giovedì 4 dicembre 2014

Il libro della settimana: Giovanni Orsina ( a cura di), Storia delle destre nell’Italia repubblicana, Rubbettino 2014, pp. 286 Euro 18. 

http://www.store.rubbettinoeditore.it/home-1/storia-delle-destre-nell-italia-repubblicana.html


Ecco il libro che mancava!  Storia delle destre nell’Italia repubblicana (Rubbettino), eccellente volume, curato da Giovanni Orsina, professore di Storia contemporanea presso la Luiss-Guido Carli  di Roma. Una ricerca  che si avvale  della collaborazione di un nutrito gruppo  di perspicaci  studiosi. Di qui l’onore e l’onere di citarli tutti, insieme al titolo del rispettivo argomento affrontato:  Gaetano Quagliariello (Le destre in Europa nel secondo dopoguerra: una periodizzazione); Vera Capperucci (La "destra" democristiana); Giuseppe Parlato (Il Movimento sociale italiano); Gerardo Nicolosi (Il Partito liberale italiano); Andrea Ungari ( I Monarchici); Eugenio Capozzi (La polemica antipartitocratica); Guido Panvini (La destra eversiva); Lucia Bonfreschi (Il fenomeno leghista e la Lega Nord); Giovanni Orsina (Il Cavaliere, la destra e il popolo).
Per quale ragione mancava?  Perché per decenni, dopo il fatidico 1945,  come nota Quagliariello, sulle destre ha pesato l’estrazione, l’alleanza, il fiancheggiamento e  la debole opposizione nei riguardi del ventennio fascista.  Il che  avrebbe  prodotto, al  di là della pur importante questione politica, la desertificazione storiografica.  Il cui moltiplicatore  ideologico aveva  però matrice comunista: ci si riferisce in particolare a quell’egemonia culturale e politica che, in nome dell’antifascismo (e dell’equazione anticomunismo uguale fascismo),  è riuscita a relegare le destre in soffitta, grazie anche  all’acquiescenza di una cultura politicamente dominata dai nipotini di Gramsci e Togliatti,  soprattutto dopo la caduta di Tambroni nel 1960 (governo timidamente aperto alla destra, a dire il vero, ancora molto nostalgica).  Come del resto prova la vicenda stessa della destre democristiane e liberali  ridotte ad appendici ornamentali  di maggioranze centriste,  chiuse, per contratto,  alla destra neofascista ed eversiva.
Perciò il libro  curato da Orsina è  importante perché  “primo fiore nel deserto”.  Il che non è poco.  
Forse - non è però una critica -  il volume risente di una leggera sfasatura: impeccabile sotto il profilo della ricostruzione e periodizzazione  storiografica,  lo è meno su quello di un’ipotesi centrale, più politologica,  intorno alla quale forse - sottolineiamo forse -   dovevano  ruotare i diversi, e pur interessanti, saggi.  Parliamo di una  tesi politologica che in qualche misura circola nel libro: prima accennata nell’Introduzione, poi chiaramente formulata, nel  saggio conclusivo sulla destra berlusconiana, molto ben scritto da  Giovanni  Orsina.  E, in soldoni,  di quale tesi si tratta?  Di una destra,  o meglio delle destre capaci di  opporsi a quella visione “ortopedica e pedagogica” che  invece  sembra aver segnato, non solo ex cathedra, la storia d’Italia: per cui  il Paese legale ossia il mondo  politico,  doveva  insegnare al Paese reale, cioè  ai membri della società civile a comportarsi da perfetti cittadini  italiani.  Naturalmente, il tutto,  secondo le diverse sfumature ideologiche relative al tipo di "insegnamento"  impartito e al modello di  cittadino "opzionato" ( liberale post-unitario, sindacalista, nazionalista,  fascista, democristiano, ma anche - se non  soprattutto - azionista col monocolo, socialista, prima e seconda maniera  e comunista nazionalpopolare). Tesi fondamentale, ripetiamo, che Orsina sviluppa molto bene a proposito delle vicende politiche del Cavaliere, vero profeta (poi disarmato e disarmatosi) della società civile "che lavora" e non allunga la mano per ricevere alcunché dallo stato (anche se in effetti la "carne" italiana, da sempre, rimane debole...). Un atteggiamento collettivo, alla chi fa da sé fa per tre, che viene scandagliato  anche in altri saggi, ad esempio  quelli di  Parlato sul Movimento sociale e soprattutto di Bonfreschi sul fenomeno leghista.   
Cosa volevamo dire, in buona sostanza?  Che una tesi, a nostro avviso abbastanza fondata (quella di un’Italia liberale senza saperlo, nel senso di una voglia di fare da sé, senza busti di gesso politici), andava raccordata e verificata  saggio per saggio: cercando   di capire e spiegare  come si ponevano democristiani di destra,  liberali, monarchici, missini, eccetera davanti a un’Italia smithiana ( o potenzialmente tale), che non si aspettava nulla dalla benevolenza del macellaio, del birraio e soprattutto dai poteri  statali (anche se talvolta, è vero, in modo ambiguo...).  Non è una questione -  o almeno non solo  -  di guerra al professionismo politico e di atavico qualunquismo.   Ma,  come dire,  di antropologia politica. Si trattava, prima, di  individuare concettualmente il basso continuo smithiano che ha animato e anima  il   “Paese reale” (cosa che Orsina fa).   Dopo di che, in base  ai diversi  livelli di   “autonomia” attribuiti alla “società civile”,  si dovevano scoprire ed evidenziare, saggio per saggio (aspetti euristici che Orsina, come curatore, forse doveva veicolare meglio),  le consonanze e dissonanze tra la  “società civile”e l'universo ideologico-politico (teoria e prassi) delle “destre plurali”.  Altrimenti -  ecco la cartina tornasole -  la ricostruzione, pur brillante per certi versi, fatta da Capozzi, della  polemica antipartitocratica rischia di diventare l’ennesimo tassello  in stile azionista per  tratteggiare l' asfittica storia di una Paese reale immaturo che stupidamente avrebbe sempre cercato di bigiare  la scuola del Paese legale.
Insomma, in estrema sintesi, quando  si fa  storia delle destre (d’accordissimo sulla pluralità),  regola numero uno: evitare l'uso, talvolta anche inconsapevole (il che non è sempre facile), del catechismo azionista applicato alla scienza storiografica; regola numero due: controllare che la tesi, di cui sopra, venga in qualche modo recepita (anche per contrasto) da tutti i collaboratori. Che poi la destra  berlusconiana, pur ponendo il problema, abbia fallito,  come giustamente nota Orsina, ormai  è questione più storica che epistemologica (nel senso appena ricordato).
Parliamo  di un approccio  che resta  utile -   cosa che comunque   non  sembra  sfuggire neppure a Giovanni Orsina - per capire come sul piano delle assonanze “pedagogistiche”  certa sinistra di ieri e di oggi  sia  più vicina per forma mentis  alla destra missina e post, piuttosto che a una destra liberale, contraria a qualsiasi tipo di catechismo.  Qui però si apre un’altra questione storiografica (e politica): se c’è una destra liberale smithiana esiste anche una sinistra liberale, parasocialista E probabilmente anche un centro che ondeggia tra gli uni e gli altri  E di riflesso,  tre posizioni differenti nei riguardi  della pedagogia (politica) applicata agli italiani smithiani (magari senza saperlo…). Quindi, destre plurali, dentro e fuori…  Italiani, se ci si passa l'espressione,  liberali, ma ignari di esserlo. Insomma, un lavoro duro e complicato… E non solo sul piano storiografico.  Perciò  non invidiamo gli  storici  e neppure i politici.
Comunque sia, grazie ancora a Giovanni Orsina  per aver messo a disposizione  della comunità scientifica un volume importante e degno di essere letto, studiato e commentato. Come qui, molto modestamente, abbiamo tentato di fare.  

Carlo Gambescia                        
              

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