Il libro della settimana: Martin Jay, Le virtù della menzogna. Politica e arte
dell’inganno, Bollati Boringhieri 2014, pp. 272, Euro 25,00.
http://www.bollatiboringhieri.it/scheda.php?codice=9788833924991 |
Se nel libro di Martin Jay, Le virtù della menzogna. Politica e arte
dell’inganno (Bollati
Boringhieri), si prova a cercare “la” risposta
alla questione posta nel titolo, la si può trovare alle pagine 254-255. Leggiamo:
«Tuttavia,
per quanto permeabili siano i confini delle sfera del politico, al suo interno
la ricerca della perfetta verità non è soltanto vana ma anche potenzialmente pericolosa. Perché, paradossalmente,
l’immagine speculare della “grande menzogna” può essere l’ideale della “grande
verità”, la verità assoluta e univoca che
mette a tacere chi non la accetta
e tronca ogni discussione. Entrambe sono nemiche del pluralismo di opinioni e del continuo
dibattito, del confronto tra valori e interessi diversi»
Ciò
significa che
« il
politico che segue in modo intransigente
le proprie convinzioni aderendo a quella che Weber chiama Gesinnungsethik, “etica della convinzione” o “dei fini ultimi”, in
ultima istanza può fare più danni di quello che pratica un Verantwortungsethik
, un’etica della responsabilità»
Dal
momento che
« la
politica, a prescindere da come vogliamo
definirne l’essenza e limitarne i confini, non sarà mai una zona
interamente libera dalla menzogna, una sfera di autenticità, sincerità,
trasparenza e giustizia. E che in forse (…) in fin dei conti è una buona cosa»
Ora,
il lettore si chiederà per quale ragione recensire un libro partendo dalla chiusa… Insomma, perché svelare subito, il nome dell'assassino... Perché parliamo di un saggio, non di un giallo. E quindi per onestà verso i possibili lettori. Poiché, quel che deve essere subito chiaro, è che l’ottimo lavoro di Jay, professore di storia delle idee alla Berkeley
( autore, sempre per i tipi di Bollati Boringhieri, di una eccellente studio sulla Scuola Francoforte*), non è adatto alle anime belle, tipo il suo maestro: Henry Stuart Hughes, storico di Harvard ben noto per i
suoi lavori di italianistica, comunque rilevanti. Insomma, chiunque si proponga di trasporre in
politica, magari manu militari ( perché i giustizialisti, si sa, hanno sempre un lato oscuro…) i criteri dell’etica assoluta, troverà pane per
i suoi denti. Perché Jay, se ci si passa l'espressione, in
quattro densi capitoli (inclusa l'introduzione), di elegantissima Intellectual History (**), smonta il paradigma “buonista”, senza però
mai scadere nel “cattivismo” programmatico, o se si preferisce nel cinismo a
buon mercato. Naturalmente, per chi non conosca il modus operandi di Jay,
parliamo di un libro complesso, metodologicamente impeccabile (un pastoso
esempio di métier d 'historien), non
privo di sfumature, di prudenti antilogie e analogie, di taglienti analisi linguistiche, nonché sapienti rinvii alla tedesca Geschichtliche Grundbegriffe. Sempre però con il piglio
del professore americano in cerca di nuove frontiere cognitive.
Nell' introduzione, (“Le virtù delle menzogna”) Jay si dichiara
subito per un approccio realistico, assai distante dal mainstream puritano statunitense: da un lato,
scrive, va tenuta presente la natura umana
per quel che è: ciò significa che non si
può ignorare l’ ineliminabilità della
menzogna dal cuore dell'uomo; dall’altro, nota,
non si deve mai dimenticare che
la politica non può farne a meno a tutti
i livelli, perché la menzogna, talvolta è strumento difensivo del debole contro il
forte. Quindi prudenza con la
ghigliottina dei valori assoluti…
Nel primo capitolo (“Sul mentire”), dopo un dottissimo excursus negli ambiti
della psicologia, della biologia, della sociologia, della linguistica,
nell’ultima parte (“Menzogna e morale”), si propone un denso e paradigmatico confronto Kant-Constant: il primo, che aveva
osservato la Rivoluzione
(francese) da lontano, insiste
troppo sulla natura assoluta dell’etica ;
il secondo, che invece aveva visto i giacobini all’opera, ne teme la geometrica
arroganza. Da un lato il rigorismo morale
(monovalente, dunque impossibilista e pericoloso), dall’altro, la prudenza politica (polivalente, quindi meno esclusiva e possibilista). Jay, come vedremo, rivaluta Constant.
Nel secondo capitolo (“Sul politico”), che in
qualche misura, per ricchezza
espositiva, è una specie di libro a parte, si approfondisce, prima del rush
finale, cui abbiamo già accennato, il concetto di politico come essenza o, più moderatamente, sfera
autonoma. Jay prende in considerazione
sei definizioni: 1) il politico come antagonismo amico-nemico (la politica come
guerra tout court: qui il protagonista è Carl Schmitt, pur con molte, giuste, riserve);2) il
politico come agonismo (la politica quale ricerca di un equilibrio sempre
instabile, come nel pensiero dei teorici della Ragion di Stato, ma anche, curiosamente, in quello delle
beghine seguaci dello Stato etico. E qui
fa si affaccia Hegel); 3) il politico come contrattualismo
(la politica quale pacifica negoziazione degli interessi: Hobbes, soprattutto Locke e la tradizione liberale); 4) il politico come governo del saggio (la politica quale frutto dolciastro di un benevolo elitismo cognitivo: qui, tra gli altri
giganteggiano Platone e Leo Strauss); 5) il politico come virtù repubblicana (la
politica quale realizzazione
maggioritaria del bene comune: da Machiavelli alla Arendt); 6) il politico come estetica,
(la politica quale culto del bel gesto,
anche collettivo, e progressiva deificazione
di feticci sociali di volta in volta diversi: dagli organicismi
post-medievali alle rivoluzioni conservatrici novecentesche fino ai languidi
tramonti dei decostruzionismi post-moderni ).
Va
da sé che ogni definizione rinvia, oltre
che a un sistema istituzionale, al
tortuoso rapporto tra politico e menzogna. Argomento al quale è dedicato il terzo capitolo ( “Sulla menzogna in politica”). Precisazione importante: Jay,
come abbiamo visto, sembra accettare la distinzione tra “politico” e
“politica”, ma - ecco il punto - non nei
termini di quel che giganteggia in senso
metastorico (e che perciò trascende la politica nelle sue
manifestazioni storiche: il transeunte), bensì di corpose,
durkhemiane, costruzioni culturali, o
almeno così sembra All’approccio
essenzialista di Schmitt e Freund (eccellente studioso, purtroppo trascurato nel libro…), Jay oppone un
costruttivismo moderato. Di che genere? Cerca di coniugare, l’essenzialismo di Schmitt, il
prudente cognitivismo liberale di
Constant, l’esigente repubblicanesimo ad alta intensità gnoseologica della Arendt.
Vi riesce? Non vi riesce? Qui dovremmo sospendere il giudizio… Perché mettere insieme - semplificando al massimo
- Schmitt (pure con le riserve di rito),
Constant, Arendt è roba da Rambo della Intellectual
History. E come per il film di Ted Kotcheff, l’operazione può generare nello spettatore in sala (qui studiosi e lettori) reazioni
opposte ed estreme: o di odio o di amore. Diciamo però che a noi il "film" di Jay è piaciuto. E comunque sia, lo si raccomanda a tutti
coloro che desiderino scoprire, da vicino, come lavora il perfetto storico delle idee. Infatti, al di là dei
risultati - buoni, comunque - non si può non restare ammirati dal “mestiere” di Jay: dalla sapienza euristica con cui prepara il suo cocktail storiografico.
Uno spettacolo nello spettacolo.
Perciò
riassumendo (anche rispetto alle conclusioni del terzo capitolo): il politico (in senso di sfera autonoma) come lotta
mortale amico-nemico accetta la menzogna come arma letale nella lotta per la
sopravvivenza; il politico come
agonismo, vi aderisce, scorgendovi un
necessario strumento diplomatico; il
politico come contrattualismo, vive, spesso male, la contraddizione tra una certa dose di
ipocrisia, propria della prassi liberale, e il percepire se stesso come
alternativa alla politica ipocrita: contraddizione che talvolta, si tenta di superare ricorrendo alla versione mano invisibile, per poter così criticare, dall’alto di un misterioso provvidenzialismo sociologico, il moralismo in politica; il politico come
governo del saggio, suddivide invece le menzogne rispetto alla loro capacità di favorire la conservazione del buon governo; il politico
come virtù repubblicana è duramente segnato dall’intreccio verità/menzogna:
tra una verità coercitiva che discende dall’alto e una menzogna difensiva,
liberatoria, che vi si oppone dal basso.
Che a sua volta, però, una volta istituzionalizzata, può trasformarsi da difensiva in oppressiva tirannia di una
maggioranza composta di presunti deboli, e così via, lungo le strade della storia (ma può esistere una repubblica pluralista? La Arendt , dalle cui sapienti
dissezioni concettuali, Jay trae
sostegno, non sembra dare risposte
esaustive); infine il politico come estetica,
sprofonda nella menzogna ogni volta che al simbolico, componente sociologicamente necessario, sostituisce l’immaginario. Per quale ragione? Perché correndo sulle ali della fantasia ( magari con i pascaliani occhi bendati) si finisce sempre per sottovalutare un fatto
importante: le menzogne pronunciate nella
sfera politica, a differenza di quelle dette o scritte nella sfera “letteraria”, hanno sempre conseguenze
reali. E, se credute ( o "bevute") fino in fondo, possono uccidere uomini in carne e ossa...
Sicché,
conclude saggiamente Jay, «forse il meglio che si possa sperare in politica è un
calcolo morale utilitaristico, analogo alla casistica probabilistica che tanto
suscitava sdegno nei rigoristi giansenisti e puritani, il quale soppesa le
diverse trasgressioni e consente che il politico consapevolmente e con coraggio
prenda su di sé il gravoso onere di sporcarsi le mani per una causa superiore. La riposta di Constant
all’assoluta proibizione kantiana della
menzogna, anche se non applicabile in
tutte le circostanze, è tuttavia valida per il politico, il quale non può separare facilmente, se mai può farlo del
tutto, il mondo noumenico dal mondo fenomenico, il mondo dei principi dal mondo
degli effetti. L’interazione, ovviamente, precede nelle due direzioni».
C’è
da aggiungere altro? Sì, leggete il libro di Martin Jay.
Carlo Gambescia
(**) Per un bilancio critico del pensiero di Jay si veda The Modernist
Imagination: Intellectual History and Critical Theory: Essays in Honor of
Martin Jay, curato da cinque suoi ex allievi Warren Breckman, Peter
E. Gordon, A. Dirk Moses, Samuel Moyn, and Elliot Neaman. Per un bilancio
critico del bilancio critico, anche se a volo di uccello, si veda qui: http://www.h-net.org/reviews/showrev.php?id=26129
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