Primo Maggio
Il
lavoro rende liberi?
Ricordiamo tutti con sdegno quel sinistro e beffardo, “il lavoro rende
liberi”, che accoglieva (si fa per dire),
all’ingresso dei campi, le povere vittime del
drago nazionalsocialista.
In realtà, il lavoro non rende
liberi, ma conferisce una precisa
identità, sulla quale può edificarsi la libertà e prosperare una società libera. L'esatto contrario di ciò che si proponeva il totalitarismo nazista. Eppure esiste un legame... Ci spieghiamo subito.
Il lavoro è
un’ esperienza esistenziale vincolante, che nelle nostre società contrassegna la vita
delle persone (“sei quello che fai”), le distingue (“da coloro che fanno altri
lavori”), le separa (da coloro che non hanno un lavoro). Inoltre, il lavoro segna e scansiona le varie fasi ed
età della vita ( si gioca, si studia, si
lavora, ci si svaga, si va in pensione).
Pertanto la sua perdita rappresenta un’autentica catastrofe, dal momento che
perdendo il lavoro si perde l’ identità. Quindi vale il contrario:
il non lavoro (come perdita dell’occupazione)
rende l’uomo libero da vincoli e impegni,
privandolo però al tempo stesso di una
preziosa identità sociale.
E che cos’è l’uomo privo di
identità? Un essere manipolabile, pronto
a qualsiasi avventura, anche politicamente pericolosa, pur di recuperare la propria identità. I dati
sulla disoccupazione tedesca prima dell’avvento di Hitler comprovano questa tesi. Del
resto esiste al riguardo una copiosa letteratura storica e sociologica.
Sotto questo aspetto, i nazisti, evocando la missione liberatrice del lavoro, paradossalmente, giocavano (barando) sulla promessa di conferire una nuova identità. Ovviamente, come oggi tristemente sappiamo, lo scopo era un altro e non poteva non essere
quello, soprattutto alla luce del feroce bellicismo e del terribile antisemitismo racchiusi nell'ideologia nazista. Però, l’atroce inganno, testimonia suo malgrado, il nesso tra lavoro e identità sociale, al quale seppure per
pochissimo tempo, finirono per credere, non pochi, fra le stesse vittime dei campi nazisti. Una tragedia nella tragedia…
Il che significa, concludendo, che con l’identità sociale delle persone non
si scherza. E che tre milioni di disoccupati sono decisamente troppi…
Carlo Gambescia
Interessante post dottore.
RispondiEliminaCordiali saluti,
Mario