martedì 14 marzo 2023

Il piacere di leggere Gianfranco Miglio

 


Gianfranco Miglio si legge e si rilegge sempre volentieri. Non possiamo perciò non apprezzare la pubblicazione di questa notevole raccolta di scritti dal titolo suggestivo e impegnativo al tempo stesso: La lezione del realismo (*). Che copre quasi la totalità del suo cammino intellettuale. 

Infatti il suo primo lavoro a stampa risale  al  1942 (Miglio nacque nel 1918 in quel di Como). Perciò il lungo percorso pubblicistico-scientifico, ricco di ricadute accademiche e post-accademiche, tra il 1945 e il 2000 (morì l’anno seguente), sul quale la raccolta spazia, consente al lettore non distratto di fare il punto sul pensiero di Miglio.

Proprio per questa ragione se ne consiglia, ripetiamo, una avida lettura. Senza saltare, ovviamente, la puntuale introduzione di Damiano Palano che ricostruisce il cammino controvento di Miglio. Mai in sintonia con le mode accademiche che hanno scolpito in chiave comportamentista le scienze politiche italiane del secondo dopoguerra. Dimentiche dell’ottocentesco laboratorio tedesco di scienze sociali, con i suoi imbuti, filtri e ampolle istituzionali, sempre in ebollizione. Per non dire dell’acuminata lezione di Pareto, Mosca, Michels e di altri pensatori eccentrici come Ferrero, per fare il nome di un illustre studioso oggi (quasi) dimenticato.

Come è noto Miglio non è mai stato un amico della liberal-democrazia, né delle istituzioni rappresentative, come pure del nazionalismo, dello statalismo, della borghesia parassitaria, e delle ideologie politiche in genere, a partire da quelle totalitarie. La lezione del realismo politico è questa: prima la realtà effettuale. Ai sogni, al massimo, si può riservare il calice della staffa, dopo la mezzanotte, quando ospiti e commensali sono ubriachi o in stato soporoso.

Il rifiuto di Miglio dell’ irrealismo roussoviano (per citare un “capobastone” ideologico), resta pari a quello di Mosca e Pareto. Si tratta di un rifiuto ragionato e storicizzato. Ricondotto al centro del ciclo politico, come inevitabile motore delle trasformazioni politiche, basate sull’analisi di regolarità , tra le quali primeggiano due grandi dicotomie politiche (noi diremmo metapolitiche, ma questa è un’altra storia…): quella amico-nemico, in chiave di solidarietà interna contro il nemico esterno, e quella tra obbligazione politica, dispensatrice di rendite pubbliche garantite, e contratto-scambio, quale  sfera d'azione  delle  attività  private  rivolte  alla produzione, circolazione e  consumo  di beni.

Il realismo politico di Miglio nasce da una classica idea hobbesiana: quella della pericolosità dell’ uomo perché essere imprevedibile. Di qui le due possibilità: accettare il rischio della previsione sbagliata, oppure provare a cambiare l’uomo, obbligandolo ad essere libero. Miglio, da buon realista, preferisce, lasciar perdere la natura umana, pur non essendo insensibile al fascino noir del realismo biologico-etologico, per cimentarsi con le previsioni, basate però su regolarità inoppugnabili. Sui grandi numeri della storia.

Insomma siamo davanti a una logica storicistico-funzionale, capace però di rispettare l’uomo così com’è. Che perciò non si affida ad attori astratti, ma a uomini in carne e ossa. Nella pagina di Miglio batte il cuore dell’evento.

A suo avviso, sul piano analitico,  il passaggio dalla fedeltà politica (obbligazione) allo scambio economico (contratto) e viceversa, impone il riconoscimento tucidideo-machiavelliano-hobbesiano del conflitto tra passioni e interessi, come fattore di continuo e inevitabile riequilibrio sociale: tutto corre, non ci si bagna due volte nello stesso fiume, ma ci si bagna, anzi ci si deve bagnare.

Perciò non attori astratti, ripetiamo, ma uomini concreti, con costumi a portata di mano, talvolta addirittura ignudi, a cui l’evento impone la decisione e l’unità di comando. Per garantire che cosa? A livello di sintesi politica, un ordine, che non né modernità, né progresso, ma soltanto una certa forma di equilibrio storico. Una cosa che è. E che non è migliore di un’altra, ma c’è. Esiste insomma. Per Miglio parleremmo di realismo esistenziale: nelle cose, non dalle cose.

Gli spunti di interesse sono molteplici e  notevoli.  Come ad esempio la tesi sull’ordine bipolare, come il più funzionale tra le convivenze internazionali possibili, che si oppone alle disfunzionalità del pluralismo come conflitto tra sovranità che non vanno mai oltre se stesse.

Ma l’intera raccolta è ricca di osservazioni fulminanti:  sulla “comunicazione” (che determina instabilità politica); sulla globalizzazione (che risalirebbe addirittura all’Ellenismo); sul segreto politico (necessario, se non indispensabile); su Stalin (una specie di genio politico, pari quasi a quello di Churchill), e così via.

Quanto al federalismo di Miglio, piaccia o meno ai cultori del suo pensiero, pur non avendo nulla a che vedere con il centralismo giacobino dei finti federalisti, pure immaginari, resta come pericolosamente sospeso tra una specie di plebiscitarismo localizzato e l’idea di un' egemonia  decisionista dei migliori sul piano della capacità di  comprensione dei  problemi del tempo.

Per dirla elegantemente con Pareto, siamo sul piano, talvolta scivoloso, come ogni forma di scienza applicata, dell’ottimo per la società. Per quanto ricondotto nell’alveo dell’ “inevitabilità” del ciclo politico che quando Miglio scriveva e rifletteva, andava nella direzione del contratto depoliticizzato. Da allora, purtroppo, molta acqua è passata sotto i ponti. A rafforzare le “rendite parassitarie” dello stato obbligazionista ci si è messo di mezzo il cigno nero del Covid. E così sia.

Va infine fatta un’altra osservazione: l’eccellente macchina da guerra cognitiva costruita da Miglio, giovane universalista deluso, poi, per sua stessa compiaciuta ammissione, “spietato realista”, si basa, come si legge, sull’ “accelerazione della storia” determinatasi in Occidente . Cioè la macchina cognitiva di Miglio  usa solo carburante storico prodotto in Europa e rettificato negli Stati Uniti.

Cosa intendiamo dire? Che le sue ipotesi spaziano dalle Guerre persiane alla Seconda guerra mondiale, in versione calda e fredda. Si passa dal salotto alla camera da letto di un grande appartamento borghese, spazioso e luminoso, ma fino a un certo punto. Fuor di metafora: se di ciclo politico e regolarità si deve parlare, anche per trovare altre conferme alle brillanti teorizzazioni di Miglio, le indagini non possono non essere estese, ad esempio per quello che riguarda la regolarità bipolarismo-pluralismo, alla Cina degli “stati combattenti”, prima dell’unificazione Han (anteriori), al Giappone, del periodo Sengoku o degli “stati belligeranti”, che precede l’egemonia dello shogunato Tokugawa. Ma anche al precario equilibrio dello stato Moghul in India, dopo un splendido inizio. Nonché al ruolo polarizzante delle tribù berbere nel ciclo politico delle defezioni interne al Maghreb  abbaside, come pure all’irresistibile ascesa dell’Impero ottomano in relazione alle concorrenti egemonie mongoliche e timuridi. Quindi non solo il Regno partico contro Roma, Crociati contro Musulmani, Bonifacio VIII contro Filippo il Bello, Luigi XIV contro tutti, e potenza sovietica contro potenza americana.

Diciamo che Miglio, più tedesco come cultura che anglo-sassone (semplifichiamo), si è sentito meno prossimo all’analisi comparativistica a tutto campo. Ovviamente parliamo di un comparativismo concreto non quello del “precedente” istituzionale, virgole comprese, come giustamente nota Miglio a proposito di certi eccessi, pur veniali, di Sartori, altro eccellente padre della politologia nostrana, che risciacquò i panni nel fiume Hudson, senza però annegarvi grazie alla  salvifica  mediazione culturale crociana.

Un approccio, quello comparativo, che ovviamente può sfiorare l’enciclopedismo-proceduralismo, ma che si può apprezzare, al suo meglio, in quel capolavoro di politica comparata, rappresentato dalla History of Government di Finer, altro paretiano come Miglio.

Un’ opera straordinaria che consente di capire, tra le altre cose, come il decisionismo abbia talvolta costi politici enormi in termini di libertà personali. Una pericolosa deriva che vale anche per l’unità di comando, quando rapportata alla forma di governo Palace, della società di corte, nelle sue varie sfumature e pericolose commistioni con le forme Church, Nobility, di una nepotistica aristocrazia chiesastica e laica, che prescinde dal valore dei dirigenti selezionati. Come pure nel caso della forma istituzionale Forum, quando degrada nei giochini di una cooptante e vorace élite partitocratico-welfarista.

Perciò Miglio non ha tutti i torti. Tuttavia – ecco la lezione di Finer – la democrazia parlamentare, originale portato istituzionale della forma Forum, resta una delle più grandi invenzioni dell’Occidente. Qualcosa che il mondo ci invidia. Una pianta, in fondo ancora giovane, esile, da accudire, non da seppellire sotto una rivisitazione spengleriana di una inevitabile dicotomia status-contratto, che pure esiste, ma che riporta all’arco e alla freccia di altri equilibri storico-sociali.

Su quest’ultimo punto Miglio sembra muovere alle istituzioni parlamentari, sebbene con grandissima eleganza e un pizzico di catastrofismo ipostatizzato in termini di “riequilibrio automatico”, le stesse critiche sollevate dai rumorosi sindacalisti rivoluzionari e dai saccenti corporativisti, poi tramutatisi, quasi tutti, in fascisti: nel  gelatinoso e repellente  portato  di quel  "rabbioso nazionalismo",  giustamente sgradito a Miglio.

Pertanto le sue  sciabolate,  anche se ben assestate, rischiano di tradursi, come ben preconizzò Luigi Einaudi, affidandosi alla perspicacia di Mosca, nella sostituzione al parlamentare che viene, nel male e nel bene, dalla società civile, fondata sul libero contratto, il funzionario stipendiato dalle organizzazioni di appartenenza, perciò ad esse fedele, nei termini di una obbligazione politica, che cacciata dalla porta rientra dalla finestra. Per non parlare delle forme di corporativismo istituzionalizzato, quando è lo stato a scegliere i rappresentanti dei cittadini tra i suoi stessi stipendiati (***).

Ovviamente Miglio non sarebbe d’accordo con Einaudi. Figurarsi con noi…

Cosa dire? Che nessuno è perfetto e che esistono gradi differenti di imperfezione. Il che significa che Miglio, come dicevamo, merita sempre di essere letto e riletto. Non è un Cacciari qualsiasi. Miglio, Schmitt lo ha letto tutto, e, cosa non secondaria,  digerito.

Carlo Gambescia

(*) Gianfranco Miglio, La lezione del realismo. Scritti brevi sulla politica internazionale, l’Europa, la storia (1945-2000), a cura di Damiano Palano, Rubbettino 2022, pp. 344, euro 28,00.

(**) Samuel E. Finer, The History of Government From the Earliest Times, Oxford Universiy Press 1997-1999, 3 voll, in particolare, vol. I, pp. 93-94, vol. III, pp.1473-1484, 1567-1572.

(***) L. Einaudi, Parlamenti e classe politica (1923), in Id., Cronache economiche e politiche di un trentennio, Einaudi 1965, vol. VII, pp. 264-268.

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