Un articolo di Luigi Manconi sul “Foglio”
Grammatica o semantica del Web?
Ieri “Il Foglio” ha pubblicato un interessante pezzo
di Luigi Manconi, dove ci si lamenta del clima di violenza verbale che (è
vero) avvelena il web (1). Un mondo, definito virtuale, dominato però da un linguaggio violento, dalla durezza assai poco virtuale, al punto talvolta di uccidere fisicamente la vittima designata. Un mondo popolato di haters che, qualche mese fa, ha investito come un treno in corsa lo stesso Manconi. Chiunque ami il genere horror, legga i truculenti commenti alla sua intervista, rilasciata al quotidiano più letto nelle procure, dove egli interviene, e giustamente, sulle strampalate affermazioni di Luigi di Maio a proposito dell’ immigrazione rumena in
Italia (2).
Putroppo
Manconi, nonostante sia acuto sociologo, abbozza
un’analisi insoddisfacente. In sintesi: a)
“Chi parla male pensa male” (si cita Wittgenstein vs lo zoppicante italiano dell’onorevole Di Maio e dei commentatori; b) “La perfetta sovrapponibilità degli
argomenti addotti [nei commenti] fa una certa impressione”, perché dimostra “ancora una volta, la funzione conformativa e
confermativa della comunicazione online, che produce disciplina mentale e meccanismi
di omologazione senso comune e conformismo” ; c) “i suoi contestatori”, tesi a difendere il “pensiero
del Capo (Di Maio)”, mostrano di
appartenere, “ sotto il profilo morale
e culturale”, a “una cultura reazionaria che incapace com’è di produrre quella rivoluzione
conservatrice che forse sembra auspicare, si manifesta essenzialmente come
acidità di stomaco”; d), Tuttavia, lo spirito di rivalsa che c’è dietro insulti,
rivela “anche una sofferenza reale e “in
alcuni settori, una motivatissima volontà di ribellione”, “gli stessi settori da anni mortificati nelle
loro aspettative e umiliati dall’ostentazione dei privilegi e dall’oltraggio
delle diseguaglianze”.
Dal
punto di vista sociologico, non sempre è
vero che "chi parla male, pensa male". Per il sociologo, come dire, “obiettivo”
(non partecipante), chi parla, parla, il male e il bene dipendono dal riconoscimento
sociale, se si vuole dalla “grammatica” sociologica ( hic et nunc) di quel male e quel bene. Purtroppo, Manconi riflette un’idea oggi non sincronica ( o sintonica) di bene (o di
male), o comunque, probabilmente, trans-storica. Nulla di male per carità. Però, ecco il punto, piuttosto che approfondire la grammatica, sulla base di una meta-grammatica personale, partecipante, Manconi dovrebbe interrogarsi sulla semantica storica, partendo dalla attuale grammatica storica: sul come si è arrivati a tal punto. Insomma, interrogarsi sul perché della trasformazione storica dei "significati". O se si preferisce, sul perché della genesi del pensiero totalitario dal linguaggio ordinario, ritenuto "dai più" corretto, proprio perché ordinario, diffuso, condiviso, rilanciato. Questione tra l'altro in seguito ripresa sul piano della logica sociale da Boudon. E al centro, quale critica di Popper a Wittgenstein, della leggendaria lite dell'attizzatoio tra i due... Il pensiero, è contenuto, non forma linguistica.
Che cosa scoprirebbe? In primo luogo, che è inutile prendersela con i meccanismi della comunicazione online, meccanismi, che più semplicemente riproducono, su scala più ampia, quel fenomeno della tirannia della maggioranza, insito, piaccia o meno, nella società democratica, intuito a suo tempo dal grande Tocqueville e affinato concettualmente dalla novecentesca sociologia della crisi.
Che cosa scoprirebbe? In primo luogo, che è inutile prendersela con i meccanismi della comunicazione online, meccanismi, che più semplicemente riproducono, su scala più ampia, quel fenomeno della tirannia della maggioranza, insito, piaccia o meno, nella società democratica, intuito a suo tempo dal grande Tocqueville e affinato concettualmente dalla novecentesca sociologia della crisi.
In
secondo luogo, ci troviamo davanti, non alla “reazione”, ma a individui - attenzione - che collettivamente, secondo la logica della
società di massa, conducono fino alle estreme conseguenze politiche i princìpi democratici. Pretendono
la libbra di carne che è stata loro promessa: uno vale uno, si dice. Ma,
ripetiamo, lo si dice, collettivamente. E qui cominciano i problemi, legati alla sociologica eterogenesi dei fini (vuoi il bene individuale, ottieni il male collettivo, eccetera, eccetera).
In terzo luogo, a nulla serve titillare il bestione (sociale), parlando di ingiusti privilegi, diseguaglianze, eccetera. Perché, in questo modo, si continua a celebrare quel piagnonismo collettivo della rivalsa - un misto di invidia, di giustizialismo, di assistenzialismo accattone, di individualismo protetto - che ha prodotto un terribile clima di violenza verbale, lo stesso che Manconi critica. Ma su basi grammaticali. E personali.
In terzo luogo, a nulla serve titillare il bestione (sociale), parlando di ingiusti privilegi, diseguaglianze, eccetera. Perché, in questo modo, si continua a celebrare quel piagnonismo collettivo della rivalsa - un misto di invidia, di giustizialismo, di assistenzialismo accattone, di individualismo protetto - che ha prodotto un terribile clima di violenza verbale, lo stesso che Manconi critica. Ma su basi grammaticali. E personali.
Del
resto chi ha prodotto la cultura di massa dell’auto-commiserazione violenta? Probabilmente non Manconi,
persona mite, ragionevole, colta, ma certamente quell’area politica, da sinistra
a destra, che ha coltivato in modo
dissennato, almeno a far tempo dal 1992, la mala pianta di un’ Italia sempre
più schizofrenica, che dichiara ai quattro venti di lottare contro i privilegi. Degli altri.
Carlo Gambescia
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