Negli ambienti intellettuali (parola grossa) fasciocomunisti (per semplificare) circola una versione dell’invasione russa dell’Ucraina concretatasi addirittura in saggi, pamphlet, o come si dice “instant book”.
Si tratta della tesi dell’accerchiamento, che riflette la vulgata di Mosca. Il che in sé non è preoccupante, perché rinvia alla rubrica del collaborazionismo ideologico, prezzolato o meno, il cui valore scientifico è pari a zero.
Tuttavia, non si dimentichi mai che un intellettuale, se tale, quindi libero, non può stare dalla parte, come nel caso della Russia, di un stato autoritario, se non addirittura autocratico, che reprime la libertà di pensiero.
Certo, sono comunque scelte personali, però intorbidite dalla sindrome Drieu la Rochelle: in sintesi, da un odio verso la società liberale, che portò ad apprezzare, pur di combatterla, da parte di un collaborazionista fascista, addirittura il comunismo sovietico monopolizzato da Stalin (*).
Il vero problema dell’approccio fasciocomunista – e ovviamente russo – è quello di una visione bellicista contrabbandata come realista, che in realtà privilegia i cannoni al burro.
Di qui però il gran parlare di “scenari geopolitici”, di “alleanza tra Russia e Cina”, di “logica imperiale”, di "grandi spazi", come se fosse un gioco da tavolo o il calciomercato. Soprattutto tra i fasciocomunisti, qui in Italia, più esaltati, malati, spesso inguaribili, di romanticismo politico. Ne parlano però soprattutto tra di loro, perché ufficialmente, sfilano per la pace, facendo comunque il gioco dei russi. Che invece parlano meno perché fanno parlare le armi.
Si rifletta: ma è credibile, proprio sul piano della logica dei fatti concreti, la storia della Russia buona assediata dall’Occidente cattivo, che vuole depredarla e dividerla?
Sul piano economico, si tratta dell’ennesima riproposizione della teoria marxista e populista della dipendenza, applicata in passato ai paesi dell’America latina. Il cui mancato sviluppo, come hanno mostrato gli studi di Hirschman e di altri, è dovuto all’assenza di un ceto borghese moderno. Che invece dove in qualche misura presente, come in Argentina, Brasile, Cile e Uruguay, ha favorito, anche se in modo incompleto una modernizzazione liberale e una crescita del tenore di vita. Insomma, quanto più ci si chiude, tanto più, la borghesia indipendente (non quella di stato, dipendente, che è un sottoprodotto, del protezionismo nazional-socialista) muore addirittura in fasce.
Il problema della Russia non risale al 2014 o al 1991, date preferite dagli analisti (altra parola grossa) fasciocomunisti e russi per indicare l’inizio dell’ “invasione dell’Occidente”. Sono date che servono a giustificare la reazione militare russa (comunque rozza e spropositata).
In realtà il problema russo risale al 1917, quando l’assalto al potere del bolscevismo cancellò quell’inizio di trasformazione economica, se si vuole di modernizzazione, che tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento, era tumultuosamente esplosa in Russia.
Il 1917, purtroppo, indica l’anno di decesso del ceto borghese russo, allora ancora in fasce ma promettente. Certo, la produzione industriale, tra gli anni Venti e gli anni Trenta, sarebbe tornata ai livelli anteguerra, ma in che modo? Lo spiega molto bene Solženicyn in “Arcipelago Gulag”: penalizzando il consumo, puntando su un’economia di stato, sui lavori forzati di massa, e sull’industria pesante, in particolare armamenti. E ovviamente, sulla repressione di ogni libertà, liquidata come borghese.
Fu fatta allora la scelta di fondo: cannoni invece di burro. Tra Stalin e Putin non ci sono grandi differenze sul piano della cultura dei cannoni che inevitabilmente rinvia all’ideologia dell’accerchiamento e alla inevitabile distruzione di un ceto borghese, l’unico in realtà capace di modernizzare il paese.
Un inciso interessante: i cosiddette “oligarchi”, alcuni veramente corrotti, altri meno, altri ancora, pochi, sinceramente liberali, paradossalmente, sono le vere vittime delle sanzioni occidentali, che vanno a colpire, non l’economia dei cannoni, ma quel che si è faticosamente formato, con gravi ricadute nella borghesia di stato, dell’economia del burro.
Detto questo, resta il fatto che la sindrome dell’accerchiamento, che rinvia a un impasto di valori arcaici, addirittura zaristi, e militaristi – un mix di modernismo militare e cultura reazionaria, inaugurato da Stalin – detta tuttora la linea aggressiva della Russia.
Sotto questo punto di vista, per Mosca, qualsiasi mutamento in Europa orientale di costumi sociali e di pratiche economiche in senso liberale, viene visto come un tradimento, dietro il quale c’è l’Occidente cattivo, che vuole smembrare la Russia. Per farla breve, il solo immaginario occidentale, viene scorto e dipinto come una specie di covid culturale.
Si faccia attenzione su un punto: invece di accettare la sfida dell’Occidente, e per capirsi ( e semplificando), inventare un’ industria del lusso russa oppure di cercare o almeno provarci, ma seriamente, di “invadere” pacificamente l’Occidente con cantanti, automobili, computer, elettrodomestici, la Russia ha scelto la strada monoculturale dell’ economia esportatrice di un’unica materia prima, l’energia, di cui lo stato è gestore. Infatti, per ora le importazioni – e qui vale la teoria della dipendenza – sono da borghesia di stato “compradora”, poca roba insomma, e per quei i ricchi che condividono la politica aggressiva di Mosca.
Per quale ragione? Per continuare a investire i profitti nei cannoni e tenere sotto controllo la popolazione, come ai tempi dell’autocrazia zarista, che pure nell’ultima fase aveva intuito le ragioni dell’economia borghese, poi cancellata dai comunisti.
Su questo punto, in qualche misura, la Cina è addirittura più avanti della Russia: Pechino comprende l’importanza, seppure in un’ ottica di controlli statali, dell’impresa privata e della necessità, per crescere, della creativa opera di un ceto borghese produttivo.
La Russia scorge invece una minaccia in tutto ciò che può rappresentare una sfida creativa, certo non facile, faticosa (perché non si tratta di un semplice premere il grilletto): quella di aprirsi al mercati mondiali.
Minaccia, ma per chi? Non certo per la popolazione russa ( soprattutto le giovani generazioni) che vuole cambiare, ma per l’apparato militare e industriale, che per tenersi in piedi ha necessità di un capro espiatorio. Ora è il turno dell’Ucraina.
Ovviamente, l’intellettuale fasciocomunista vede nella Russia il nemico del proprio nemico, l’Occidente liberale. Quindi, come dicevamo, continua a soffrire della sindrome Drieu la Rochelle e, se ci si perdona il termine, a scrivere stronzate.
Carlo Gambescia
(*) Qui un nostro articolo al riguardo, in cui si spiega, eccetera: https://carlogambesciametapolitics2puntozero.blogspot.com/2009/01/gaza-e-la-sindrome-di-drieu-la-rochelle.html