martedì 31 ottobre 2017

 Il caso  Weinstein
Si fa presto a dire orco…



Harvey Weinstein, il produttore,  è stato dipinto come un orco.  Può darsi che lo sia.  Vogliamo però provare ad andare oltre? Tentando di  squarciare  la pesante coltre di isteria  che sembra  impedire qualsiasi approfondimento sociologico?    
Innanzi tutto va fatta un piccola premessa. A molti maschi non piace ammetterlo, ma il Novecento passerà alla storia come il  secolo del femminismo. L’ingresso delle donne in tutti i campi della vita sociale,  soprattutto nella seconda metà del secolo, inevitabilmente ha  portato una rivoluzione nei costumi. Per i conservatori, è segno di decadenza, per i progressisti di uguaglianza. I primi deprecano la femminilizzazione dell’uomo, i secondi inneggiano alla lotta dei sessi -  come prima  celebravano la lotta di classe -   e alla conquista di una totale  parità, formale e sostanziale. 
Le società però, pur risentendo dei processi innovativi, hanno ritmi più lenti legati alla  stratificazione socio-politica,  stratificazione che nonostante l’incombente rivoluzione  femminista, è tuttora a dominanza maschile, almeno  nei posti chiave. Per alcuni lettori, interessati al residuo di potere maschile,  ciò può essere una fortuna.  
In realtà, questa discrepanza -  per venire al finalmente al  punto  -  crea inevitabilmente  conflitti, come quello sulle molestie.  Il residuo potere maschile, in alcuni settori chiave, tra le varie forme di veto,  impone   prestazioni sessuali, come rimozione degli ostacoli  all’ingresso  in  un mercato ristretto, molto ambito, perché altamente remunerativo, come quello dello spettacolo.  Si esercita, insomma, un potere posizionale ( legato alla posizione nella scala del potere) dell'uomo sulle donna.   
La parità  può sciogliere questo nodo ? No.  O comunque non del tutto.  Facciamo però  un passo indietro.
L'intera questione  rinvia all’economica (sociologica) del potere.  Un fatto sociale che preesiste formalmente  a prescindere dai contenuti. Se ci fosse la parità sostanziale, il potere di veto,  lo eserciterebbero uomini e donne insieme, attenzione però:  sulla base della stratificazione sociale.  Se invece fossero la donne a predominare sarebbe usato esclusivamente  sugli  uomini, come ora succede al contrario. Quindi, guai ad aspettarsi troppo, sul piano etico-politico,  dalla parità.  La stratificazione del potere  non si può cambiare per legge. Il  grande Roberto Michels parlò, per l'appunto, di ferrea legge delle oligarchie. Che possono essere maschili, femminili e "miste". 
Ovviamente, in un clima di lotta dei sessi e di battaglia per i diritti, le molestie maschili diventano, sul piano retorico, un argomento fondamentale, soprattutto mediatico, contro il potere maschile.    
Se però  si getta lo sguardo oltre  il fumo etico-politico, si può facilmente scoprire  che  il nodo riguarda il possesso di risorse scarse, all’interno di un mercato ristretto. E il sesso è uno dei canali di accesso.  Tutto qui.
C’è una soluzione? No, perché  il potere si riproduce e si ridistribuisce in chiave cumulativa e ristretta: riguarda pochi eletti. Del resto se un potere  non è di pochi, che potere è?  Il diritto di veto, per così dire, appartiene naturalmente a  chiunque sia al comando.  Ovviamente, può riguardare, anche altre sfere sociali, non solo  la sessuale.   
Perciò, una  volta al potere - uomini o donne che siano -  inevitabilmente, si mettono e si pongono ostacoli "all'ingresso":  il potere è un dio geloso.  Il che significa, come accennato, che, dopo le  tante chiacchiere di questi giorni, un giorno, anche abbastanza prossimo,  potrebbero essere le donne produttrici  a molestare gli uomini attori.  
È la sociologia bellezza…    

Carlo Gambescia          

lunedì 30 ottobre 2017

Arma dei Carabinieri (*)
Nucleo di Polizia Giudiziaria di [omissis]
VERBALE DI INTERCETTAZIONE DI CONVERSAZIONI O COMUNICAZIONI
(ex artt. 266,267 e 268 C.P.P.)
L'anno 2017, lunedì 30 ottobre, in [omissis] presso la sala ascolto sita al 6o piano
della locale Procura della Repubblica, viene redatto il presente atto.
VERBALIZZANTE
M.O Osvaldo Spengler
FATTO

Nel corso dell'attività tecnica di monitoraggio svolta nell'ambito della procedura riservata n. 642/2, autorizzazione COPASIR 3636/3b [Operazione NATO “SCAMBIAMOCI UN SEGNO DI PACE” N.d.V.] è stata intercettata, in data 29/10/2017, ore 11.23, una conversazione telefonica tra l’utenza di Stato vaticana in uso a  S.S. SANCHO I, e l’utenza n. 338***, in uso a MARCHINI WANNA. Si riporta di seguito la trascrizione integrale della conversazione summenzionata:
[omissis]

MARCHINI WANNA: “Sancho? Ciccio? Ti disturbo?”
S.S. SANCHO I: “Eh? Ah, sei tu, Wanna. Come stai?”
MARCHINI WANNA: “Sono commossa, Ciccio, guarda…mi hai toccato il cuore…[piange]
S.S. SANCHO I: “Piangi?! Ma cosa c’è, Wanna, cos’è successo?”
MARCHINI WANNA [tra i singhiozzi]: “Il tuo discorso, Ciccio…’La precarietà uccide!...’ L’ho imparato a memoria, senti qua: ‘la precarietà totale uccide! Uccide la dignità, uccide la salute, uccide la famiglia, uccide la società…Lavoro in nero e lavoro precario uccidono!’ [smette di piangere di colpo] Parole sante, Ciccio, parole coraggiose, però che palle che ciài, oh! Che uomo, che macho che sei!”
S.S. SANCHO I: “I giovani, Wanna, pensa ai giovani senza un lavoro vero, senza una casa, senza una famiglia, senza un futuro…”
MARCHINI WANNA: “Be’ perché invece noi vecchi? Noi io, per esempio? Secondo te come sto messa io? La casa, pignorata. La famiglia, lasciamo perdere. Il lavoro, non me ne parlare perlamadonna che vado fuori di testa. E la pensione? Ciò la pensione io secondo te?”
S.S. SANCHO I: “Certo, anche le persone non più giovani, espulse dal mondo del lavo…”
MARCHINI WANNA: “…cazzo magari espulse dal mondo del lavoro! Magari! Però con la pensione, non dico mica tanto: un tremilacinque al mese, to’…guarda, mi accontento anche di un tremila…duemilacinquecento è il minimo proprio, meno non ce la faccio, che ciò mia figlia, poverina, sempre malata, e il maestro do Nascimiento, e l’Abate di Montecoso…mi mangiano addosso, Ciccio, tutti parassiti, mendicanti, zecche…”
S.S. SANCHO I: “No, Wanna, no, questo non è l’atteggiamento giusto, è…”
MARCHINI WANNA: “…è la precarietà, Ciccio! La precarietà! Tutta la vita che sono precaria, lavora lavora lavora, mai un momento di pace, di serenità, mai che ho potuto dire, ‘Là, ci siamo, Wanna, puoi tirare i remi in barca…’ Anzi no: un momento c’è stato. Lo sai quale?”
S.S. SANCHO I: “No, quale?”
MARCHINI WANNA: “In galera, Ciccio. Ci sei mai stato in galera?”
S.S. SANCHO I [pausa]: “Veramente no.”
MARCHINI WANNA: “Be’, guarda: lì sono stata bene. Oddio: la cucina faceva schifo, questo sì, e poi se ti vuoi fare non so, una riga di coca, può essere un problema, si rimedia ma non è facile. Ma il resto? Ci pensa sempre qualcun altro, Ciccio: a tutto. Non si sta mica male, sai, se ci pensa qualcun altro. Quando sei fuori, la mattina ti alzi e ti chiedi, ‘E adesso? Come li rimediamo i soldi, oggi?’ E ti arrabatti, ti arrangi, ce la fai, non ce la fai, cazzo che vita di merda! Precarietà, Ciccio. La precarietà uccide, come dici te. Ohè: ciò la pressione a centottanta!”
S.S. SANCHO I: “Le prendi le medici…?”
MARCHINI WANNA: “Altro che medicine, la pensione! La pensione, Ciccio, mi ci vuole la pensione! [pausa] Ti dico un segreto.”
S.S. SANCHO I [lunga pausa]: “Di’ pure, Wanna.”
MARCHINI WANNA [sottovoce, quasi inaudibile]: “Sono comunista.”
S.S. SANCHO I: “Eh?”
MARCHINI WANNA: “Sono comunista! Sono comunista anche io!”
S.S. SANCHO I [pausa]: “Come ‘anche io’?”
MARCHINI WANNA: “Fai lo gnorri? Sei comunista anche te, Ciccio, dai che si è visto, l’hanno capito tutti.”
S.S. SANCHO: “Ma no, no, no, cosa dici…la Dottrina sociale della Chiesa, il mio discorso si rifà…”
MARCHINI WANNA: “…seeeè vabbè, ho capito, non ti fidi, ciài ragione che fidarsi è bene…ma con me stai tranquillo, Ciccio.”
S.S. SANCHO: “Wanna: io non sono comunista. Il comunismo è un regime dispotico, oppressivo, che ti toglie la libertà, come potrei…”
MARCHINI WANNA: “…e allora? Ti toglie la libertà, capirai…e cosa te ne fai della libertà, me lo spieghi?”
S.S. SANCHO: “Ma cosa dici, Wanna! Così bestemmi! Gesù vuole che siamo liberi, non lo sai? ‘La Verità vi renderà liberi’, dice il Signore Gesù…”
MARCHINI WANNA [pausa]: “Sarà, lì te ne intendi più di me. Però…”
S.S. SANCHO: “Però?”
MARCHINI WANNA: “Però, per esempio: io cosa ci ho fatto con tutta ‘sta libertà? Eh? Ci ho fatto dei casini che neanche te li immagini, Ciccio, casini a non finire. La famiglia, il lavoro…lavoro, si fa per dire…e gli uomini, uuu…buoni quelli, te li raccomando…e il bere? la mezza bottiglia di grappa tutte le sere? Le canne, la coca? I debiti? Cosa mi resta, Ciccio? Cosa mi resta alla mia età? Mia figlia che non mi parla? L’Abate di Montecoso che pensa solo ai cazzi suoi, e dico alla lettera? Il maestro do Nascimiento che lo mantengo da una vita e manco mi fa più vedere il pitone? Ciccio: io con la libertà mi sono rovinata la vita.”
S.S. SANCHO: “Wanna…Wanna, vedi, tutti abbiamo le nostre debolezze, le nostre fragilità…ma Gesù sa capirle, sa perdonarle, può…”
MARCHINI WANNA: “…infatti! Infatti, siamo tutti così, Ciccio! Come dice Gesù! Con la libertà ci roviniamo la vita!”
S.S. SANCHO: “Ma no, cos’hai capito, Gesù non…”
MARCHINI WANNA: “…tutti, tutti! Facciamo i furbi con questa libertà, finché siamo giovani, ma poi? Ue’, quando ti vengono le vene varicose, e ti scendono le tette a pianoterra, e non ciài più voglia di ammazzarti di fatica e poi per cosa? Eh? Per cosa? Per niente, Ciccio. Niente, zero, un beneamato. [pausa] Se invece c’era un bel comunismo che ti diceva, ‘Adesso basta, Wanna: basta cazzate, stop, punto a capo. Cosa sai fare? Sai fare la piadina? Bene. Allora, via a fare la piadina nella fabbrica statale di piadine, zitta e mosca. Ti piace il Maestro do Nascimiento? No, cara. Il maestro do Nascimiento per te non va bene, perché con la scusa del pitone attacca il sombrero e lo mantieni per tutta la vita. Te ti sposi il compagno Ivan che fa il prosciutto per la piadina, è bona lè, avanti marsch, se gli metti le corna hop! Siberia!’ Io mi facevo i miei quarant’anni di piadine, facevo la calza al mio Ivan, e tàc! Puntuale come un orologio, a sessant’anni il comunismo mi diceva: ‘Brava Wanna! Sei stata una comunista esemplare! Adesso è giunta l’ora del meritato riposo. Te ne vai in pensione a Marina Romea, con la benedizione del Partitone.’ [pausa] Che poi  ci potevano anche mettere la Messa, eh? E’ lì che ha sbagliato il comunismo. La domenica, Messa obbligatoria, col discorso del prete, il vangelo, le candele, tutto. [pausa] Cazzo che bello però…”
S.S. SANCHO [pausa]: “Senti, Wanna…ti capisco, sai? Ma tu dovresti guardare un po’…insomma, non c’è solo il tuo caso personale, capisci?”
MARCHINI WANNA: “Infatti siamo in tanti, secondo me la maggioranza, l’ottanta per cento minimo, guarda…perché qua la gente non cià una lira, ti rendi conto? E’ quello il problema: non avere una lira, altro che libertà, libertà…Pensaci tu, Ciccio, pensaci tu che sei l’unico, l’unico che ci capisce a noi poveracci…Dillo te! ‘Basta con questa vita di merda, fate come vi dico io e vi garantisco pane, lavoro e pensione!’ Guarda che spacchi, Ciccio, non c’è partita…chiese piene! Se non lo vuoi chiamare comunismo chiamalo come ti pare, non so, vediamo…cristianesimo? Eh? Cosa ne dici?”
S.S. SANCHO [pausa]: “Non ci siamo capiti, Wanna. Quando passi vieni a trovarmi che ne discutiamo meglio, eh?”
MARCHINI WANNA [pausa]: “Va bene.”
S.S. SANCHO: “Allora d’accordo. Ciao Wanna.”
MARCHINI WANNA: “Ciao Ciccio. [sottovoce, quasi inaudibile] Ciao compagno! Hasta la victoria siempre!”
S.S. SANCHO: “Eh?”

Letto, confermato e sottoscritto
L’UFFICIALE DI P.G.
M.Osvaldo Spengler

(*) "Trattasi" -   tanto per non cambiare stile,  quello  della  Benemerita...  -   di ricostruzioni che sono  frutto della mia  fantasia di  autore e commediografo.  Qualsiasi riferimento  a fatti o persone  reali  deve ritenersi puramente casuale. (Roberto Buffagni)

Chi è il  Maresciallo Osvaldo Spengler?  Nato a Guardiagrele (CH) il 29 maggio 1948 da famiglia di antiche origini sassoni (carbonai di Blankenburg am Harz emigrati nelle foreste abruzzesi per sfuggire agli orrori della Guerra dei Trent’anni), manifestò sin dall’infanzia intelletto vivace e carattere riservato, forse un po’ rigido, chiuso, pessimista. Il padre, impiegato postale, lo avviò agli studi ginnasiali, nella speranza che Osvaldo conseguisse, primo della sua famiglia, la laurea di dottore in legge. Ma pur frequentando con profitto il Liceo Classico di Chieti “Asinio Pollione”, al conseguimento della maturità con il voto di 60/60, Osvaldo si rifiutò recisamente di proseguire gli studi, e si arruolò invece, con delusione e sgomento della famiglia, nell’Arma dei Carabinieri. Unica ragione da lui addotta: “Non mi piace far chiacchiere .” (Com’è noto, il carabiniere è “uso a obbedir tacendo”). Mise a frutto le sue doti di acuto osservatore dell’uomo in alcune indagini rimaste celebri (una per tutte: l’arresto dell’inafferrabile Pino Lenticchi, “il Bel Mitraglia”). Coinvolto nelle indagini su “Tangentopoli”, perseguì con cocciutaggine una linea d’indagine personalissima ed eterodossa che lo mise in contrasto con i magistrati inquirenti. Invitato a chiedere il trasferimento ad altra mansione, sorprese i superiori proponendosi per la sala ascolto della Procura di ***. Richiesto del perché, rispose testualmente: “Almeno qui le chiacchiere le fanno gli altri.”
***

Roberto Buffagni è un autore teatrale. Il suo ultimo lavoro, attualmente in tournée, è Sorelle d’Italia – Avanspettacolo fondamentalista, musiche di Alessandro Nidi, regia di Cristina Pezzoli, con Veronica Pivetti e Isa Danieli. Come si vede anche dal titolo di questo spettacolo, ha un po’ la fissa del Risorgimento, dell’Italia… insomma, dell’oggettistica vintage...






domenica 29 ottobre 2017

Catalogna
Metodo liberal-democratico o uso della forza? 
Un'idea, il Commonwealth... 





La vicenda catalana, può anche essere letta come un esperimento, se si vuole una verifica delle virtù del metodo liberal-democratico.  Finora, miracolosamente,  si è evitato il  ricorso alla violenza: i due contendenti si sono combattuti a colpi di decreti e regolamenti.  
La Costituzione spagnola non impedisce (articolo 108 e 116) l’intervento della forze armate e la dichiarazione dello stato d’assedio per difendere la  sovranità nazionale.  Eppure Rajoy  finora si è guardato bene dall’usare la forza, preferendo la moderazione e il rispetto delle procedure.  Lo stesso Puigdemont, appena destituito,  ha invitato i catalani  a non rinunciare mai, pur resistendo  a un “comportamento civico e pacifico”.  Anche il comandante, dei Mossos de Esquadra, la polizia regionale catalana, dopo la destituzione, ha usato lo stesso linguaggio moderato. Ovviamente, come impone la dialettica del politico, soprattutto nello schieramento indipendentista, è  presente una sinistra repubblicana e socialistoide  che soffia sul fuoco. E questo può essere un elemento di pericolo.
Il metodo liberal-democratico, una volta esaurite tutte le procedure (il  modello liberale in materia resta quello della  decolonizzazione britannica), come suggeriva ieri su Fb, un mio colto  lettore, Massimo Mariani,  immaginando  di essere al posto di Rajoy, imporrebbe di lasciare 

andare i catalani. Ovviamente porrei il veto per quanto riguarda il loro ingresso nell'Unione Europea, facendo in modo che la medesima non riconoscesse la pseudo-repubblica. Infine aspetterei con pazienza lo sfacelo della loro economia, la fuga delle banche, e li riaccoglierei a braccia aperte.... Non posso comprendere una cosa del genere. La Catalogna non è oppressa da nessuno, è ricca, libera, gode di una autonomia vastissima. La Spagna è una democrazia. Non siamo più nell'epoca franchista!

Giustissime osservazioni.  Di grande coerenza liberal-democratica.  Come si evince anche dalla chiusa.   Però, il vero  punto, crediamo, sia un altro:  può un paese profondamente monarchico riconoscere una repubblica separatista? Una scappatoia, sempre procedurale -  quindi liberal-democratica  -  ci sarebbe. Quale?  La  formula del vecchio Commonwealth britannico (1926-1948), magari  rivisto secondo l' uso spagnolo.  In sintesi:  la Catalogna dovrebbe riconoscere la primazia formale della dinastia  borbone,   per poter  godere, in cambio,  dell' indipendenza ( o di qualcosa che comunque vi si avvicini molto).
Ovviamente, lungo questa strada,  esistono   rischi innegabili per l’unità  politico-territoriale della Spagna, così come è oggi. Perché un processo del genere potrebbe favorire  richieste indipendentiste  da parte degli  altri separatismi. Quindi, implicherebbe la possibile  trasformazione istituzionale dell'intera  Spagna in Commonwealth  unito dall'alleanza comune alla corona,  progetto probabilmente inviso ai conservatori.  Però si tratta di un'idea, ribadiamo, fattibile. O se si vuole, il male  minore  in una terra, come quella spagnola,  già bagnata dal sangue della guerra civile. Pertanto i conservatori dovrebbero imporsi di riflettere, spassionatamente, sul punto. Serve realismo, capacità di imaginación del desastre... 
Del resto,  qual è l' alternativa,   all’esperimento liberal-democratico di gestione della crisi catalana? L’impiego della forza. Una opzione  non irrealistica, dal momento che il rischio che prima o poi ci scappi il morto di un partito  o dell'altro,  è reale.  Anche perché, l’estremismo repubblicano-socialista  catalano, sta soffiando sul fuoco. E presto potrebbe scendere in campo,  crediamo, raccogliendo il guanto della sfida,   il lealismo monarchico.  
Che fare allora? Cercare di dividere, senza ricorrere subito alla forza, tirando per le lunghe l'attuazione dell'articolo 155, il fronte indipendentista catalano,  con una proposta che i moderati, ben consapevoli dei devastanti  effetti economici di una separazione unilaterale dalla Spagna,  non possano, ci si augura,  rifiutare.  Sicché,  l’idea di un’associazione in Commonwealth  forse, sottolineiamo forse, potrebbe funzionare.  Magari, ripetiamo, riveduta e corretta alla spagnola.  Molto però dipenderà da Re Felipe.   
Carlo Gambescia            

sabato 28 ottobre 2017

Il  pamphlet di  Luigi Iannone
Fascisti (e antifascisti), 
ma con la pensione





Mentre leggevo il brillante pamphlet di Luigi Iannone (1), pensavo tra  me e me:  sì, è tutto vero, l’antifascismo 2017 (dei Fiano, Boldrini, Grasso e compagnia cantante, inclusi certi cattolici di sinistra),  rinvia a quel catto-comunismo che si è  appropriato  della  Resistenza e della Costituzione.  E, soprattutto, di un diritto di scomunica politica  verso tutto ciò che non sia di sinistra. 
Però, ecco il punto,  quando  Iannone,  anche giustamente (perché le ridicole  misure legali evocate sono  rivolte contro quattro gatti  nostalgici),  parla di vuoti storiografici  nei riguardi del fascismo, la sua tesi andrebbe estesa all’intera storia dell’Italia unita. 
Perché non è affatto vero che nel 1945  la cultura  uscita vittoriosa, quella catto-comunista, abbia guardato indietro all'Italia liberale, e con l' occhio benevolo dell'erede riconoscente.  Iannone  invita giustamente a riflettere  sulla necessità  (finora rifiutata)  di  “storicizzare” il fascismo,  affinché possa “essere finalmente trattato alla stregua del periodo giolittiano [e] di quello risorgimentale (p. 13).  In realtà, però, Risorgimento e Italia liberale, dalla  cultura  catto-marxista, non sono stati trattati meglio del fascismo:  il buco nero storiografico risale al 1861,  come ricordava  Rosario Romeo,  grande storico liberale, perciò  poco amato a destra e sinistra. 
Sicché, nel 1945,  cattolici e comunisti  furono ben lieti, nonostante gli sforzi del grande  De Gasperi, di saldare i conti con  la classe politica e culturale pre-fascista che,  a dire il vero, non li aveva trattati di lusso.  E di conseguenza,  il pensiero liberale  venne   marginalizzato quanto e più di quello fascista.  Queste cose si devono sottolineare, soprattutto quando si discute di  “egemonia culturale  dei comunisti” nell’Italia Repubblicana.
Altro e ultimo punto. È vero,  è assai  scorretto  tirare fuori ogni  volta, anche davanti al più stupido gadget neofascista,  la storia del fascismo eterno, da reprimere con ogni mezzo. Però, attenzione:  la terapia welfarista  catto-comunista, la stessa che è parte integrante  dell’antifascismo delle magliette,  giustamente contestato da Iannone,  ha proseguito, con altri mezzi, diciamo, l'autoritaria  politica sociale del fascismo.  Uno degli argomenti classici  degli antifascisti come dei fascisti - da bocca a culo di gallina (pardon) -  è quello della  “natura sociale” del fascismo.  Che,  ovviamente,  per gli antifascisti, si reggeva sul vergognoso baratto assistenza sociale-libertà, mentre per i fascisti, consisteva  pomposamente  in una  libertà superiore, total black, da vivere però tutta “dentro lo stato”. 
Il punto tuttavia è un altro. Gli italiani, i fascisti come gli antifascisti,   per un grave  deficit di cultura liberale di cui è responsabile lo statalismo catto-marxista,  continuano  a scorgere  nel potere pubblico una organizzazione assistenziale: la classica mucca da mungere a sbafo… Si tratta di un problema di cultura politica diffusa (dai partiti ai cittadini, purtroppo).  Sicché, il welfare fascio-catto-comunista, tuttora, vive  e lotta insieme a noi.  E in questo senso, ricordo a Iannone, per parafrasare il titolo:  sì, siamo  ancora  fascisti.  Basta che ci sia la pensione,  magari anticipata,  e non importa se guadagnata o meno. 
Quindi non solo gadget. Non è forse vero che  esiste un italiano medio, malato di protezionismo sociale, che sogna il reddito di cittadinanza?  Che poi, il nuovo duce, si chiami Grillo I  o Mussolini II, cosa cambia? 
Carlo Gambescia
                                                       

 (*)  All’armi siamo (ancora?) fascisti , il Giornale/fuori dal coro, 2017, pp.  50,  Euro 2.50, più il  prezzo del quotidiano.

venerdì 27 ottobre 2017

Antisemitismo,  la grande lezione di Giano Accame
Il dilemma neofascista, 
libro o adesivo?



Che fare?  Ci siamo chiesti, proprio in questi giorni, in cui si è di nuovo discusso di antisemitismo e si sono riaffacciate, propagandosi, soprattutto tra i neofascisti, le pericolose scemenze rivolte a minimizzare il fenomeno, o peggio a imputare la colpa delle “goliardate” (laziali o meno)  alle provocazioni degli  ebrei.  I quali, capita ancora di leggere, non avrebbero mai rinunciato, come da  “Protocolli” (falsi),   a dominare il mondo...
Che fare, dicevamo? Proprio per contare idealmente fino a tre, prima di esplodere,  siamo andati a rileggere ciò che aveva  scritto  qualche anno fa  in argomento  un fascista intelligente, né neo né post,  tollerante e studioso:  un fascista liberale. Sì, liberale, nel costume intellettuale,  un uomo - attenzione -  fattosi seppellire in camicia nera:  Giano Accame.   Sotto una cascata di libri, però. Mai dimenticare il "dettaglio". 
Ecco quel che egli scriveva  in un volume che andrebbe ristampato, Il potere del denaro svuota le democrazie.

«So di contrariare gli ultimi cultori del complotto giudaico, ma mi pare doveroso farlo nella triste sessantesima ricorrenza delle leggi razziali in Italia. Una vita impegnata nel rivendicare gli aspetti anche positivi dei quel periodo non avrebbe credibilità se non sapesse prendere le distanze da ciò che invece è indifendibile. Mi pare d’altra parte evidente che il potere ebraico nella finanza, già mitizzato quando aveva dimensioni più ragguardevoli. Sia andato proporzionalmente calando nell’ultima metà del secolo anche in seguito all’ascesa di altre componenti etniche che prima in questo campo erano irrilevanti: sono cresciuti gli arabi coi proventi del petrolio, i giapponesi, i cinesi a Hong Kong e Taiwan, Singapore  è diventata una piazza finanziaria di prima grandezza. Non esiste più in Italia un grande banchiere ebreo come Toeplitz, il cui figlio fu con D’Annunzio a Fiume. Né la Germania ha i più grandi banchieri ebrei che sostennero la politica nazionalconservatrice di Bismarck. Negli Stati Uniti il sistema delle grandi banche  è Wasp (bianco, anglosassone, protestante),mentre la finanza ebraica è piuttosto  assestata nelle pur sempre molto influenti ma certo più piccole banche d’affari, dove più che un’enorme raccolta di capitali contano il genio degli affari, la fantasia innovativa combinata con antica esperienza» (*).


C’è da aggiungere altro?  Una sola cosa, fondamentale: che i neofascisti devono decidere, "loro", che cosa fare da grandi.  O mettersi, finalmente,   a studiare  oppure  dedicarsi totalmente al mercato  degli adesivi… 
Carlo Gambescia
                                                                        

(*) G. Accame, Il potere del denaro svuota le democrazie, Edizioni Settimo  Sigillo, Roma 1997, p. 113.   Ma si vedano anche, per le osservazioni più o meno dello stesso tenore,  Id., Ezra Pound economista. Contro l’usura, Edizioni Settimo Sigillo 1995 (Cap. VIII), nonché Id., La Destra Sociale, Edizioni Settimo Sigillo (Cap. VI).  Per una visione generale,  scientificamente rigorosa, si veda l’ottimo studio di Gianni Scipione Rossi, La destra e gli ebrei. Una storia italiana, Rubbettino Editore 2003. Altra persona seria e studiosa,  attualmente Vice-Presidente della Fondazione  Ugo Spirito  e Renzo  De Felice.  
 

    

giovedì 26 ottobre 2017

 Declinismo, malattia infantile del populismo, una riflessione



Quando è cominciato  tutto?  Quando si è affacciato per la prima volta  il populismo antiparlamentare? Con il suo torbido declinismo morale?  Quello, del "tutti ladri!".  Probabilmente con Tangentopoli.  E da allora non si è fermato più. 
Alimentato da Berlusconi, il primo dei qualunquisti politici. Appoggiato con calore dalla sdoganata destra  neofascista, da sempre nemica delle istituzioni rappresentative.  Puntato come un cannone,  dai post cattolici e dalla sinistra antiliberale,  contro il Cavaliere,  per combatterlo a colpi di scandali, talvolta gonfiati, Condiviso dagli infantili  fanatici della democrazia diretta: Lega e Cinque Stelle.  E naturalmente cavalcato, con trucida letizia,  dai mass media e propugnato, talvolta con ferocia, dal giustizialismo   tersiteo dei Social. 
Il tutto spiega perché una  legge  elettorale, il rosatellum, che  influirà  poco  o punto  sulla governabilità,  viene  percepita  come un colpo di stato.  Evocato  ieri  dai  Cinque Stelle: gli ultimi nati, dell’Italia, per così dire,   "botte piena, moglie ubriaca".  L'Italia  abituata  a promettere tutto e il contrario di tutto. E ciò che peggio, anche  quella abituata a credervi.
Del resto, sono vent’anni che tutti i partiti  alzano una  posta irraggiungibile, favorendo così il crescente scontento di un popolo (parola grossa...),  viziato,  egoista, sleale. Composto nella stragrande maggioranza di servitori, sempre pronti a mentire e tendere la mano verso il vincitore.  A leggere, i sempre attualissimi (e bellissimi)  Ricordi di Massimo D’Azeglio, sembra non essere mutato nulla.  E i risultati si vedono. Si pensi  ai referendum, anti-unitari, in Veneto e Lombardia di domenica scorsa… Roba da ricchi,  egoisti e viziati. Da borghesie antipolitiche, come quella papalina. Anno di grazia 1825.
Il cosiddetto declinismo morale, non è altro che la malattia infantile del populismo.  Ma quale bambino povero con il palloncino...   E poi,  declinismo da che cosa? La vita si è allungata, si viaggia, si progettano le vacanze,  si fa beneficenza,  si studia. Venticinque milioni di italiani vivono sui Social: tutti si sentono politologi, filosofi, scienziati.  E per fare che?  Lamentarsi. Di che cosa?  Dei politici che sarebbero sordi ai "bisogni del popolo". 
In realtà, i politici -  tutti i  politici, non solo i pentastellati -  sono fin troppo in sintonia. Perché promettono ciò che non si può mantenere, dal momento che per accontentare tutti, i tributi dovrebbero salire alle stelle.  Si chiama demagogia. Di qui, quel procedere a spizzico, che scontenta gli uni, accontenta gli altri, favorendo  il gioco al rialzo di populisti e declinisti, che -  quando si dice il caso  - sono all’opposizione. E quindi gridano. Ora.   Perché,  un volta  al potere,  non potrebbero non fare,  anch’essi,  i conti con la realtà.
Intanto, però, in attesa del trionfo della democrazia dei giusti e dello stato etico,  si sfascia l’economia, amplificando  il sospetto a priori su tutti coloro che hanno incarichi di responsabilità,  facilitato da inchieste a orologeria di una magistratura in libera uscita da decenni,  creando così   le condizioni per il declino economico e politico:  quello vero.   
Potremmo chiamarla  l' ossessione  da  ultima spiaggia.  Che, ovviamente,  non giova a nessuno: all’economia, come detto,  sempre al centro di indagini e sospetti,  che quindi rischia la paralisi; alla politica, ormai priva di qualsiasi buonsenso, che perciò  snatura se stessa,  inseguendo i cervellotici desiderata  populisti; ai cittadini, già viziati dalle correnti calde dell’ assistenzialismo, che regrediscono verso un capriccioso infantilismo democratico.
Potrebbe finire male. Molto male. 
Carlo Gambescia

                                

mercoledì 25 ottobre 2017

 Tifo estremo
I nuovi uomini delle caverne




«Efraim Zuroff, direttore del Centro Wiesenthal di Gerusalemme, definisce "sconvolgenti, miserevoli, ripugnanti" gli insulti antisemiti da parte degli ultrà laziali. "Non ci sono parole per condannare un gesto così vergognoso. Si banalizza la Shoah, si trasforma un'immane tragedia in una semplice bega fra tifoserie". Zuroff, pur comprendendo "l'impatto simbolico" di giocare con la Stella Gialla sulle maglie,come proposto da Renzi,ha detto: "non aggiunge conoscenza:meglio far visitare Auschwitz ai giocatori"».


Concordo. Je suis Anna Frank.  Tra l’altro si parla anche di far leggere in campo il suo bellissimo Diario.  Perché no?   Però credo che il  vero pericolo sia un altro. E che i fatti dell’Olimpico,   vadano ben oltre  la negazione della Shoah e  la banalizzazione stessa del male.   Il  nodo è  importante.  E spieghiamo perché.
La  Shoah, ormai,  non è negata neppure dagli stessi gruppi antisemiti. Per fare un esempio, gli adesivi, indicano, per dirla brutalmente,  che  il tifo estremo della Lazio, riserverebbe ai tifosi romanisti la stessa sorte  degli ebrei nei campi di sterminio.  Il tifo estremo quindi accetta la Shoah, come se però fosse normale  "gasare" i nemici.  
Si pensi, tuttavia,  alle dichiarazioni degli Irriducibili, da dove sembra provengano  i colpevoli:

«"Si tratta di scherno e sfottò da parte di qualche ragazzo forse, perché in questo ambito dovrebbe essere collocata questa cosa, anche in virtù del fatto che, come da sentenza di tribunale (qui la decisione dello scorso 2 febbraio 2017), non è reato apostrofare un tifoso avversario accusandolo di appartenere ad altra religione".Così in una nota il direttivo degli Irriducibili della Lazio. "Ma evidentemente nemmeno la Figc se ne ricorda se è vero che hanno aperto un'inchiesta"».   (http://www.ansa.it/sito/notizie/cronaca/2017/10/23/comunita-ebraica-di-roma-fuori-gli-antisemiti-dagli-stadi_a4c141e1-8029-47bc-b8a0-059d4b242ab7.html )

Certo, che sarà mai…  Una goliardata…  Sulla pelle di un intero popolo che ha rischiato di essere sterminato.
All’epoca del processo Eichmann a Gerusalmme, Hannah Arendt,  parlò, a proposito di  un personaggio dal grigiore di un burocrate, di "banalità del male",  nel senso che  l’ex  funzionario nazista  applicava il diritto positivo (leggi, normative, regolamenti). Insomma, “si  faceva quel che andava fatto”  a norma di legge, in un clima sociale di consenso (tacito e/o esplicito) alla legislazione nazista contro gli ebrei.     
Oggi  siamo ben oltre la banalità del male. E probabilmente, in particolare,  oltre la "banalità degli esecutori nazisti", scorta giustamente dalla Arendt.   Certo, come nel caso di Eichmann e di altri nazisti, anche gli Irriducibili evocano a discarico l'articoletto di  legge.  In  realtà,  siamo davanti alla barbarica riduzione del nemico, come spiegavamo ieri, a  puro e semplice ostacolo materiale  al perseguimento di risorse. Quel che separa dalla conquista dal cibo...  Qualcosa di pre-cognitivo, ordalico,  che va distinto dall’antisemitismo degli intellettuali e dei  burocrati alla Eichmann.
Mi spiego meglio: parlo di  antisemitismo inconsapevole (non meno ripugnante di quello consapevole),  quale frutto velenoso  di una  regressione alla dinamica dell’orda: condizione, questa, che rappresenta il grado zero del conflitto politico.
Un passo indietro.  Di regola,  il nemico può essere sublimato, trasformato in avversario, banalizzato e distrutto. La sublimazione, riguarda le grandi religioni, in particolare i monoteismi; la trasformazione in avversari, le liberal-democrazie; la banalizzazione i totalitarismi;  la distruzione materiale pura e semplice, l’orda. Parliamo, in quest'ultimo caso,  di  quasi-gruppi sociali,  che si contendono risorse fisiche  a colpi di clava.  Pertanto, nel caso del tifo estremo, più che di banalizzazione del male, parleremmo della sua naturalizzazione.
Ripeto, dietro il tifo estremo, non c’è Eichmann, ma l’uomo di Neanderthal: il grado zero del conflitto politico.
Ecco perché ritengo -  anche se importanti sotto il profilo simbolico e di un sacrosanto risarcimento morale -  inutili i tentativi di far ragionare gli uomini di Neanderthal.   Il vero punto fondamentale non è ( o comunque non solo) individuare e punire dieci-venti cavernicoli, bensì  quello  di far uscire, con essi, il conflitto politico naturalizzato, dagli stadi,  restituendoli  ai tifosi  “normali”. Potremmo parlare di una necessaria "ri-parlamentarizzazione" del tifo, capace di  trasformare il nemico in leale avversario; di sostituzione del "voto" alle "pallottole", anche ideologiche.  Come del resto era un tempo, quando si andava allo stadio, come al cinema, con famiglie al seguito, mescolandosi  tra  tifosi. Idealizzo? Si leggano le cronache sportive, grosso modo, fino alla metà degli anni Settanta del Novecento.  Ma questa è un'altra  storia...  
Comunque sia, rinviamo il lettore alle proposte contenute nel  post di ieri (http://carlogambesciametapolitics2puntozero.blogspot.it/2017/10/gli-adesivi-antisemiti-dei-laziali.html ).  
Concludendo, siamo davanti, piaccia o meno,  ai nuovi uomini delle caverne. E come tali vanno trattati. 

Carlo Gambescia  

martedì 24 ottobre 2017

L'antisemitismo come risorsa del  tifo estremo
Povera Anna Frank (e povera Italia…)



Il mondo  del  tifo estremo, non da oggi e non solo a Roma, raccoglie individui che proiettano  non tanto sulla propria squadra quanto sugli avversari il modello amico-nemico. In qualche misura il tifoso fa politica, o meglio si muove alla luce di una inesorabile costante del politico.
Il che però  innesca  una feroce  logica conflittuale, che unita al modello setta, o comunque di ordine militare ristretto (altro schema organizzativo di tipo politico-religioso), rinvia sul piano dei contenuti al contro-immaginario novecentesco. Ci spieghiamo meglio.
Si prenda il triste caso della foto di  Anna Frank  rivestita con la maglia della Roma,  oggi su tutti i giornali.  Purtroppo, per il   contro-immaginario novecentesco,  quello che si è opposto ideologicamente allo sviluppo della cultura democratica e liberale,   l’antisemitismo è una risorsa.  Di conseguenza, lo si usa per  screditare gli avversari. Per i tifosi estremi della Lazio accostare  Anna Frank a un tifoso romanista, trattandosi di un “nemico”, resta  la cosa più normale del mondo.
Può essere utile, come si legge,  condurre   il tifoso estremo della Lazio, una volta individuato,   in visita ad Auschwitz?  Può esserlo, sicuramente,  dal  punto di vista del risarcimento simbolico per la comunità ebraica e per l’umanità intera. Oppure,  come importante sanzione  accessoria dal punto di vista del diritto penale. Tuttavia,  nutriamo forti dubbi   sul ruolo, pur importante, dell' educazione, soprattutto là dove prevalga,  come negli stadi,  la logica del conflitto, attraverso la quale si recluta, forma e  fortifica il tifo estremo.
Perché  il vero punto della questione è come disinnescare la logica amico-nemico. Detto altrimenti: come “pacificare” il calcio, evitando che gli stadi si trasformino in campi di battaglia. Il problema non riguarda ( o comunque non solo)  le ideologie, per quanto ripugnanti, professate dai tifosi estremi,  ma la “forma conflitto”. Come tenerla fuori dagli stadi? Ovviamente, non è mai facile difendersi dalla logica polemica (nel senso del polemos, sotteso al conflitto amico-nemico).  Qualcosa però si potrebbe tentare. 
In primo luogo,  evitando qualsiasi esasperazione di tipo  mediatico, intorno al calcio: al momento,  se ne parla troppo e male.  In secondo luogo, escludendo fisicamente il tifo estremo dagli stadi.   In terzo luogo,  favorendo, dopo la  salutare bonifica,   il ritorno negli stadi del tifoso “normale”, oggi purtroppo  appaltati ideologicamente al tifo estremo.  
Forse il fenomeno  più rilevante degli  ultimi due-tre decenni, legato (non solo) allo sviluppo del calcio televisivo,  è quello dell’abbandono di questo rito, un tempo pacifico e domenicale,  da parte del “tifoso medio”, senza grilli per  la testa, se ci si  passa l’espressione.  A poco a poco,  gli stadi sono stati giudicati, soprattutto dalle famiglie,  scomodi e pericolosi.  Per contro,  i prezzi dei biglietti, invece di diminuire a causa del  calo di pubblico, sono cresciuti.  Il che è avvenuto -  si noti -    malgrado  il crescente introito dei  diritti televisivi.   Pertanto, le società di calcio,  adagiatesi su questa tendenza  si sono assunte gravi responsabilità. In che modo? Aumentando i prezzi, ma non per il tifo estremo (in termini reali,  attraverso la concessione patteggiata di benefit),  favorendone in qualche misura, in termini di feudalesimo funzionale,  l'arrogante prepotere.
Dal punto vista dell’eterogeneità sociale, lo stadio,  che un tempo vedeva  il pacifico  mescolarsi di ceti e classi differenti,  ma anche dei tifosi delle diverse squadre, tutti allegramente insieme,  oggi offre il torvo spettacolo delle curve militarizzate dai  violenti "proletari" del tifo, isolati dalle tribune frequentate dalle élites sociali cittadine, di regola alto borghesi, politicamente corrette,  vicine al potere calcistico e  protette dalla polizia. Lo schema, almeno negli stadi, sembra essere quello ottocentesco delle  "due nazioni".  Troppo distanti,  che continuano a  non  comprendersi.    
I borghesi piccoli  e medi,  che dovrebbero rappresentare il nerbo, dello stadio pacificato,  invece  restano  a casa davanti alla televisione, per paura, pigrizia, convenienza.  Ennesimo tradimento di un ceto che ciclicamente torna a  nascondersi  e mimetizzarsi?  Anche allo stadio? Forse.
Comunque sia, povera Anna Frank.  E povera Italia nostra.

Carlo Gambescia                     
           


lunedì 23 ottobre 2017

Arma dei Carabinieri (*)
Nucleo di Polizia Giudiziaria di [omissis]
VERBALE DI INTERCETTAZIONE DI CONVERSAZIONI O COMUNICAZIONI
(ex artt. 266,267 e 268 C.P.P.)
L'anno 2017, lunedì 23 ottobre, in [omissis] presso la sala ascolto sita al 6o piano
della locale Procura della Repubblica, viene redatto il presente atto.
VERBALIZZANTE
M.O Osvaldo Spengler
FATTO
Nel corso dell'attività tecnica di monitoraggio svolta nell'ambito della procedura riservata n. della procedura riservata n. 945/3, autorizzazione NATO n. 219/2a [Operazione “FOLLOW UP” , N.d.V.] è stata intercettata in data 22/10/2017, ore 16,25 la seguente conversazione telefonica tra le utenze 333.***, intestata a FINZI MATTIA, SEGRETARIO DEL PARTITO DEMOCRATICO e 356***, intestata a SENSINI FABIO. Si riporta di seguito la trascrizione integrale della conversazione summenzionata:
[omissis]


FINZI MATTIA: “Dico, le hai viste le foto sui giornali? Pieno di rughe, con la pancia, bolso, brutto, vecchio! Cosa ci stai a fare tu?”
SENSINI FABIO: “Mah, a me non sembra…”
FINZI MATTIA: “Come non ti sembra?! Guarda la “Repubblica” di ieri, guarda l’ “Huffington Post”, guarda! [pausa] Hai guardato?”
SENSINI FABIO: “Eee…un attimo…[pausa] sì, bè, dai…non esagerare…una foto malriuscita, può capitare…”
FINZI MATTIA: “Può capitare? Può capitare?! Ci sono le elezioni perdìo!”
SENSINI FABIO: “Lo so, ma…”
FINZI MATTIA: “Ma niente! Qua sembro una mummia, il fratello di Bernasconi!”
SENSINI FABIO [pausa]: “Senti, Mattia…”
FINZI MATTIA: “Come la spieghi tu?”
SENSINI FABIO: “La spiego che una volta può capitare, non sono Dio. Farò una telefonata, va bene?”
FINZI MATTIA: “E fai ‘sta telefonata.”
SENSINI FABIO: “Però, vedi…”
FINZI MATTIA: “Vedi cosa?”
SENSINI FABIO: “Questo. Uno: secondo me è un puro caso. Due: se non è un puro caso, è una cosa molto seria.”
FINZI MATTIA: “Cioè?”
SENSINI FABIO: “Cioè, c’è un limite allo spin, Mattia. Io ai media do una spintarella, non li comando con la bacchetta magica. Ti ricordi Montani? Che quando è diventato Presidente del Consiglio tutti i media hanno intonato in coro il canto del loden? Bene. E adesso? Adesso nessuno se lo fila, te lo presentano più o meno com’è, un notabile vecchiotto, mediocre, anche antipatico, freddo, spocchioso…”
FINZI MATTIA: “E allora?”
SENSINI FABIO: “E allora bisogna stare attenti, Mattia. Molto attenti. Prima di tutto viene il potere, il potere vero. Dopo viene lo spin: solo dopo. Se hai il potere, è facile, diciamo…aiutare i media a presentarti sotto la luce più favorevole. Se non ce l’hai o se ne hai meno, diventa difficile, molto difficile.”
FINZI MATTIA [pausa]: “Cioè, quando hai il potere i media ti vedono già bello?”
SENSINI FABIO: “Esatto. E’ come quando sei innamorato, guardi la tua ragazza ed è la più bella del mondo.”
FINZI MATTIA: “E quando sei innamorato diventi più bello per davvero…”
SENSINI FABIO: “Se sei ricambiato. Se lei non ti si fila, vai in depressione e diventi brutto.”
FINZI MATTIA [pausa]: “Cazzarola…[pausa] Ma allora cosa devo fare?”
SENSINI FABIO: “Corteggiali, Mattia. Corteggiali, i media, e soprattutto, non pretendere da loro l’amore folle.”
FINZI MATTIA: “Non ho capito.”
SENSINI FABIO: “L’amore folle: mandi tutto per aria, ti rovini, dimentichi i tuoi impegni, perfino i tuoi interessi…”
FINZI MATTIA [lunga pausa]: “Dici che a chiedere la testa di Viscoso ho fatto una cazzata?”
SENSINI FABIO: “Eh.”
Letto, confermato e sottoscritto
L’UFFICIALE DI P.G.

M.Osvaldo Spengler

(*) "Trattasi" -   tanto per non cambiare stile,  quello  della  Benemerita...  -   di ricostruzioni che sono  frutto della mia  fantasia di  autore e commediografo.  Qualsiasi riferimento  a fatti o persone  reali  deve ritenersi puramente casuale. (Roberto Buffagni)

Chi è il  Maresciallo Osvaldo Spengler?  Nato a Guardiagrele (CH) il 29 maggio 1948 da famiglia di antiche origini sassoni (carbonai di Blankenburg am Harz emigrati nelle foreste abruzzesi per sfuggire agli orrori della Guerra dei Trent’anni), manifestò sin dall’infanzia intelletto vivace e carattere riservato, forse un po’ rigido, chiuso, pessimista. Il padre, impiegato postale, lo avviò agli studi ginnasiali, nella speranza che Osvaldo conseguisse, primo della sua famiglia, la laurea di dottore in legge. Ma pur frequentando con profitto il Liceo Classico di Chieti “Asinio Pollione”, al conseguimento della maturità con il voto di 60/60, Osvaldo si rifiutò recisamente di proseguire gli studi, e si arruolò invece, con delusione e sgomento della famiglia, nell’Arma dei Carabinieri. Unica ragione da lui addotta: “Non mi piace far chiacchiere .” (Com’è noto, il carabiniere è “uso a obbedir tacendo”). Mise a frutto le sue doti di acuto osservatore dell’uomo in alcune indagini rimaste celebri (una per tutte: l’arresto dell’inafferrabile Pino Lenticchi, “il Bel Mitraglia”). Coinvolto nelle indagini su “Tangentopoli”, perseguì con cocciutaggine una linea d’indagine personalissima ed eterodossa che lo mise in contrasto con i magistrati inquirenti. Invitato a chiedere il trasferimento ad altra mansione, sorprese i superiori proponendosi per la sala ascolto della Procura di ***. Richiesto del perché, rispose testualmente: “Almeno qui le chiacchiere le fanno gli altri.”
***

Roberto Buffagni è un autore teatrale. Il suo ultimo lavoro, attualmente in tournée, è Sorelle d’Italia – Avanspettacolo fondamentalista, musiche di Alessandro Nidi, regia di Cristina Pezzoli, con Veronica Pivetti e Isa Danieli. Come si vede anche dal titolo di questo spettacolo, ha un po’ la fissa del Risorgimento, dell’Italia… insomma, dell’oggettistica vintage...




venerdì 20 ottobre 2017

Sondaggi
L’insostenibile pesantezza del populismo




Montagne di studi sul comportamento elettorale, eppure "di  doman"  ne sappiamo meno di prima. Perché? tecnicamente parlando, si sonda  ciò che c’è  di più volatile: opinioni formatesi, visto che il voto ideologico è sparito da un pezzo,  sull’ultimo telegiornale. Per capirsi: chi viene intervistato ripete a pappagallo le parole di chi abbia "parlato" per ultimo: un titolo di giornale, una notizia alla televisione,  uno scambio di idee con la zia, eccetera, eccetera.  I sondaggi, insomma, non sono molto  attendibili, se non  quelli -  ma anche in questo caso  con larghi margini -  effettuati a pochissime  ore dalle elezioni.    Quindi va sempre fatta la tara.
Un sondaggio del Barometro (*), uscito sulla Stampa,  dà in vantaggio  Pd (29%) e M5S (28 %). Mentre,  il Centrodestra,   assai frazionato,  potrebbe perseguire, se sommati,  la maggioranza dei voti ( 33,5/34 %),  ma, allo "scomputo" non quella  dei seggi.  Se non interverranno precisi accordi  tra i partiti, da veicolare abilmente agli elettori, il Centrodestra dove si vota con l’uninominale, andrà a fondo, rischiando di perdere,  come potrebbe accadere ai pentastellati  (anch'essi bisognosi di accordi), fino a  un terzo dei seggi.
In realtà, il Pd, soprattutto se si presentasse compatto, potrebbe ottenere la maggioranza relativa dei seggi, stravincendo la battaglia dell'uninominale.  Mentre Centrodestra e Cinque Stelle, come in un sistema di vasi comunicanti, potrebbero perdere o guadagnare seggi  ai danni dell’uno e dell’altro.
Altro dato che emerge  è che gli italiani sarebbero scontenti del Rosatellum, non tanto in sé, quanto perché  percepito  come una riforma  approvata in favore di alcuni partiti contro altri.  In realtà,  non si intuisce  il vero motivo di debolezza della legge: con  il Rosatellum, non ci sarà alcun vero vincitore, capace di governare da solo dopo elezioni. Infatti, il disegno complessivo della nuova legge è proporzionalista, non maggioritario. 
Si è invece accreditata,  la  versione anti-renziana della legge.  Evidentemente  “passata” nel Paese negli ultimi giorni.  Che l’elettore “sondaggiato” ripete a pappagallo.   Il che però  spiega due cose, che i mass media e i social sono largamente anti-renziani, danneggiando però con  Renzi, anche l’ipotesi riformista. Portando, di conseguenza,  acqua avvelenata  al mulino populista.  Insomma, i sondaggi, possono assumere forza  propria, e se ripetuti e diffusi capillarmente, influenzare, anche se in misura non sempre determinante, il voto. Quello vero.
Ovviamente, ripetiamo,  sono sondaggi: riflettono l’opinione - ci scusiamo per la  brutale semplificazione - del cretino che ha parlato per  ultimo, e possono perciò mutare rapidamente.  Del resto non  si dice la mamma dei cretini, eccetera, eccetera?
Rimane però un dato di fondo, strutturale,  pesante:  gli italiani  non sembrano ravvisare nel populismo un pericolo.  Anzi incoraggiano. Come a suo tempo  -  allora i sondaggi non esistevano - incoraggiarono il fascismo,  variante armata di un populismo che torna regolarmente ad affacciarsi nella storia d’Italia.  Dopo di che,  però,  il "popolo sovrano"  la pagò cara.
Eppure sembra che la lezione non sia servita. 

Carlo Gambescia          


giovedì 19 ottobre 2017

La mozione  del Pd presentata ieri contro Visco
 Renzi e la Banca d’Italia, 
non solo isteria…
  


La mozione del Pd contro Visco ha prodotto molte letture  politiche, ne ricordiamo solo alcune: la complottista (Renzi vuole  vendicarsi del "torto"  subito dalla Ministra Boschi); la bancaditaliaista (Renzi vuole mettere un suo  uomo,  esterno alla Banca d’Italia); bancario-politica (Renzi, vuole dare un contentino - e che contentino… -  ai suoi amici del mondo  bancario); la ipocrito-politica (Renzi, vuole minare l’autonomia economica  della Banca d’Italia); l’antiberlusconiana (Renzi, vuole favorire  Berlusconi, che odia Visco, per poi fare più facilmente, dopo le elezioni,  le larghe intese), la pseudo-sovranista (Renzi vuole sostituire Visco, con un nome più gradito alla "bancocrazia" mondiale).
Come si vede, ce n’è per tutti i gusti.
Personalmente, riteniamo che Renzi, come nota oggi Eugenio Scalfari,  -  una tantum,  giustamente -  soffra di periodici attacchi di isteria, e che di conseguenza finisca ogni volta per  rinunciare a qualsiasi forma di  prudenza, prendendo decisioni improvvise,  prive di qualsiasi costrutto politico.
Si pensi, in passato,  alla subitanea decisione di personalizzare il referendum  costituzionale,  (“Con me o contro o me”), finendo così per favorire il coalizzarsi di  tutti  i suoi scombinati  avversari.  E lo stesso potrebbe accadere con Visco. E ovviamente con conseguenze dannose per  Renzi e per l’Italia,   per i  possibili riflessi economici, quindi non solo di immagine.
Va pure detto che  dietro la difesa  di Visco e della cosiddetta autonomia- indipendenza  della Banca d’Italia, c’è  ipocrisia in dosi industriali.  L’Istituto di Emissione  non ha mai volato da solo: la guerra monetaria è sempre stata  cosa troppa seria per essere lasciata ai governatori.  Certo, nella storia dell’istituto di emissione, dopo la dittatura fascista,   ci sono  stati tra potere politico e Banca d’Italia,  periodi di lunga  bonaccia, si pensi agli anni aurei di  Guido Carli, e di violenta  bufera, come ai tempi di Fazio ( e ancora prima di Baffi).  Del resto, contrariamente a  tutte le fregnacce (pardon) democraticiste e socialiste sulla proprietà collettiva della moneta,  l’introduzione del mandato a termine,  ha rappresentato, di fatto,  una  riconferma della sottomissione della Banca d’Italia ai desiderata del potere politico.  Tradotto:  “Caro Governatore, a chiacchiere sei indipendente, se però provi ad alzare la testa o  scontentare politicamente qualcuno, a fine mandato, torni a fare l’impiegato di sportello” (si fa per dire).
Del resto, per portare un altro esempio,  la Banca Centrale Europea, nonostante Draghi guardi più o meno benevolmente all’Italia, dipende, di fatto, dalle banche tedesche, che a loro volta, dipendono, altrettanto di fatto, dalle decisioni della politica tedesca: di una nazione che, economicamente, rappresenta il 50 per cento dell’economia europea. E, quindi, con una forza politica, di pari valore. Sono le leggi della politica, bellezza…     
Pertanto, per tornare all’Italia, ripetiamo:  autonomia-indipendenza della Banca d’Italia dalla politica? Una barzelletta.  Il fascismo la comandava a bacchetta,  la Repubblica così e così. Ma l’ultima parola, mai dimenticarlo,  è sempre stata della politica.
Renzi, sintetizzando, invece di lavorare ai fianchi Visco, promettendogli qualche altro incarico prestigioso, in preda alla solita isteria,  rivendica, ciò che in Italia, terra dell’economia mista, è regola, purtroppo:  il predominio della politica sull’economia.  E, in particolare, sulla Banca d’Italia.
E chiunque oggi provi  meraviglia per questo,  o fa il  furbo o è cretino.


Carlo Gambescia                  

mercoledì 18 ottobre 2017

In Catalogna si protesta contro gli arresti
Con la simpatia non si governa, né si ottiene l’indipendenza




Si può  fare a meno, in democrazia, dell’uso della forza?  Ed, eventualmente,  quando  è giusto  usarla? E fin dove?  E' molto difficile rispondere a queste domande, perché la democrazia è forma, mentre il politico, come vedremo,  è sostanza.  
Si pensi all’arresto dei due leader indipendentisti catalani,  che,  in un paese monarchico, la Spagna, pretendono sia autorizzata, al suo interno e   dallo  stesso re,  la nascita di uno stato indipendente repubblicano. La Repubblica italiana permetterebbe  la restaurazione dell’istituto monarchico, un una Sicilia indipendente e borbonica?  Quella tedesca  consentirebbe il ritorno degli Hohenzollern in Prussia? E la francese,  del Giglio in Vandea?   
Dicevamo, sostanza del politico.  Infatti,  non siamo davanti a un solo  problema di  coerenza istituzionale, per così dire formale ( ovvero una monarchia non può essere repubblicana e viceversa), bensì, il punto fondamentale della questione  concerne la coerenza politica.  Ci spieghiamo meglio.
Se il politico,  a prescindere  dalla forma del regime, è  basata, tra le altre cose,   sulla relazione comando-obbedienza ( ossia  dove non c’è obbedienza non c’è comando, e dove  non c’è comando, il potere è condannato a  dissolversi),   è ovvio che chi detiene il potere faccia di tutto per farsi obbedire, anche usando la forza.  Che però  nelle democrazie liberali è ancorata alle regole  del diritto. Di conseguenza l’uso della forza deve  sempre rispondere a  requisiti di legittimità  e legalità.
Ora, il punto è che, gli indipendentisti  catalani, non riconoscono lo stato spagnolo sotto il profilo della legittimità.  Sicché la legalità, diviene pura e semplice  appendice  di ordini  emessi da autorità  che non si riconoscono.  In uno stato  non democratico,  la Catalogna sarebbe  già stata occupata manu militari,  in una democrazia liberale, come sta avvenendo,  invece, si punta sui  giudici, sulle  leggi, e soprattutto si  cerca di trattare - politicamente - tentando di separare gli estremisti dai moderati. 
Tuttavia, la disobbedienza è di cattivo esempio.  I processi disgregativi del potere hanno carattere cumulativo al contrario: quanto più cresce il tasso di disobbedienza,  tanto più il potere  si indebolisce,  perché la sua  crescente debolezza  favorisce i processi emulativi, e questi, a loro volta, producono, diffondendosi, la paralisi del potere, e così via. Ovviamente,  oltre una certa soglia, difficile però da individuare, il potere si dissolve.
La difficoltà di stabilire il punto preciso di non ritorno,  che dipende dalle capacità cognitive  e dalla virtù prudenziali  possedute della classe politica, rende tutto più complicato. Soprattutto nelle democrazie liberali, dove l’uso della forza, sebbene  autorizzato dalla legge, non è ben visto dalla pubblica opinione. Il che spiega la simpatia, in particolare mediatica, soprattutto all'estero, verso gli indipendentisti catalani,  dipinti  come vittime di un potere illegittimo e illegale.  E, per contro, la cautela, del governo  spagnolo,   che finora ha  puntato su  un uso legalmente mirato  della forza, proprio per non attirarsi l’antipatia della pubblica opinione internazionale
Tuttavia, con la simpatia non si governa, né  si ottiene l’indipendenza. Quindi, se il braccio di forza proseguirà,  uno dei due contendenti, prima o poi,  non potrà non sguainare la spada.                 
            

Carlo Gambescia