A sfogliare i giornali di oggi sembra che la soluzione della questione migranti sia dettata dalle dimissioni di Piantedosi e Salvini. Da un lato la destra li difende, dall’altro la sinistra li attacca. Una specie di gioco delle parti. Si badi bene: se al Viminale vi fosse un ministro di sinistra, il gioco lo si disputerebbe a parti invertite… Pietoso.
Un passo indietro. Una classe politica quando mostra la sua inadeguatezza? Quando al di là delle caratteristiche del contesto storico, non riesce a cogliere l’essenza delle questioni che ha davanti a sé. E quindi a dare risposte metapolitiche. Insomma, quando si perde in questioni secondarie.
Si prenda il problema dei migranti. Della destra abbiamo abbondantemente parlato nei giorni scorsi: se la cava puntando sulla fortezza Italia (o Europa) e sullo sterminio preventivo in mare, ovviamente nascondendo i suoi abietti propositi sotto scuse più o meno nobili. E la sinistra invece cosa propone? Il welfare state del migrante deresponsabilizzato. Insomma, accoglienza per tutti e diritti sociali. Un paradiso in terra.
Ora, il fatto che il migrante sia un essere umano, con i suoi diritti, come tutti, e che debba essere trattato come tale, è fuori discussione, ci mancherebbe altro.
Ma che si voglia costruire intorno al migrante una gigantesca impalcatura assistenziale, proprio in quell’area grigia pubblico-privato, fonte di corruzione, di sprechi e di consenso drogato dalla necessità, non è assolutamente accettabile.
Si segua il nostro ragionamento. Sul piano individuale, il senso di responsabilità associato a quello di rischio (l’uno non esclude l’altro, si chiama rischio calcolato, nel senso di sapere ciò che ci aspetta facendo un determinata scelta) è un valore tipico dell’Occidente, alla base di ascese sociali, talvolta miracolose, sul piano imprenditoriale ad esempio. Però bisogna avere le doti giuste. E la deresponsabilizzazione non aiuta mai.
Perciò sotto questo aspetto, il concetto del migrante welfarizzato, teorizzato dalla sinistra, è deleterio. Come pure, ma per altre ragioni, quello del migrante affogato, teorizzato dalla destra. Nei due casi non si coglie l’essenza della questione migranti.
Che fare allora? La giusta ricetta è di normalizzare la questione, trattando il migrante – per farla breve – come un turista qualsiasi. Porte aperte a tutti. Ma – attenzione – a costo welfare zero dal punto di vista della spesa pubblica. Lasciando ai privati umanitari – la caritatevole Chiesa cattolica in prima linea, ma anche le associazione laiche, così compassionevoli – di occuparsi a proprie spese dell’accoglienza in Italia.
La filosofia di fondo della nostra ricetta è semplicissima: libera accoglienza + libero mercato. Lasciando poi che le leggi della domanda dell’offerta decidano la sorte professionale del migrante. A prezzo di mercato però. Fatta salva, ovviamente, la parità di diritti del lavoro tra lavoratore straniero e lavoratore italiano.
L’adozione di questa “metodologia” liberale si svilupperebbe in tre fasi: una prima fase di “assalto alla diligenza”; una seconda di decantazione sociale; una terza di naturale riflusso del migrante, o comunque di stabilizzazione, grazie proprio al ruolo selettivo delle leggi di mercato.
Nel tempo, venendo meno o diluendosi il concetto del migrante welfarizzato, verrebbe meno anche il mito del paradiso italiano, grazie all’introiezione di quel senso di rischio calcolato nel migrante, consapevole di dover subire una dura selezione.
Inoltre, cosa fondamentale dal punto di vista umanitario, con l’apertura delle frontiere, quindi con viaggi regolari e sicuri, le stragi in mare, causate dall’ideologia destrorsa della “fortezza”, si tramuterebbero in lontano ricordo.
Quanto alla gestione sociale dei migranti espulsi dal mercato del lavoro italiano, supplirebbero le organizzazioni private-umanitarie e il codice penale. In quest’ultimo caso si tratta di accettare il rischio, per gli italiani come per i migranti – certo, non del tutto commendevole dal punto di vista umanitario – dei processi selettivi che spingono ai margini, talvolta anche della legge, i soggetti meno dotati.
Un inciso. È ovvio, che l’approccio liberale al migrante andrebbe adottato ed esteso sul piano europeo. Insomma regole aperturiste, uguali per tutti. Ecco cosa significa civiltà liberale.
Un rischio, come detto, che però tenderebbe a ridursi nel tempo, grazie al ruolo del setaccio sociale, rappresentato dall’economia di mercato, che inevitabilmente scoraggia i meno dotati di senso di responsabilità e gusto del rischio, come pure favorisce l’integrazione di coloro che ne sono dotati. Di qui, il venire meno di quell’ostilità verso il diverso, sulla quale la destra gioca in modo ignobile le sue fortune elettorali.
Insomma, resterebbero in Italia (e in Europa) solo i migliori. Una crema che andrebbe a costituire in tutte le professioni un’importante risorsa a livello di cittadinanza e di cultura dell’integrazione. Ripetiamo: ecco cosa si intende per civiltà liberale.
Sappiamo benissimo che in Italia, dove si evoca continuamente il ruolo dello stato e il valore di un sorpassato e ridicolo nazionalismo, una tesi del genere difficilmente sarà presa in seria considerazione. Anzi chi scrive sa di essere giudicato un eccentrico. La nostra eccentricità, sia detto per inciso, si chiama liberalismo. Che, ovviamente, in un mondo welfarizzato e segnato dall’ individualismo protetto, come quello italiano (ed europeo), suona blasfemo.
Il che però prova non la debolezza della nostra proposta liberale, ma l’incapacità di cogliere da parte della classe politica l’essenza della questione migranti. Il che è un segno di decadenza.
Un brutto segnale che si nutre della complicità collettiva dei comuni cittadini che hanno perso il gusto del rischio, ma non quello di dividersi, stupidamente, in difensori del migrante affogato e del migrante welfarizzato.
Carlo Gambescia
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