venerdì 31 marzo 2023

Gas, il mercato funziona, però meglio tacere…

 


È una questione di mentalità. Assai difficile da contrastare.

Di che parliamo? Il prezzo del gas all’ingrosso scende. Non proprio ai livelli pre invasione russa dell’Ucraina ma scende in modo consistente (*), eppure i mass media glissano. I pochi che entrano nel merito, nemmeno accennano all’ennesima riprova del buon funzionamento della legge della domanda e dell’offerta. Fischiettano e fanno i vaghi,  a partire dai tagli bassi di prima pagina, che quasi non si vedono, con catenacci impalpabili (**): “ Ha smesso di piovere? Boh…”.

In realtà, la caduta dei prezzi, non è merito dell’inverno mite, degli stoccaggi governativi, delle politiche pubbliche di risparmio, eccetera, eccetera, ma di una cosa, molto semplice, che si chiama, a prescindere dalle cause congiunturali appena elencate, calo della domanda, al quale corrisponde inevitabilmente, il calo dei prezzi.

Il cavallo consumatore, se l’acqua costa troppo, non beve. Mica è stupido. Ovviamente, esistono anche politiche, diciamo artificiose, di riduzione dell’offerta: meno acqua al cavallo. Che tuttavia, confermano il calo della domanda, diciamo lo seguono, e finiscono per infierire, sui livelli produttivi, l’ancora dell’offerta, e di conseguenza, sui profitti dei produttori. Che, alla fine, se vogliono sopravvivere – si pensi ai costi fissi (soprattutto nel settore energetico) – non possono non arrendersi all’andamento ribassista del mercato. E “tac”… il prezzo scende e la domanda risale, senza dover più ricorrere a nessun artificio in termini di offerta. E così via.

Quando la Russia invase l’Ucraina siamo stati tra i pochi osservatori ad asserire che il principale nemico di Mosca era rappresentato  non dalle  sanzioni ma dalla legge della domanda e dell’offerta. E così è stato. La Russia rischia di morire soffocata dal suo stesso gas invenduto.

Perché non ammettere, con sano realismo, che gli spiriti animali del mercato si vendicano sempre? Basta saper attendere, senza agitarsi.

E invece no. Il prezzo del gas si è abbassato ma non l’inflazione, almeno per ora. Il che dipende dalle politiche welfariste di sostegno della domanda energetica, che in particolare consistono in bonus ai consumatori, bonus che fanno lievitare l’inflazione, alzando verso l’alto l’asticella del riequilibrio tra domanda e offerta. Detto altrimenti: si pompa aria nel pallone economia, a rischio di farlo esplodere in termini di inflazione galoppante.

In definitiva, si tratta di un circuito economico fittizio: il sostegno welfarista alla domanda via bonus rinvia al sostegno all’offerta via tagli produttivi, da parte delle imprese, ai quali si tenta di ovviare, da parte dello stato, con un mix di bonus o plus  finanziari  e  minus fiscali. Sono interventi di natura artificiosa che interferiscono con la naturalezza della legge della domanda e dell’offerta. 

Si crea una specie di universo parallelo, artefatto, ma con conseguenze reali (la prima è l’inflazione), la cui filosofia di fondo – filosofia che anima lo stato spendaccione, le imprese drogate e i consumatori viziati – è sempre la stessa: la mano visibile che pretende di saperne di più della mano invisibile. Che invece, come detto, anche nel caso del gas, nonostante tutto, sta facendo il suo corso.

Insomma, il prezzo del gas scende ed è tutto merito del mercato. Però guai a parlarne.

Purtroppo, come dicevamo, è una questione di mentalità. Statalista.

Carlo Gambescia

(*) Qui: https://www.agi.it/economia/news/2023-03-30/bollette_luce_calo_energia_aprile-20749931/ .

(**) Si faccia un “giro” qui: https://www.giornalone.it/ .

giovedì 30 marzo 2023

De Gaulle secondo Marcello Veneziani


Esercizi di mistificazione. Piaccia o meno, non trovo espressione migliore. A quale scopo usarla però? Per capire meglio e subito l’ approccio di certa destra culturale reazionaria. Si prenda, ad esempio, l’articolo di Marcello Veneziani intitolato “Nostalgia di Charles de Gaulle” (*).

L’occasione del pezzo rinvia alla proiezione, organizzata dalla Fondazione Almirante, di un film storico francese sul Generale (**), introdotta da Veneziani. Una specie di cineforum di lusso al Barberini.

E cosa scrive l’ideologo della “rivoluzione conservatrice"? Siamo davanti a una pura e semplice “operazione gattopardo”: Veneziani scambia, intenzionalmente, l’ideologia politica del Maresciallo Pétain, strenuo difensore del “Dio, Patria e Famiglia” che scelse i nazisti, con quella del Generale de Gaulle, che invece era liberal-democratica e antifascista.

Insomma, Veneziani fa del suo meglio per non far capire le ragioni profonde di una scelta tra democrazia e totalitarismo. Tra l’altro il film si occupa proprio di questo: perché nel 1940, anno al centro della pellicola, dopo la “caduta della Francia”, de Gaulle optò senza esitazioni per Gran Bretagna liberale, Pétain per la Germania nazista. Di qui il suo celebre e dirimente appello ai francesi  dai microfoni di Radio Londra.

Ma fa anche di peggio: dipinge il Generale come un vitalista, “ritrattino” che negli ambienti culturali frequentati da Veneziani è sinonimo di fascista per caso o comunque mancato.

Non pago, lo raffigura come un nemico della tecnica: quando è notorio che Charles de Gaulle fu tra i primi a intuire e teorizzare, mettendo nero su bianco, il nuovo ruolo del carro armato nella guerra moderna.

Ripeto, siamo davanti a un’ autentica mistificazione culturale. Che ovviamente torna utile all’ “ideologo” Veneziani per nominare d’ufficio il Generale membro onorario di “una destra conservatrice, nazionale e sociale, imperniata su uno stato autorevole e un legame vivo con le tradizioni nazionali”. Tradotto: Fratelli d’Italia. Che poi,  ecco il trucco da Mago Silvan delle idee,  sarebbe la destra  di Philippe  Pétain  non di Charles de Gaulle. 

Un’altra cosa, non meno importante. A proposito dei gollisti italiani, Veneziani cita Pacciardi e Sogno, ma non chi a “Nuova Repubblica” fu il braccio destro, se non tutti e due, di Pacciardi: Giano Accame, indimenticabile intellettuale di destra, uomo acuto e sincero che voleva parlare al mondo senza mistificazioni: “Non mi vergogno di essere fascista… Anzi…”. Come mi disse una volta…

Accame fascista “speciale” dalle spiccate simpatie antifasciste (Pacciardi aveva addirittura combattuto in Spagna con i Repubblicani), si fece una valanga di nemici negli ambienti missini da cui proveniva. Aveva amicizie, fuori dal giro, alcune solidissime. Un grande esempio di intelligente ecumenismo politico. Non mistificazioni ma ponti e oneste revisioni. Ovviamente, nessuna concessione  alla destra reazionaria.  Questo il suo metodo di lavoro.

Se Veneziani sente nostalgia per Charles de Gaulle, io sento nostalgia per Giano Accame. Per un uomo libero. Sicché, oggi che più mai, non conviene parlarne. Poi è morto, quindi non conta più niente…

Veneziani invece è vivo e vegeto e continua a fare danni.

Carlo Gambescia

(*) Qui: https://www.marcelloveneziani.com/articoli/nostalgia-di-de-gaulle-patriota-deuropa/ .

(**) Qui: https://www.annuariodelcinema.it/news/roma-successo-della-proiezione-del-film-de-gaulle .

 

mercoledì 29 marzo 2023

Arcaismo alimentare in cravatta

 


La prima reazione è di interrogarsi su che razza di paese sia l’Italia che consente a un uomo primitivo di diventare Ministro dell’Agricoltura e della Sovranità alimentare. Un inciso per i fascisti che lo adorano: persino il nazional-imperialista Mussolini, si accontentò della denominazione, neutralissima, di Ministero dell’Agricoltura e delle foreste.

Parliamo ovviamente del cognato di Giorgia Meloni: Francesco Lollobrigida da Tivoli. Che ieri si è addirittura vantato di avere introdotto per Ddl il divieto alla produzione e commercializzazione di alimenti e mangimi sintetici: “L’Italia è la prima nazione che dice di no alla carne sintetica con un provvedimento ufficiale”.

Ora di carne e altro cibo sintetico chi scrive non sa nulla e neppure ha le competenze eccetera, eccetera (*), però crede di sapere una cosa: che si tratta di un business molto interessante che si va sviluppando velocemente in tutto il mondo, e che a causa del Ddl Lollobrigida, tra qualche anno, l’Italia si ritroverà in fondo alla fila. A partire dalla ricerca in tale ambito. Perché “no party, no finanziamenti, pubblici e privati”.

E qui si torna all’einaudiano conoscere per deliberare. Perché studiare se poi gli studi non servono a nulla perché si vieta la commercializzazione, eccetera, eccetera?

Che cos’è l’arcaismo? I lessici scrivono che in psicologia questa definizione rinvia “a modelli di comportamento o tendenze individuali o sociali, analoghi a quelli dei primitivi, dovuti a inclinazioni più o meno latenti che risalgono alla storia remota del genere umano”. Una di queste di tendenze è la paura per ciò che non conosciamo.

Come ne  è  uscito fuori l’uomo? Come ha fatto da “arcaico” a diventare “moderno”? Studiando e ricercando in una società libera. Co-no-scen-do.

Ciò significa che Francesco Lollobrigida da Tivoli, oltre ad aver saltato a scuola la lezione sulla storia dell’Illuminismo, o forse proprio per questo, ragiona in modo arcaico.

Perché come i difensori della teoria tolemaica, non ammette che si possano sostenere tesi contrarie. Ovviamente, come la Chiesa tolemaica che condannò Galileo (piaccia o meno ma è agli atti…), anche Lollobrigida evoca la protezione della salute, non dell’anima, ma fisica. Non sia mai… Che grande altruista…

In realtà la domanda da porsi è un’altra: se si sbatte la porta in faccia alla ricerca, come si può sapere se i cibi sintetici fanno male alla salute?

Il no di Lollobrigida è una specie di a priori: un fatto pregiudiziale invocato da chi non crede nella libertà scientifica e anche di  mercato. Al riguardo non si dimentichi il favore fatto ai produttori italiani di carni, diciamo “tradizionali”: puro protezionismo. La cognata, Giorgia Meloni, ha subito festeggiato con la Coldiretti: Cric e Croc… Niente transizione verde questa volta… La bistecca sostenibile non piace. Quando si dice il caso…

Concludendo, roba da cavernicoli. O per metterla sul dotto: arcaismo alimentare. In cravatta, ma arcaismo.

Carlo Gambescia

(*) Qui alcune informazioni in materia: https://www.corriere.it/cook/news/23_marzo_29/cibi-sintetici-cosa-sono-legge-d5fe492e-cda1-11ed-ab8e-1e4a885c119f.shtml .

martedì 28 marzo 2023

Non solo Netanyahu

 


Quel che sta accadendo in Israele rappresenta  un’occasione per riflettere su una questione di fondamentale importanza per il futuro della democrazia liberale. Qualcosa di più generale.

Cioè la prima cosa da non fare, come invece accade, è dividersi tra amici e nemici di Netanyahu.

In realtà, al centro del conflitto fra governo e piazze, tutto all’insegna del radicalismo politico, si colloca la questione generale dell’indipendenza della magistratura, in particolare di quella costituzionale.

Netanyahu vuole limitarne i poteri, le piazze invece rifiutano il progetto del governo. Inutile chiedersi chi abbia ragione. Perché come vedremo i veri problemi sono altri.

Dal punto di vista della contrapposizione dottrinaria, la pretesa di Netanyahu di ribaltare le sentenze della Corte Suprema a colpi di voti parlamentari, come pure le proteste di piazza, possono essere lette – al di là della dietrologia giornalistica – secondo due schemi contrastanti: a) come una rivendicazione della sovranità popolare, rappresentata dal parlamento, il passo successivo, per capire il senso del cammino intrapreso, potrebbe essere quello di un megalomane referendum sulle decisioni della corte suprema ( Tesi Netanyahu) ; b) come una rivendicazione dell’indipendenza della magistratura, quindi della sovranità popolare, che il governo, come si dice, vuole mettere sotto tutela (Tesi oppositori e piazze).

Sono due interpretazioni lecite che però sul piano sociologico rinviano a uno scontro che non è puramente dottrinario. Perché, in concreto, rimandano alle forze sociali che sono sempre dietro, o se si preferisce alla base, delle dottrine politiche, anche di quella liberale.

Perché una cosa è asserire l’indipendenza della magistratura, come cenacolo di saggi uomini impermeabili alle istanze politiche, un’altra renderla realmente indipendente dalle focose battaglie che nascono inevitabilmente dall’esercizio della sovranità popolare nelle varie sedi istituzionali.

Diciamo che quanto più il quadro politico si radicalizza tanto più l’indipendenza del magistrato – che non un superuomo, ma un uomo come tanti altri – rischia di tramutarsi in una specie libretto dei sogni.

Ciò significa che il populismo giudiziario che da alcuni decenni nei paesi di tradizione liberale, Israele compreso, ipnotizza masse e classi politiche di destra come di sinistra, non favorisce l’indipendenza del giudice. Anzi addirittura stimola il magistrato a schierarsi politicamente.

Qual è allora il vero punto sociologico della questione? Che più la temperatura sociale sale, più l’indipendenza del potere giudiziario tende a evaporare. Perché il giudice viene messo nella dura condizione di dover scegliere – qui, il primo errore – tra sovranità popolare e sovranità delle leggi. Si riapre insomma la frattura tra governo degli uomini e governo delle leggi.

Inoltre – qui, il secondo errore – l’isterica battaglia retorica, che oggi devasta il discorso pubblico,  in realtà funge da paravento.  Dietro il quale si celano i concreti interessi politici delle parti in lotta.

Interessi inevitabili, che è pure giusto che esistano. Non è però giusto nasconderli, evocando, di volta in volta, secondo le convenienze del momento, la magnificenza della sovranità popolare e i pregi dell’indipendenza della magistratura. In un continuo gioco al rialzo che fa salire fino alle stelle la temperatura sociale, imbrigliando politicamente le menti dei giudici.

Pertanto, l’unica vera cosa da fare e combattere la febbre sociale.

Come? Abbassando i toni, sempre più esasperati, del discorso pubblico.

Il che rimanda, non tanto alla saggezza dei giudici quanto alla prudenza dei politici, virtù oggi poco sviluppata ed esercitata. Qui la colpa di Netanyahu. Che sfida e fanatizza, volente o nolente, le masse. Che, come un tempo si diceva dei militari,  sarà poi difficile, far rientrare nelle caserme, oggi nelle abitazioni. Ciò significa che al prossimo giro, a posizioni invertite, saranno sempre le piazze fanatizzate a comandare, o a illudersi di comandare, e i giudici, piaccia o meno, a schierarsi.

Le classi politiche – tutte – dovrebbero moderare i toni e tenere sotto controllo gli istinti carnivori, i propri come quelli delle masse. Finché possibile mai tirare troppo la corda, mai fomentare le masse puntando su un idealismo di seconda mano. Ecco la regola politica numero uno: tenersi alla larga dal fanatismo.

Si tratta di evitare lo scontro frontale. In altre parole, di rinunciare saggiamente a quei conflitti capaci di radicalizzare le divisioni sociali. Scontri, inutili e pericolosi, che spingono inevitabilmente i giudici a schierarsi. Come pure i politici a usarli come truppe d’assalto in una sporca guerra che alcuni amano definire “culturale”.

Ma che in realtà è una guerra al liberalismo. Perché rischia di condurre, come sta accadendo, alla distruzione di istituzioni come parlamento e magistratura che hanno fatto grande l’Occidente.

Carlo Gambescia

lunedì 27 marzo 2023

La guerra metapolitica alle Ong alla luce della legge della domanda e dell’offerta

 


C’è una cosa che si chiama realismo economico, il parente prossimo del realismo politico.

Un passo indietro. Innanzitutto che cos’è il realismo politico? È il prendere atto che esistono regolarità politiche, o per meglio dire metapolitiche, nel senso che partono dalla politica per andare oltre la politica recependo le regole in base alla quale funziona la politica. Pensiamo a comportamenti politici che si ripetono nel tempo, per l’appunto con regolarità. Si può parlare anche di costanti: ad esempio non è data attività politica senza distinzione e  conflitto amico-amico.

Al tempo stesso non è data attività economica (o metaeconomica, nel senso del “meta” di cui sopra) senza legge ( o regolarità) della domanda e dell’offerta.

In termini concreti cosa significa tutto questo a proposito dei salvataggi dei barconi dei migranti da parte delle navi Ong?

Una cosa semplicissima: che  nell’ambito del mercato dei salvataggi navali, le Ong, attore economico privato, riescono a soddisfare in termini di offerta una domanda crescente del “bene-salvataggio”, che le navi della marina militare, attore economico pubblico, non soddisfano.

Pertanto, impedire con i sequestri che le navi Ong soddisfino sul piano dell’offerta una domanda crescente, senza sostituirsi ad essa, significa, inevitabilmente, come ogni volta che la domanda di un bene supera l’offerta, far diventare il “bene-salvataggio” raro, facendo così crescere il prezzo in termini di vite umane perdute.

Si tratta di una regolarità economica di cui ogni politico deve saggiamente tenere conto in nome del realismo economico, parente, prossimo, come dicevamo, del realismo politico. Soprattutto in un grave frangente, come quello dei salvataggi.

Invece cosa accade? Qui entra in gioco un’altra regolarità metapolitica che ci aiuta a capire il vicolo cieco in cui è finito il governo. L’attore pubblico, la Marina Militare, dietro comando dell’attore politico, il governo Meloni, applicando la distinzione amico-nemico, tratta le Ong come un nemico, combattendole strenuamente.

In questo modo però non solo non si soddisfa la domanda del “bene-salvataggio”, ma si colpisce l’attore privato, le navi Ong. Un attore che invece può colmare ciò che viene definito un importante segmento di mercato.

Ovviamente – non sia mai – il governo Meloni non parla ufficialmente di nemico, ma evoca ipocritamente leggi, regolamenti, eccetera, ignorando il realismo politico, che invece imporrebbe in nome del realismo economico, il rispetto dell’unica legge, che in queste circostanze va osservata, quella della domanda e dell’offerta del “bene-salvataggio”.

Con le gravi conseguenze che sono sotto gli occhi di tutti. Perché non si parla di elettrodomestici ma di vite umane.

Carlo Gambescia

domenica 26 marzo 2023

Il suicidio dell’Occidente

 


Uno storico del XXIV secolo con che occhi guarderà al mondo di oggi? Molti dipenderà dal tipo di istituzioni politiche e valori che saranno preminenti fra tre secoli.

Però, comunque sia, se storico autentico,  non potrà  ignorare quel che sta accadendo. L’Occidente ha abbandonato quei principi liberali del XIX secolo che lo hanno fatto grande. Siamo davanti a una specie di suicidio collettivo.

La crisi si è aperta con la Prima guerra mondiale che ha dato il via a un interventismo statale, sconosciuto nel secolo precedente. Il ruolo dello stato si è incredibilmente ampliato dopo il Secondo conflitto mondiale, per crescere, in modo quasi inarrestabile in quella che è stata, di fatto, la Terza guerra mondiale: la “Guerra fredda” con l’Unione Sovietica, conclusasi con la dissoluzione di quest’ultima nel 1991.

Le guerre da che cosa sono caratterizzate? Dalla conservazione del consenso interno, per resistere e vincere il nemico.

Il che però ha un costo in termini di libertà. Le due guerre “calde” hanno militarizzato l’economia, la guerra fredda ha welfarizzato la società. Il tutto, ripetiamo, per conservare il consenso dei cittadini. Un processo che ha devastato l’economia libera, estesosi non solo all’Europa ma all’intero Occidente.

Purtroppo tra gli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso è andato perduto sul piano politico il treno di un recupero delle idee liberali: una grande occasione storica. Se il ciclo politico di un esasperato interventismo statale sarà confermato, Ronald Reagan e Margaret Thatcher, unitamente ad altri leader minori, saranno giudicati in futuro, dai pochi storici dissidenti all’interno di una società che si preannuncia orwelliana, come gli ultimi difensori della libertà.

Dopo la caduta dell’Unione Sovietica si sono aperti altri cinque fronti: quello della nuova “guerra santa”, quello delle grandi migrazioni, quello ecologico, quello epidemico, quello della aggressiva rinascita bellicista russa e come sembra cinese. Si potrebbe parlare, nell’insieme, di una specie di Quarta guerra mondiale, “caldo-fredda” , che rischia di potenziare il ruolo dello stato, in una misura senza precedenti, e sempre per ragioni di consenso.

Ci spieghiamo meglio.

Delle cinque componenti conflittuali  della “Quarta guerra mondiale, due sono reali, come la nuova guerra santa e l’aggressiva rinascita bellicista russa e cinese, le altre invece meno. Cioè sono fenomeni reali ma percepiti in chiave catastrofista: pensiamo alle componenti migratoria, ecologica, epidemica, pardon pandemica.

Il punto sociologico è che ogni istanza sociale una volta recepita nell’agenda politica, reale o irreale che sia, si tramuta in reale, nei termini di decisioni politiche effettive che provocano conseguenze reali.

Ciò significa che la “Quarta guerra mondiale”, nel quadro di un spiccato interventismo statale condiviso da tutte le forze politiche per ragioni di consenso, inevitabilmente si tradurrà, come dicevamo, in ulteriori “tagli” alle nostre libertà.

Oggi in cambio della libertà si promette ai cittadini una sicurezza, funzionale alla conservazione del consenso, come si proclama, per vincere la “guerra”: o contro il “terrorismo” islamico-sovietico e (prossimo venturo) cinese, come pure contro le “migrazioni selvagge” (destra); o contro le grandi epidemie, pardon “pandemie” e la “crisi climatica” (sinistra).

Talvolta le posizioni di destra e sinistra convergono, come sulla “transizione ecologica”, talaltra divergono, in modo ancora più accentuato, come sui migranti, ma la propensione verso l’ inaudita crescita dei poteri dello stato resta la stessa.

Qui però – il lettore faccia attenzione – le cose si complicano, perché lo statalismo implica inevitabilmente il fiscalismo. Che, a sua volta, provoca: o una politica del denaro facile (sinistra), che però favorisce inflazione, speculazione e persecuzione fiscale, o una politica di tagli che riduce l’inflazione, la speculazione, la persecuzione ma non la pressione fiscale (destra).

Nel primo caso, l’inflazione si mangia tutto (risparmi, consumi, investimenti), nel secondo la recessione paralizza tutto (risparmi, consumi, investimenti). E non può escludersi neppure un terzo caso: che un mix delle due politiche (destra e sinistra insieme) produca stagflazione.

Siamo davanti al paradosso delle società welfariste, che di liberale non hanno più nulla: società che segano il ramo della crescita economica sul quale sono sedute. Perché inflazione e stagnazione causano la distruzione delle classi medie, provocano sommovimenti sociali che novantanove  volte su cento  rischiano di  sfociare nelle dittature: nelle famigerate risposte semplici a problemi complessi. 

Detto altrimenti, nel suicidio dell’Occidente.

E di questo, probabilmente, scriveranno gli storici del XXIV secolo. Ovviamente, gli storici dissidenti,  quelli veri.

Carlo Gambescia

sabato 25 marzo 2023

Trecentotrentacinque

 


Giorgia Meloni “nun gna ‘a fa”. Sappiamo che il nostro incipit non è in sintonia con la serietà dell’argomento che stiamo per affrontare, ma riteniamo che l’icasticità romanesca dell’espressione, reinventata da Gianfranco Funari, colga bene la pena, ma anche la rabbia per dire, che si prova nel vedere annaspare Giorgia Meloni. Vittima di se stessa. Della paccottiglia ideologica dalla quale non si è mai separata.

Non c’è nulla fare: definire semplicemente italiani, i martiri dell’eccidio nazista delle Fosse Ardeatine, passando sotto silenzio, la natura politica di quelle tremende esecuzioni di massa, avvenute con il beneplacito dei fascisti (la Rsi, non può essere ritenuta sovrana a singhiozzo, solo quando fa comodo: o era una repubblica fantoccio o non lo era…), significa rimuovere la natura antifascista della Guerra di Liberazione. Muovendosi così in perfetta linea con la vulgata neofascista, incarnata nel dopoguerra dalle patetiche nostalgie del Movimento Sociale per la “rivoluzione fascista che non fu”.

Attenzione però: che l’antifascismo sia stato strumentalizzato dal partito comunista italiano, per indebolire il fronte democratico e conquistare il potere, anche con la forza, resta un fatto. Come pure rimane  un fatto l'assoluta incapacità del   neofascismo  di fare  i conti con se stesso.

Probabilmente, come per il famoso cane di Pavlov, Giorgia Meloni, appena si accende la “lampadina” “Fosse Ardeatine”, rimuove, come per riflesso condizionato. E’ più forte di lei. Parliamo di un ambiente, quello da cui proviene, in cui tuttora si difende la tesi che la Seconda guerra mondiale fu “Una guerra del Sangue contro l’Oro”, degli “Eroi contro i Plutocrati”, eccetera, eccetera. Per scoprirlo basta fare un giro in rete.

Siamo davanti a un fatto innegabile: la rimozione dell’antifascismo, il disprezzo verso l’economia libera, il rabbioso senso dell’identità nazionale sono atteggiamenti e comportamenti che appartengono in chiave addirittura riflessologica al mondo politico da cui proviene Giorgia Meloni.

Di solito per scusarla si sottolinea che all’epoca dello sdoganamento berlusconiano del Movimento Sociale era giovanissima e che quindi non aveva potuto ancora attingere alle fonti delle cultura missina.

Ora, ammesso e non concesso che le cose siano andate così, certe sue “uscite”, come quella di ieri, confermano che danno biologico-politico vi è comunque stato. Figurarsi allora, se avesse attinto a piene mani dall’armamentario ideologico neofascista.

Certo, la sinistra vuole far cadere il governo – il che non sarebbe proprio un male – quindi passa al setaccio ogni dichiarazione meloniana. Come direbbe sempre Funari “ ce marcia”.

Insomma, abusa della pazienza altrui. Però, questa volta, ha ragione. L’accusa di antifascismo, o peggio ancora il semplice sospetto, costrinse i poveri prescelti prima a finire in carcere, poi alle Fosse Ardeatine.

Certe cose si devono dire. Gli italiani nel 1944 erano quasi 45 milioni, alle Fosse Ardeatine morirono trucidati in 335 (*).

Carlo Gambescia

(*) Più alcuni sacelli di ignoti (8, due con il solo nome). Si veda qui: https://www.mausoleofosseardeatine.it/vittime/ .

 

venerdì 24 marzo 2023

Migranti, una ricetta sociologica

 

 Migranti. La prendiamo da lontano. Il lettore abbia pazienza.

La sociologia autentica, non la sociologia contraffatta, per capirsi quella che si è trasformata in braccio ideologico dei servizi sociali… La sociologia autentica, dicevamo, asserisce che sulle basi dell’evidenza scientifica ogni scelta politico-sociale non è mai esente da costi e ricavi morali ed economici.

L’azione politica, come perseguimento di un obiettivo collettivo implica sempre, anche nell’ambito della più accurata mediazione politica, una redistribuzione di costi e ricavi economici, redistribuzione che porta con sé una redistribuzione dei costi e ricavi morali.

Detto in altri termini: un governo, non può accontentare tutti i cittadini e soprattutto tutti i cittadini nello stesso momento. La perfezione non è di questo mondo. Qualunque decisione sia presa, esisteranno sempre dei “margini di scontentezza”, le cui dimensioni dipendono dalle dimensioni della lealtà e della fiducia dei cittadini verso il governo, lealtà e fiducia, che a loro volta, dipendono dalla gravità scalare delle divisioni ideologiche

Quanto detto può sembrare perfino banale. Però ci aiuta a capire un aspetto sociologico fondamentale di ogni politica governativa: che quanto più un “governo governa”, tanto più i margini di scontentezza politica fluttuano verso l’alto o verso il basso, ma purtroppo fluttuano. Il che inevitabilmente influisce sui tassi di incertezza sociale, nel senso che le fluttuazioni producono nell'individuo  esitazioni e titubanza. Un disorientamento decisionale  che  non facilita il funzionamento di quei preziosi meccanismi dello scambio sociale ed economico che nascono dalle interazioni individuali.

L’aspetto paradossale che non è colto dalla “sociologia braccio ideologico dei servizi sociali”, è che più un “governo governa” più le dinamiche economiche e sociali diventano incontrollabili, perché crescono i margini di incertezza, le divisioni ideologiche, eccetera, eccetera. Insomma, si ottiene l’effetto contrario.

Si prenda un fenomeno sotto gli occhi tutti come quello migratorio. Più si tenta di governarlo, più diventa ingovernabile, Dal momento che ogni decisione politica, di aprire come chiudere al migrante, divide, e ogni divisione rende ancora più complicate le successive decisioni che devono fare i conti con le decisioni precedenti, dando così vita a un quadro contraddittorio dettato da una selva di misure contrastanti e di casistiche sempre più minuziose e ingovernabili, quindi incontrollabili, sotto il profilo organizzativo e ideologico.

Che fare allora? Governare il meno possibile. Meno stato, se si vuole.

Proprio ciò che non accade, perché l’ideologia dominante e la credulità della gente comune tendono ad attribuire al governo poteri quasi magici. Sicché, per tornare alla questione dei migranti, più ci si illude di poter controllare un fenomeno, tra l’altro di per sé fluttuante come insegna l’instabilità previsionale  dei tassi demografici, più si favorisce la  reale  fluttuazione dei “margini di scontentezza”, come provano le politiche migratorie degli ultimi trent’anni.

Oggi l’Italia è più divisa e titubante che mai, non tanto perché in ambito migratorio non si è deciso e regolamentato,  ma perché si è deciso e regolamentato troppo, sia in termini di aperture che di chiusure, scontentando così, di volta in volta, tutti i cittadini.

Inoltre l’errore più grave che si è commesso resta quello di non avere spiegato al cittadino l'abc di una realistica  sociologia delle istituzioni pubbliche.  E in cosa consiste?   In una semplicissima verità:  che lo stato non è la soluzione ma il problema. I processi sociali, a cominciare da quelli migratori, non possono non avere un costo, per tutti: per i migranti come per i cittadini.

Non esistono soluzione perfette, ma possibili. Perciò si tratta di pazientare, sopportare conflitti e distonie, senza allarmismi di qualsiasi tipo (buonisti o cattivisti),  nell’attesa che non lo stato occhiuto  ma  il “setaccio sociale”,  nel bene come nel male, faccia il suo dovere, trasformando i costi in ricavi, cioè includendo i migranti  più capaci ed escludendo i meno capaci. In altri termini, quel che  non si deve fare è confondere i capaci con i meno capaci, come proclama la sinistra in nome del welfarismo, oppure impedire ai capaci di mettersi alla prova, come pretende la destra in nome del razzismo.

Ripetiamo, lo stato non è la soluzione ma il problema. Si dirà, ma allora qual è la ricetta sociologica corretta?

Si permetta al migrante di venire in Italia e in Europa, liberamente, attraverso le vie ordinarie, senza dover rischiare ogni volta la morte in mare, lasciando poi che siano i meccanismi di selezione sociale a decidere dell’integrazione o meno e non il buonismo o il cattivismo di stato.

Carlo Gambescia

 

giovedì 23 marzo 2023

Mimì Meloni e Gegè Bonelli

 


Nonostante il titolo possa apparire scherzoso (poi però il lettore capirà nella chiusa), l’asserzione che stiamo per fare è seria, politologicamente seria.

Nell’ analisi delle tendenze politiche non bisogna mai perdere di vista le questioni essenziali. Che a volte si scoprono soffermandosi sui dettagli.

Si prenda, ad esempio, lo scontro alla Camera di ieri, tra Giorgia Meloni e Angelo Bonelli. Oggi la destra giornalistica scrive, usando un’ evocativa terminologia da stadio, di come la Meloni abbia “asfaltato” Bonelli. E quella di sinistra recrimina sulla sua “mancanza di stile”, con altrettante veemenza.

In realtà, sull’Adige in secca, la leader di Fratelli d’Italia la pensa come il parlamentare dei Verdi.

Nel senso che prima collega un fenomeno stagionale, per quanto serio, alla mitologia catastrofista di natura epocale (“Sì, è vero, è un problema”), per poi catapultarlo, con la battuta sul “non sono Mosé”, sulle sinistre che hanno governato in precedenza (“Tutto quello che non è stato fatto prima”).

Pura retorica, anche di bassa lega: non si deride mai  un deputato, anche quando cade nel patetico,  sollevando un sasso, come dice, raccolto nell’Adige… Ma questa, della derisione, è un’altra storia. Che affonda le radici nell’antiparlamentarismo della destra neofascista verso un’istituzione liberale, da sempre accettata obtorto collo.

Pura retorica dicevamo, che serve a oscurare il fatto che sulla famigerata idea di “transizione ecologica”, Bonelli e Meloni sono d’accordo: perché condividono, ripetiamo, la stessa irrazionale e illiberale mitologia catastrofista, così cara agli ecologisti di destra e sinistra.

Perciò quando la destra giornalistica, parla di Meloni che “asfalta, eccetera, eccetera”, si ferma sul dettaglio. Perché non aiuta le gente a capire che il nodo essenziale del problema, caro a ogni vero liberale, è che “questa” destra e “questa” sinistra, comunque vada, nei prossimi anni ridurranno i nostri spazi di libertà. Come? Puntando su similari politiche stataliste, figlie legittime di una comune visione del nostro futuro da film apocalittico.

Non solo. La cosa ancora più grave è che si proseguirà nella non costruzione di dighe, bacini idrici, canalizzazioni. E per quale motivo? Per risparmiare fondi da investire in improbabili “Piani Mattei”, per difendere la “Nazione” dai migranti (la destra), oppure per evitare che si deturpi il paesaggio e si perda il treno per la decrescita più  o meno  felice  (la sinistra).

In realtà, la carenza idrica, oltre alle ragioni congiunturali, rimanda a una questione strutturale, realmente strutturale: quella della mancata privatizzazione che avrebbe invece favorito gli investimenti privati in un settore a corto di capitali.

Si dovrebbe riflettere su un dato semplicissimo. Che ormai siamo al punto, che basta un nulla per innescare una crisi, che non è dovuta all’Armageddon ecologica prossima ventura, ma a uno statalismo che si è avvitato su stesso: non fa e non vuole che facciano i privati.

Detto altrimenti: la pretesa, comune alla destra e alla sinistra, di mantenere il predominio della mano pubblica nel settore, si tramuta in immobilismo e in siparietti parlamentari come quello di ieri tra Giorgia Meloni e Angelo Bonelli.

Usiamo questo termine per  una precisa ragione. Nei vecchi varietà, tra un numero e l’altro, per consentire i cambiamenti di scena, si intratteneva il  pubblico, spesso rumoreggiante, con brevi numeri comici, dei “siparietti”, perché si tenevano sul palcoscenico, davanti a un sipario più piccolo e leggero.

Ecco, ieri, e lo diciamo a malincuore  per il rispetto che nutriamo verso le istituzioni parlamentari, si sono esibiti a grande richiesta, tra un numero e l’altro della crisi politica italiana, Mimì Meloni e Gegé Bonelli...

A questo siamo ridotti. Che tristezza. 

Carlo Gambescia

mercoledì 22 marzo 2023

Cina, Russia e l’inevitabile pesantezza dell’essere...

 


L’idea che Mosca stia perdendo la guerra e che per questo motivo si stringa alla Cina non ci convince.

Che i risultati russi siano inferiori alle aspettative iniziali (satellizzare l’Ucraina) è vero, ma non è altrettanto vero che la visita di Xi Jinping a Mosca sia una specie di ciambella di salvataggio lanciata dalla Cina a una Russia che annaspa, quindi bisognosa di aiuto.

Crediamo che tale tesi sia una specie di “film” girato e rappresentato ad uso e consumo delle democrazie welfariste occidentali, che dimentiche della gloriosa vittoria militare sul nazifascismo, ritengono, illudendosi, di vincere le guerre con le sanzioni comunicative, economiche e per procura militare. Un film che sembra piacere agli europei. Sicché il bilancio del consenso, dopo un anno di guerra, sembra chiudersi con un saldo positivo. Al cinema dei sondaggi d’opinione però (*).

Invece la realtà, non il film, sembra essere completamente diversa: parliamo di due grandi potenze autocratiche, antiliberali, dalle estese basi economico-territoriali , tra l’altro confinanti, un vero blocco eurasiatico, due giganteschi stati, largamente dotati di armi convenzionali e non convenzionali, portati da tempo, quasi inevitabilmente, a convergere per similarità di valori e interessi, cioè a prescindere dall’invasione russa dell’ Ucraina.

Se vi sarà guerra tra Russia e Cina, vi sarà dopo aver regolato, e in maniera vincente, i conti con l’Occidente. E probabilmente per spartirsi le spoglie dei perdenti. Non sarebbe la prima volta nella storia. Le vicende successive alla Prima guerra mondiale, sotto tale profilo, sono esemplari.

Pertanto l’Occidente euro-americano invece di baloccarsi con le “guerre per procura” dovrebbe ragionare intorno a due opzioni che sono conseguenti: 1) come dividere la Cina dalla Russia, ovviamente in modo provvisorio, perché la forza di gravità interessi-valori porta le due potenze a unirsi: diciamo per comune pesantezza del loro essere; 2) come prepararsi adeguatamente a un conflitto armato con la Russia, una volta separata dalla Cina.

Probabilmente, visto che con la Cina l’Occidente non ha valori in comune, si potrebbe giocare sugli interessi, cedendo, per gradi, su Taiwan, con ovvie garanzie per i suoi cittadini, e gestendo bene le trattative, inserendovi dei bonus economici, ai quali cinesi sono storicamente molto sensibili.

In cambio, l’Occidente (in primis gli Stati Uniti), dovrebbe chiedere mani libere in Europa orientale e, se necessario, nel "deserto dei tartari" russo.

L’alternativa a queste due opzioni crediamo sia rappresentata soltanto dalla guerra contro la Cina e la Russia alleate insieme. Quindi con inferiori possibilità di vittoria. Altra ragione, però, per armarsi fino a denti e prepararsi moralmente a combattere fino all’ultimo sangue.

Quando parliamo di guerra ci riferiamo a una guerra convenzionale con eventuale uso di armi atomiche tattiche. Una guerra atomica, proprio perché impolitica (né vincitori né vinti), non sembra un’ipotesi realistica. Ovviamente non si può escludere, l’uso dell’arma atomica come extrema ratio, secondo una logica da ultimo bunker hitleriano.

Il vero problema, per tornare al “film” sull’efficacia delle sanzioni economiche e morali, che tanto piace in Occidente, è costituito dall’incapacità, almeno al momento, delle classi politiche, e probabilmente anche dirigenti, di pensare la guerra (**).

A molti lettori, le nostre osservazioni faranno pensare allo strampalato linguaggio del dottor Stranamore di Kubrick: parole di un eccentrico, di un “matto”, quasi roba da riderci sopra. Gambescia straparla…

Purtroppo questo atteggiamento derisorio, che non riguarda solo i semplici lettori, non è altro che la riprova di una diffusa incapacità di “pensare la guerra”. Incapacità che permea una società che scende in piazza inferocita per non andare in pensione due anni dopo e nella quale una riforma previdenziale si tramuta in epico progetto napoleonico.

Il lettore faccia attenzione: pensare la guerra, non significa sposare la causa del rabbioso e insensato militarismo degli autocrati, ma capire che la libertà va difesa anche con la spada. E di conseguenza significa capire che ci si deve sempre mettere nelle condizioni di poterla sguainare al momento opportuno. Pensare che la spada sia diventata inutile è il principale sintomo, il più grave, di quell’ incapacità di pensare la guerra che porta i popoli, soprattutto quelli liberi, alla rovina.

Per dirla brutalmente: ad essere conquistati da altri popoli che non soltanto sanno pensare la guerra, ma che pensano solo alla guerra.

Carlo Gambescia

(*) Si veda l’ultimo Eurobarometro (febbraio 2023):https://italy.representation.ec.europa.eu/notizie-ed-eventi/notizie/eurobarometro-cittadini-dellue-ancora-fortemente-favorevoli-allucraina-e-al-perseguimento-della-2023-02-23_it . “ I cittadini europei continuano inoltre a essere largamente favorevoli al divieto di trasmissione dei media statali russi (67 %) e al finanziamento da parte dell’UE dell’acquisto e della fornitura di attrezzature militari destinate all’Ucraina (65 %)”. Però, a quanto sembra, non si è posta la domanda – quando si dice il caso – su un punto fondamentale: quello dell’ impegno militare diretto della Nato nel conflitto. Sul campo, con le truppe per capirsi.

(**) Qui: https://cargambesciametapolitics.altervista.org/loccidente-e-lincapacita-di-pensare-la-guerra/ ; https://cargambesciametapolitics.altervista.org/la-russia-e-capace-di-pensare-la-guerra-loccidente-no/ .