,  soprattutto se in nome del “bene comune” (altra parola magica), l’obbedienza a ciò che viene rappresentato e giudicato come "normale",  spezza  la spina dorsale degli individui: "Si fa così, perché è giusto fare  così". E così via...  Si serve il potere volontariamente o quasi.
Insomma,  il caos calmo  potrebbe durare per anni.
  

Carlo Gambescia


martedì 23 giugno 2020

La lezione del  “Riformista”
Destra giornalistica,  
"ciuccia e presuntuosa"

di  Carlo Pompei e Carlo Gambescia



“Il Riformista”, quotidiano diretto da Piero Sansonetti, è un giornale di “refrattari”. Un faticoso, crediamo,  nuovo esperimento giornalistico, soprattutto sotto l'aspetto economico. Sul numero di oggi troviamo però  articoli di Guzzanti, Brunetta, Cicchitto, insomma  il solido  movimentismo libertario e socialista  di Forza Italia, i tre -  non si offendano, nessun   intento grillin-derisorio -  sono oggi pensionati, certo vivacissimi,  del Parlamento, delle professioni e del giornalismo.  
Segue  un pezzo molto interessante di Cazzola,  specialista di lungo corso  in questioni sociali e sindacali,  ormai in congedo. Poi contributi di Biagio De Giovanni, professore emerito di sinistra, da sempre cane sciolto filosofico, nonché di Eraldo Affinati, brillante scrittore e insegnante, politicamente inclassificabile.  
Sansonetti, non si offenda  perché ha tutta la nostra stima , ma l’ impressione e che tutti questi brillanti collaboratori  scrivano a babbo morto.  Anzi,  diciamo che scrivono gratis o quasi, ma con lo stesso  spirito  di chi venga retribuito sontuosamente.   Il che è degno di ammirazione. 
E qui viene la nostra riflessione sulla differenza tra giornalismo "alto"  di destra e di sinistra, pensando in particolare alla ripartenza avvenuta in questi covid-mesi  di “Linea, che come “il Riformista” è un quotidiano di opinione (un “secondo giornale”, come si diceva un tempo).
 A destra, purtroppo, i possibili  i collaboratori, neppure di valore e  per giunta  prigionieri di squallide storie di fratelli-coltelli,  vogliono invece sempre essere pagati, e pure profumatamente. E poi -  mai dimenticarlo -   si tratta quasi sempre di  gente  che scrive per se stessa: abituata a rileggersi in continuazione,  andando in  pluriorgasmo cartaceo.  In realtà,  la destra "culturale" si riempie la bocca  della parola "comunità",  ma all’atto pratico, ognuno per sé, dio per tutti.   
Di qui la difficoltà, per un giornale di destra o che  viene da destra, di poter contare perfino sulla collaborazione  gratuita o semigratuita  delle  mezze tacche  sul piano umano e  professionale.    

“Linea”,  rappresenta perciò  un piccolo miracolo, in un mare di mediocrità e astio,  che probabilmente  rischia di travolgere anche  “Il Riformista”: perché i gufi esistono anche a sinistra. Un mondo, quest'ultimo,  dove però  il giornalista, l’intellettuale insomma,  ama lo scrivere per lo scrivere e, soprattutto se  non ha "bisogno",  si presta amichevolmente  e scrive benissimo “come se”.  
Certo ci sono le eccezioni. Alcune firme, avidissime, anche a sinistra,  mai si vedranno  sul “Riformista”. Per contro,  la destra, se ci passa l’espressione, è "ciuccia e presuntuosa".  O addirittura, quando si "sacrifica"  copia e incolla, autoplagiandosi,  a seicento euro cadapezzo…        
Dicevamo  miracolo, perché a fare “Linea” siamo in pochi. E tutto sommato, dal momento che anche il silenzio  "dell'ambiente" parla, sembra essere  decente.  Forse più che decente, stando almeno ai download.  
Come concludere? Avanti tutta (con “Linea”)  e cari  auguri, con un pizzico di sana invidia,  ai colleghi del “Riformista”.  
Sì, bisogna ammetterlo,  la sinistra è sempre la sinistra...  E la destra? Sembra non imparare mai la lezione...   


Carlo Pompei  e  Carlo Gambescia      

(*)  "Il Riformista" può essere scaricato gratuitamente qui: https://www.ilriformista.it/riformistagratis-per-3-mesi-59625/  ,    Linea, sempre grauitamente, come ben sanno i lettori, invece qui:   http://linea.altervista.org/blog/?doing_wp_cron=1592892389.4300959110260009765625     

lunedì 22 giugno 2020

"Linea settimanale",   l’appuntamento del lunedì…


Il numero 17  è scaricabile gratuitamente  qui:




Editoriali, articoli, servizi di
Carlo Pompei,  Carlo Gambescia, Federico Formica, Roberto Pareto e altri ancora… 

sabato 20 giugno 2020

Centri sociali ignoranti, arroganti e pericolosi...
 Che c’entra il generale Baldissera con lo schiavismo?


Per dirla brutalmente, quindi semplificando, gli ignorantoni dei Centri Sociali, ora convertitisi all’attivismo antirazzista, pur di sputare veleno sull'Occidente, hanno sbagliato busto (*). Antonio Baldissera, in qualche misura fu il nemico di Crispi, il primo vero politico imperialista italiano, che gli storici fascisti nobilitarono  a padre ideologico del Mussolini, fondatore dell’Impero.   
Il generale Baldissera  fu invece  in aperto dissidio con il Crispi, dell’ ultimo Ministero, culminato con la sconfitta di Adua. Lo statista siciliano, già repubblicano, poi monarchico a oltranza, sognava vittorie militari lampo e  schiaccianti, ignorando o facendo finta di ignorare la scarsità di mezzi e di uomini.  Sicché Baldissera,  non volendo  passare per burattino,  si dimise dal comando delle truppe in Eritrea.  Poi, caduto Crispi, fu richiamato, divenne governatore, eccetera, eccetera. Sostanzialmente, Baldissera  fu un generale, molto prudente,  buon organizzatore, un altissimo servitore dello stato con le stellette, non un fanatico della supremazia della razza bianca.

Il che deve far  riflettere su quanta ignoranza, frutto di cecità ideologica, sia alla base di un fenomeno, che alcuni anni fa definimmo antismo (**): essere anti contro qualcosa per pure motivazioni ideologiche, senza tenere in alcun conto la documentazione storica e sociologica. Detto altrimenti, ecco il ragionamento dell’antista:  se i fatti contraddicono l’ideologia tanto peggio per i fatti.  L’antismo è una strada senza ritorno verso il totalitarismo, prima cognitivo poi politico.
Si rifletta: Baldissera solo per essere stato  un militare posto a capo di truppe coloniali  è diventato bersaglio di “un raid antirazzista”. E' la stessa logica del terrorismo: quella del colpirne uno per educarne cento. Cominciando dai busti per poi "aggiustare" il tiro...  Detto altrimenti: centri sociali - o comunque il mondo che vi gravita intorno -   ignoranti, arroganti e pericolosi.


Quanto alla questione storica del colonialismo, che è altra cosa dallo schiavismo puro e semplice, si dovrebbe riflettere a largo raggio valutando i pro e i contro serenamente,   però a partire dalla miracolosa nascita degli Stati Uniti d’America (già colonia britannica) alle vicende dell' ex colonia di  Hong Kong  che  alla Cina comunista  sembra  tuttora  preferire  l’ Occidente, condannato invece  dagli stessi centri sociali che imbrattano il busto di Baldissera: nemici dello schiavismo ma amici del chavismo...
La cosa può anche suscitare un sorriso. Ma amaro, anzi amarissimo. Perché oggi l’agenda politica sembra purtroppo dettata dai nemici dell’Occidente e del suo glorioso passato.  Anche coloniale.

Carlo Gambescia                        



venerdì 19 giugno 2020

A proposito di inno nazionale “storpiato”
Il Covid razzista


Non ho visto la finale di Coppa Italia. Troppo triste lo  stadio vuoto a causa di  un’ ingiusta  emergenza politica che non sembra finire più.  
Ma ancora più triste è quel che si legge oggi sulla “Verità”  a proposito dell’ inno d’Italia  “storpiato”  da un cantante “nero”. Che per giunta avrebbe pure salutato il non pubblico con il pugno chiuso...
Il quotidiano diretto da Belpietro fa veramente del suo meglio (si fa per dire) per alimentare  un  insalubre  clima razzista.  Se il cantante fosse stato “bianco”,  si sarebbe accettata la scusa dell’emozione o al limite della ridotta professionalità.  E invece, ecco spuntare, neppure tra  le righe,  la classica tesi della provocazione,  immagine  usata a scopo retorico  dai nazisti nei riguardi degli ebrei:  il “nero” come l’ “ebreo”,  provoca perché tale. Al  “bianco” si perdona tutto  al “nero” no.     
Si rifletta bene su questa  pericolosa deriva mediatica, che distingue anche altri giornali di destra (per non parlare dei siti neofascisti…).  Un atteggiamento odioso sempre più  socialmente pervasivo che si ciba  dei  maleodoranti  stereotipi  del razzismo classico:  il  nero che provoca,  il  complotto dei bianchi traditori contro i bianchi  veri patrioti, eccetera, eccetera.  
Un'ultima cosa.  Come ho scritto di recente è  certamente  vero che anche l'antirazzismo rischia di tramutarsi in una risorsa politica di natura demagogica: in strumento per chiudere la bocca agli avversari  tramutandoli in appestati politici.  Però una cosa è l'onorevole Boldrini che platealmente, neppure l'Italia fosse l'Alabama, si inginocchia  in Parlamento (*), un'altra trasformare  artatamente un cantante stonato nella longa manus del  nuovo Protocollo dei Savi di una Sion nera... 
Il primo atteggiamento  è  patetico, al limite si commenta da sé, fa quasi sorridere,  il secondo invece fa paura, perché rimanda agli anni più bui del Novecento, a quel complottismo che nutrì il delirio nazista.
Altro che Covid-19. Oggi il vero pericolo è la  pandemia razzista.   

Carlo Gambescia           

giovedì 18 giugno 2020

Intellettuali e società
Che c'è di male nella  libertà di bersi una birra?


L'intellettuale  è un uomo  colto,  nel senso di "coltivato" alle idee,  che legge e scrive: il  suo mestiere è osservare, scoprire e combinare idee. Spesso il suo sapere sconfina imprendibile fin sulle vette dell' erudizione. 
Di regola, l’intellettuale, termine che viene dal latino  intellectualis (come ciò che riguarda l’intelletto),  tiene in poco o nessun conto  chiunque svolga attività pratiche, dunque non intellettuali. Di conseguenza, è piuttosto raro rilevare  sul piano storico  un intellettuale capace di apprezzare la realtà per quello che la realtà è.
Cosa vogliamo dire?  Pensiamo a  un semplice fatto sociale:  che di massima la maggioranza degli esseri umani  può fare tranquillamente  a meno dei libri, e di conseguenza degli intellettuali.  E vivere felice, o quasi. 
Ovviamente, in tutte le età storiche, escluse ma non del tutto le primitive, gli uomini hanno invece avuto necessità  sociale dei "portatori" di saperi pratici: dagli artigiani agli ingegneri, dai mercanti agli imprenditori, dagli sciamani ai medici.  Ma non di chi deridesse sistematicamente  l’ “ignoranza del volgo”.   Il che spiega, dal punto di vista  storico-antropologico, il disprezzo dell’intellettuale per chi regolarmente  lo deride:  verso   l’uomo pratico, la gente comune, insomma.
Sotto questo aspetto la modernità (uno  strano  esperimento sociale  frutto di inintenzionali “aggiustamenti”), che scorge nella pratica un valore collettivo,  non è  mai stata ben vista dall’intellettuale.  Di conseguenza,  in particolare  la libertà moderna  che consta  quasi esclusivamente di conquiste pratiche, negate per secoli ma oggi socialmente apprezzate,  è fonte di  disprezzo intellettuale.

Secondo  i nemici del mondo pratico, della modernità insomma,  di cui pure essi  vivono, libertà non  è poter bere una birra, andare al cinema, fare ginnastica nei parchi, comprarsi una giacca, eccetera, eccetera.   Sicché, ad esempio,   il Lockdown avrebbe privato gli italiani di libertà minori, addirittura false libertà,  alle quali si poteva e si può rinunciare in vista della salvezza di un bene maggiore, nel caso specifico la vita. 
In sé, ammessa e non concessa la gravità dell’epidemia, la tesi potrebbe avere un fondamento condizionale (legato alle particolari condizioni del momento). Tuttavia appare  molto pericolosa  la premessa dell’argomentazione stessa:  che ciò che costituisce la libertà in senso concreto per milioni di persone, non sarebbe libertà,  ma qualcosa  senza alcuna  importanza, qualcosa   addirittura  di ostacolo alla  vera libertà.  
E quale sarebbe allora  la "vera libertà"?  Su questo punto i nemici della modernità, della vita concreta  elevata a valore, tesi però negata per secoli, hanno ricette differenti, ma tutte di stampo romantico, al fondo autoritario,  e soprattutto contrarie all’economia di mercato:  quella  gallina dalle uova d’oro,  inconsapevole invenzione su larga scala  dei moderni, giudicata invece dagli intellettuali fondamentalisti, tradizionalisti, ecologisti, neocomunisti, neofascisti come il peggiore nemico dell’uomo.
Di qui,  l’ entusiastica adesione dell'intellettuale  anticapitalista  e antiliberale  -   salvo dopo  pentirsi per subito ricominciare sotto altre vesti  -   alle varie utopie positive o negative,  ben riassunte dall' idea costruttivista di educazione o rieducazione del popolo, ovviamente dall'alto,   alle più alte forme di libertà. 
Il punto sociologico  è che la gente comune non la pensa così. Vuole bersi una birra,  andare al cinema, fare ginnastica nei parchi, comprarsi una giacca, una automobile, eccetera, eccetera. Si chiama libertà dei moderni.  E rinvia, ma in positivo,  alla  libertà di Pastrufazio, l'ironico non luogo di gaddiana memoria, contraddistinto da una libertà "pasticciona e inguardabile", disordinata e  materialista.  L’unica  però  che abbiamo e che in qualche misura, per la prima volta nella storia,  ci unisce tutti, colti e incolti, coltivati e non coltivati...  
Perché sia chiaro, anche all’intellettuale, ovviamente con le debite eccezioni, piace bersi una birra, eccetera, eccetera.  Solo che non vuole ammetterlo. Sicché, pur di  seguire rigorosamente le proprie idee,  diffonde veleno. Salva la sua anima, condannando  le altrui... 

Carlo Gambescia                        

mercoledì 17 giugno 2020

Il Covid-19 come risorsa politica
Virus forever 


Il lettore desidera un esempio di "anormalità-normale"  post-19 Covid moltiplicata all’infinito? Insomma di stato di emergenza forever? La Camera ieri ha dato l’okay allo spostamento a settembre  dell' election day (*). Però il Pd  - proposta di  Zingaretti - vuole i seggi fuori dalle scuole. Conte ha subito detto di essere d’accordo.
Ecco, i numeri dell’epidemia sono ormai risibili, il virus  al 99 per cento infierisce sugli ottantenni, e di che cosa ci si preoccupa?  Di spostare i seggi elettorali dalle scuole elementari come se l’epidemia galoppasse, moltiplicando così  spese, disagi, burocrazia,  eccetera. Classico effetto perverso  inintenzionale delle decisioni politiche: si vuole il bene, come è accaduto per l’imposizione del lockdown, si ottiene il male: tracollo del Pil… E così  per i tribunali, per i ministeri, per le imprese, per il commercio  e per  la scuola... Si replica all'infinito. 
Attenzione: il punto  non  è tanto  la questione del virus in sé ( grave, meno grave, non grave), ma il principio di precauzione, vecchio cavallo di battaglia della demenza  ambientalista,  ora  sposato in toto dai populisti, di sinistra e di destra.  Se Salvini fosse al posto di Conte sarebbe la stessa cosa.  
L’idea è: come si prendono più voti? Promettendo tutto a tutti. E cosa c’è di più appetibile, dinanzi al al babau pandemico, se non la promessa di “non lasciare nessuno solo”?  Prendendo tutte le precauzioni del caso? Anche le più cervellotiche? Si pensi alle paratie in  plexigass in spiaggia, a scuola, eccetera...   
Che poi in pratica  la promessa sia irrealizzabile,  causa di  costi e disagi  altissimi, non importa. Quel che conta  è introdurre misure preventive per  dare a tutti i cittadini  l’impressione che si stia facendo qualcosa per il loro bene. E così via,  lungo  la strada del gioco al rialzo tra maggioranza e  opposizione.  Sotto questo aspetto  il  Covid-19 si è trasformato in una eccellente  risorsa politica al servizio del principio di precauzione: principio, si badi, che non è altro che la prosecuzione del socialismo con altri mezzi.
Perché,  l’idea di poter prevenire tutto con la quale si blandisce l’elettore ,  implica inevitabilmente l’intrusione dello governo e dello stato nella vita del cittadino, ovviamente per il suo bene… Da quel che deve indossare al taglio della barba.  E il cittadino, di regola, "abbocca" perché alla libertà l'uomo tende a preferire la sicurezza. Entro certi limiti, ovviamente. Ma di solito funziona così. Almeno fino a quando il fondo non viene toccato.  
L’intrusione a sua volta, moltiplica la forza del  potere pubblico e di coloro che lo gestiscono. I politici, soprattutto se nazionalisti e/o socialisti, come possono rinunciare alla meravigliosa   prospettiva di conservare il potere il più  a lungo possibile?   Idea, si noti,   che non può non  affascinare  una maggioranza e un' opposizione populiste che del welfare e della cittadinanza "sociale" (altra parola magica)  hanno fatto una bandiera...  
Concludendo e per fare un ultimo esempio: più paura da  Covid più stato di polizia, più spesa pubblica più voti, eccetera, eccetera,    Di conseguenza, l’epidemia,  politicamente parlando,  rischia di non finire più.  Virus forever…  Poveri noi.



Carlo Gambescia 

martedì 16 giugno 2020

Cinque Stelle e Podemos
Vamos a la  Playa  de Chavez?  


Non  siamo contrari  al  finanziamento privato ai partiti, purché sia dichiarato e iscritto  a bilancio. Saranno poi gli elettori, sulla base delle scelte politiche, parziali  o meno,  del partito votato a dare il giudizio finale.
Altra cosa è  quando invece  i finanziamenti ai  partiti  giungono da potenze politiche straniere, ovviamente  in nero, come nel caso del presunto finanziamento del regime chavista al Movimento Cinque Stelle, di cui ha dato notizia ieri  il quotidiano conservatore spagnolo ABC. Un giornale fondato all’inizio del secolo scorso,  tuttora molto letto anche per la sua autorevolezza, già  artefice di uno scoop sui finanziamenti ricevuti  da Podemos, altro movimento anticapitalista  e antiliberale come il Movimento Cinque Stelle. Sul quali la polizia spagnola ha indagato e la magistratura archiviato.  
Il che però spiega  l’ interesse politico di ABC, da sempre anticomunista e antipopulista,  per il movimento italiano gemello di Podemos,  tra l’altro, ora al potere, come Cinque Stelle.
Oggi, naturalmente,  la destra italiana -  basta dare un’occhiata ai suoi principali giornali -   attacca a testa bassa il movimento fondato politico  da Grillo. Che nel 2010, anno in cui avrebbe ricevuto i finanziamenti chavisti,   era agli inizi politici.
Per quel che riguarda Podemos,  va detto che  sembrano invece provate per gli anni Duemila le relazioni economiche di tipo "professionale" tra il  Centro de Estudios Políticos y Sociales  (CEPS), dove lavorava, con incarichi dirigenziali e scientifici,  Pablo Iglesias, fondatore  di Podemos,  e il regime dittatoriale venezuelano (*). Piccolo inciso:  se  Iglesias avesse collaborato con Pinochet, sarebbe finito nel libro nero.  E invece...    

Riassumendo:  sullo sfondo economico, ancora tutto da verificare, si delinea da parte  chavista    una ricorrente “simpatia” verso  le potenzialità politiche dei movimenti  anticapitalisti e antiliberali in Spagna e forse in Italia.  Del resto,  come noto, in politica,  da cosa può nascere  cosa, soprattutto quando si tratta di cose uguali, come l'ideologia Però, al momento,  altro non c’è.  Oltre, ovviamente,  allo scoop di  ABC.   
Va tuttavia  ricordato l’atteggiamento di “rigorosa neutralità” che accomunò  Podemos e M5S nei riguardi del  presidente antichavista Guaidò  (**). Reazione,  che, a dire il vero, distinse altre forze populiste europee, inizialmente anche la Lega.  Partiti, di destra come di sinistra, che sembrano  avere qualche “problemino”  con la democrazia liberale e l’economia di mercato…      
Come  concludere?  “Vamos  a la  Playa  de Chavez”? Anzi, Podemos e Movimento Cinque Stelle “van a la playa de Chavez”? Vedremo.

Carlo Gambescia      
          


(*)   Dalla voce Wiki (in spagnolo). Giudichi il lettore:  « La Fundación Centro de Estudios Políticos y Sociales (CEPS) es una organización política española, no adscrita a ningúnpartido, de ideología anticapitalista. Una de sus actividades más destacadas es proporcionar consultoría política, jurídica y económica a fuerzas y gobiernos progresistas de América Latina. Algunos de los clientes de esta Fundación han sido los gobiernos de la Comunidad ValencianaEspañaVenezuelaEcuadorEl Salvador y Bolivia.  Con la irrupción en 2014 de Podemos en el panorama político español, la Fundación CEPS saltó a los medios de comunicación porque algunos miembros de su consejo ejecutivo eran dirigentes de ese partido (Pablo IglesiasÍñigo Errejón, o Luis Alegreentre otros). Desde entonces, numerosos medios de comunicación, periodistas y políticos españoles han tratado de vincular a Podemos con una supuesta financiación encubierta por parte del gobierno de Venezuela con el fin de implantar el chavismo en España.  Sin embargo, el Tribunal Supremo ha dictaminado hasta en cinco ocasiones que las denuncias sobre la hipotética financiación ilegal de Podemos no tienen entidad suficiente para prosperar ni se deduce de ellas nada relevante. ​» ( https://es.wikipedia.org/wiki/Fundaci%C3%B3n_CEPS  )