Quel che sta accadendo in Israele rappresenta un’occasione per riflettere su una questione di fondamentale importanza per il futuro della democrazia liberale. Qualcosa di più generale.
Cioè la prima cosa da non fare, come invece accade, è dividersi tra amici e nemici di Netanyahu.
In realtà, al centro del conflitto fra governo e piazze, tutto all’insegna del radicalismo politico, si colloca la questione generale dell’indipendenza della magistratura, in particolare di quella costituzionale.
Netanyahu vuole limitarne i poteri, le piazze invece rifiutano il progetto del governo. Inutile chiedersi chi abbia ragione. Perché come vedremo i veri problemi sono altri.
Dal punto di vista della contrapposizione dottrinaria, la pretesa di Netanyahu di ribaltare le sentenze della Corte Suprema a colpi di voti parlamentari, come pure le proteste di piazza, possono essere lette – al di là della dietrologia giornalistica – secondo due schemi contrastanti: a) come una rivendicazione della sovranità popolare, rappresentata dal parlamento, il passo successivo, per capire il senso del cammino intrapreso, potrebbe essere quello di un megalomane referendum sulle decisioni della corte suprema ( Tesi Netanyahu) ; b) come una rivendicazione dell’indipendenza della magistratura, quindi della sovranità popolare, che il governo, come si dice, vuole mettere sotto tutela (Tesi oppositori e piazze).
Sono due interpretazioni lecite che però sul piano sociologico rinviano a uno scontro che non è puramente dottrinario. Perché, in concreto, rimandano alle forze sociali che sono sempre dietro, o se si preferisce alla base, delle dottrine politiche, anche di quella liberale.
Perché una cosa è asserire l’indipendenza della magistratura, come cenacolo di saggi uomini impermeabili alle istanze politiche, un’altra renderla realmente indipendente dalle focose battaglie che nascono inevitabilmente dall’esercizio della sovranità popolare nelle varie sedi istituzionali.
Diciamo che quanto più il quadro politico si radicalizza tanto più l’indipendenza del magistrato – che non un superuomo, ma un uomo come tanti altri – rischia di tramutarsi in una specie libretto dei sogni.
Ciò significa che il populismo giudiziario che da alcuni decenni nei paesi di tradizione liberale, Israele compreso, ipnotizza masse e classi politiche di destra come di sinistra, non favorisce l’indipendenza del giudice. Anzi addirittura stimola il magistrato a schierarsi politicamente.
Qual è allora il vero punto sociologico della questione? Che più la temperatura sociale sale, più l’indipendenza del potere giudiziario tende a evaporare. Perché il giudice viene messo nella dura condizione di dover scegliere – qui, il primo errore – tra sovranità popolare e sovranità delle leggi. Si riapre insomma la frattura tra governo degli uomini e governo delle leggi.
Inoltre – qui, il secondo errore – l’isterica battaglia retorica, che oggi devasta il discorso pubblico, in realtà funge da paravento. Dietro il quale si celano i concreti interessi politici delle parti in lotta.
Interessi inevitabili, che è pure giusto che esistano. Non è però giusto nasconderli, evocando, di volta in volta, secondo le convenienze del momento, la magnificenza della sovranità popolare e i pregi dell’indipendenza della magistratura. In un continuo gioco al rialzo che fa salire fino alle stelle la temperatura sociale, imbrigliando politicamente le menti dei giudici.
Pertanto, l’unica vera cosa da fare e combattere la febbre sociale.
Come? Abbassando i toni, sempre più esasperati, del discorso pubblico.
Il che rimanda, non tanto alla saggezza dei giudici quanto alla prudenza dei politici, virtù oggi poco sviluppata ed esercitata. Qui la colpa di Netanyahu. Che sfida e fanatizza, volente o nolente, le masse. Che, come un tempo si diceva dei militari, sarà poi difficile, far rientrare nelle caserme, oggi nelle abitazioni. Ciò significa che al prossimo giro, a posizioni invertite, saranno sempre le piazze fanatizzate a comandare, o a illudersi di comandare, e i giudici, piaccia o meno, a schierarsi.
Le classi politiche – tutte – dovrebbero moderare i toni e tenere sotto controllo gli istinti carnivori, i propri come quelli delle masse. Finché possibile mai tirare troppo la corda, mai fomentare le masse puntando su un idealismo di seconda mano. Ecco la regola politica numero uno: tenersi alla larga dal fanatismo.
Si tratta di evitare lo scontro frontale. In altre parole, di rinunciare saggiamente a quei conflitti capaci di radicalizzare le divisioni sociali. Scontri, inutili e pericolosi, che spingono inevitabilmente i giudici a schierarsi. Come pure i politici a usarli come truppe d’assalto in una sporca guerra che alcuni amano definire “culturale”.
Ma che in realtà è una guerra al liberalismo. Perché rischia di condurre, come sta accadendo, alla distruzione di istituzioni come parlamento e magistratura che hanno fatto grande l’Occidente.
Carlo Gambescia
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