martedì 18 luglio 2017

 Parlare di nulla
“Ius culturae? Ma mi faccia il piacere!”


L’idea dello ius culturae è bizzarra.   La scuola italiana  funziona  male.  Non è assolutamente in grado di trasmettere  nozioni di qualsiasi tipo.  Figurarsi allora come potrebbe  veicolare   quel  senso  e  significato dell’italianità -  tra l’altro, come valore "culturale",  scomparso  tra gli stessi italiani - che la nuova legge sulla cittadinanza introduce, ancorandolo, per i minori (semplifichiamo), alla frequentazione obbligatoria di un ciclo scolastico. Insomma, come si ama declamare, di "un percorso formativo".
Attenzione, ciò  non significa, che coloro che si oppongono all’introduzione di questo criterio,  siano da trenta e lode in storia d’Italia. Personaggi come Salvini, per non parlare dei gruppi esplicitamente razzisti,  ripetono a pappagallo la lezioncina nazionalista del Ventennio fascista. Di sicuro, appresa non a scuola. La politica è un forma di “autodidattica”, su contenuti di parte.  
Diciamola tutta: la scuola italiana ha provato ampiamente di non essere in grado di "formare" nessuno. Insomma, di non saper trasmettere alcun valore storico, quindi "culturale":  la maggioranza degli italiani non sa nulla del proprio passato. Vive in una specie di limbo storico.  La scuola italiana non è “didattica” né “autodidattica”. Sforna ignoranti, soprattutto nelle discipline storiche e geografiche.
Ora,  se  la cittadinanza dal punto vista di culturale (lo ius culturae),  non la meritano gli italiani, non si capisce  perché debbano meritarla  gli stranieri, una volta frequentate le stesse scuole, anzi la stessa gigantesca fabbrica sociale dell’ignoranza storica.          
E qui va fatta una riflessione generale sulla natura di un  dibattito politico  che tende  ad allontanarsi dalla realtà delle cose.  I famosi "duri fatti",  rappresentati  in questo caso  dalla scarsa o nulla  capacità  della scuola  italiana di trasmettere i  valori di cittadinanza (un tempo si chiamavano patriottici). Praticamente si discute di nulla, di qualcosa che non esiste. Eppure si va avanti, “come se” la scuola fosse in grado, eccetera, eccetera.  Perché?
In primo luogo, la cultura moderna, sopravvaluta il ruolo formativo dell’educazione e dell’istruzione scolastica,   fingendo o meno (come più avanti vedremo) di ignorare la natura di massa delle istituzioni scolastiche:  quindi la necessità di semplificare il messaggio, fino al punto però di renderlo praticamente privo di senso e significato.   Si può parlare di  a priori cognitivo. 
In secondo luogo, il politico democratico, sempre proiettato in avanti sulle riforme in cantiere (come impone la logica democratica), tende, seguendo un'argomentazione scalare, a dare per scontati i precedenti  passaggi: quindi la scuola formerà perfetti cittadini, che si comporteranno come tali, sicché le cose miglioreranno, lungo la  romantica logica del lieto fine.  Si può parlare di a priori politico-democratico.
In terzo luogo, esiste una logica interna delle rappresentazioni sociali. Ci spieghiamo:  quel che l’uomo considera reale, a prescindere dal fatto che sia reale o meno, diventa  tale, e genera conseguenze sociali reali. La credenza nel valore dell’istruzione collettiva ha come conseguenza sociale, reale dunque, la sopravvalutazione del ruolo formativo  delle istituzioni scolastiche, nonostante i fatti provino l’esatto contrario. Si va avanti perché si deve fare così. Perciò si crede consapevolmente in quel che si sta facendo. Non si finge.  Si può parlare di a priori verbale assertivo.
Serve altro?  No.  
Insomma,  per dirla con Totò,  il più grande sociologo italiano del Novecento, dopo Pareto: “Ius culturae? Ma mi faccia il piacere!”

Carlo Gambescia