Radiografia di un mito, a cinquant’anni dalla morte
Sociologia di Ernesto Che Guevara
Sociologia di Ernesto Che Guevara
Che Guevara, del quale in questi giorni si commemorano i cinquant’anni trascorsi dalla scomparsa, rappresenta un
ottimo argomento per una lezione sulla sociologia della rivoluzione, dal momento che, come impone la logica rivoluzionaria, non morì nel suo letto... Procediamo però per gradi.
Si può studiare il Che sotto molti aspetti, biografici, politici, mitologici e secondo le più differenti
prospettive politiche, fino al
punto di farne un
cristo socialista o un tenebroso terrorista. In
realtà, Che Guevara è la prova
(sociologicamente) provata di come le rivoluzioni, quando non riescono a
mangiare se stesse, e perciò da movimento
si fanno istituzione politico-sociale, finiscano sempre per mangiare i suoi protagonisti: o moralmente,
attraverso la routine quotidiana,
fatta di compromessi, benessere e comodità, o fisicamente, tramite gli “incidenti sul lavoro”, tipo, essere "purgati dagli ex amici, o massacrati dai nemici sul campo di battaglia.
Il
Che, vinse a Cuba con Castro, da
guerrigliero divenne ministro; si
accorse subito, da movimentista (ingenuamente) convinto, che l’istituzionalizzazione
della rivoluzione comportava compromessi
e conflitti interni al gruppo dei vincitori. E così preferì tornare alla fase movimentista,
della guerriglia. Sicché - come capita - venne catturato e ucciso dalle forze anti-guerriglia.
Qui
non non è in discussione il romanzo sociologico su Che Guevara. Pensiamo, ad esempio, alle pittoresche leggende, come per i santi medievali, sorte intorno al sua morte. Bensì ci interessa la concreta dinamica sociologica della rivoluzione, in particolare delle rivoluzioni moderne, di tipo costruttivista e totale: dinamica, con una sua logica interna, che si nutre di rivoluzionari, da Robespierre a Che Guevara, passando per
Trotsky.
Dire,
come si legge in questi giorni, che la
sinistra avrebbe tradito Che Guevara, e che dovrebbe ritrovarne i rivoluzionari ideali, di
purezza, coerenza e sensibilità verso la sofferenza, significa non capire nulla di sociologia della rivoluzione: più la rivoluzione si proclama “moralmente” pura,
più, nello sforzo di mantenersi tale (e qui la parabola del giacobinismo
è esemplare), si tramuta in totalizzante e sanguinaria, imponendo il monopolio istituzionale della "sua" verità
politica, ritenuto a priori come perfetto e indiscutibile. E le rivoluzioni, proprio perché tali - ecco la tragedia sociologica - non possono non essere "presuntivamente" pure, quantomeno nelle intenzioni, la cui modulazione riflette però la stratificazione delle ambizioni umane e sociali. Sicché, poiché potere e intenzioni devono trovare un loro equilibrio, per garantire una qualche forma di normalità sociale, anche nel conflitto infra-rivoluzionario, la presunzione di purezza si trasforma in velenosa risorsa politica.
Si
pensi a un figura italiana, come quella di Carlo Pisacane, prima mazziniano, poi socialista (in senso pre-marxiano): un "puro" tutto dedito alla causa "senza premio alcuno", un rivoluzionario “arrabbiato”, un gesuita delle pallottole, un teorico della
guerriglia rivoluzionaria. In termini sociologici, un movimentista, in senso assoluto, che morì, pieno di stupore, per mano degli
stessi contadini che voleva liberare. Eppure, allora non c’era la Cia …
La
“rivoluzione italiana” - il nostro
Risorgimento - poi la fece Cavour, un liberale, politicamente moderato, che
credeva nelle riforme da perseguire attraverso le istituzioni parlamentari e la libertà di mercato, assecondando l'evoluzione sociale, non dirigendola dall'alto. L'esatto contrario del credo totalitario dei professionisti della sofferenza e della rivoluzione: coloro che pretendono ingenuamente di sapere cosa sia il bene per ogni membro della società. Pensiamo ai "puri", come Che Guevara, che la sinistra, quella che non crede nel riformismo, tuttora rimpiange.
Certo, Cavour, abilissimo uomo politico, giocò sulla spinta militare al Sud di Garibaldi. Un generale, dai tratti autoritari, certamente un rivoluzionario, che però a differenza di Pisacane (e Che
Guevara) aveva i piedi ben piantati in terra. Mazzini, invece morì nel suo letto. E anche questo dovrebbe far riflettere.
Tòto,
non era un sociologo, ma in un film - forse “Totò al Giro d’Italia” - gridò
verso gli spettatori: “ Dopo ogni guerra viene il dopoguerra, viva Binda!”. Cosa
voleva dire? Probabilmente, allora in un' ottica post-fascista e bonariamente critica del conformismo democristiano, che l’ordine politico si ricompone sempre: pochi comandano, molti
ubbidiscono. Non c’è niente da fare. È
la sociologia delle élites sociali, bellezza. Piaccia o meno, per dirla nuovamente con Totò, dopo ogni rivoluzione, viene il dopo rivoluzione, viva Castro!
Certo, Castro, ahinoi, non era De Gasperi, un leader, comunque sia, liberal-democratico. Ma questa è un'altra storia...
Certo, Castro, ahinoi, non era De Gasperi, un leader, comunque sia, liberal-democratico. Ma questa è un'altra storia...
Carlo Gambescia