Lo smog e la “cultura dell’emergenza"
Una lezione di sociologia
Questa
storia dell’Italia nella "morsa dello
smog" merita un commento. Sociologico.
Appena
i media si sono impadroniti della cosa - come è naturale che sia perché i mezzi di comunicazione sociale inseguono e
rilanciano l’attualità, per statuto ontologico - martellando fin dalle aperture, si è aperto,
come si dice, un dibattito politico, su come contrastare, prima a colpi di
statistiche, poi di provvedimenti, addirittura a livello centrale, “l’increscioso fenomeno”.
Ora,
se si fa un giro su Internet, o ( meglio) in libreria, si scopre subito che sulla
questione (entità, cause, conseguenze) esiste una bibliografia vasta e
contrastante. Insomma, lo schieramento scientifico, medico e statistico è profondamente diviso. Per non parlare del
mondo politico, dove la sinistra vuole
imporre la sua cultura ecologista, basata sul principio di precauzione (meglio
prevenire che curare) e la destra, per
tutta risposta, l'imperativo darwinista ( né curare, né prevenire, ma lasciar fare).
Cosa
insegna la sociologia? Che ogni stato di
emergenza porta con sé un giro di vite alle libertà. Ad esempio, la
guerra ( ce ne stiamo rendendo di nuovo conto) determina l’irrigidimento se non
l’irreggimentazione del sistema sociale:
si serrano i ranghi e si introducono divieti e controlli alla produzione, alla
libertà di movimento eccetera. Lo stesso
discorso vale, fatte le debite proporzioni, per la calamità naturali. Però il
dato fondamentale è rappresentato dall’imminenza ed entità del pericolo. Due fattori, ci dice sempre la
sociologia, manipolabili dal punto di
vista comunicativo (non nel senso stretto dei media). Certo, un terremoto,
resta un terremoto. Tuttavia, quanto più la cultura si allontana dalla natura,
tanto più il fenomeno da contrastare diventa labile, perché i fatti segnano il
passo rispetto alle opinioni scientifiche - attenzione, "opinioni", perché di scuola - che, a loro volta, devono però tradursi, in quei dati statistici o meglio "parametri" dai quali poi dipendono le decisioni politiche. Scelte che possono essere (ideologicamente) giuste o
sbagliate, ma che, di sicuro, implicano sempre il giro di vite cui abbiamo accennato. Scelte compiute, ripetiamo, su basi parametriche, quindi convenzionali, se si vuole, presuntive (nel senso che presumono eccetera...). Alle quali - di nuovo, attenzione - i cittadini, di regola, si piegano, per ragioni ideologico-morali legate alla integrità fisica
personale ( “è per il vostro bene”) e per puro spirito gregario-emulativo (“lo
fanno tutti”; “lo ha detto la televisione”; “si va in prigione” , “si paga una grossa multa”).
Insomma,
l’emergenza, ma a questo punto sarebbe
giusto definirla cultura dell’emergenza, mette in moto una specie di macchina
sociologicamente acefala: si pensi a due mandibole che, una volta avviate, cominciano ad aprirsi e richiudere sulle nostre
libertà.
Qualcuno potrebbe pensare che stiamo esagerando. In realtà, quel che ci preme sottolineare è che nei processi sociali, la forma (le
mandibole politiche) sono indipendenti dai contenuti ( la rappresentazione
culturale dell’emergenza). Di qui, il pericolo, se ci si passa la battuta, di
usare la bomba atomica per uccidere un povero e libero passerotto.
Carlo Gambescia
Nessun commento:
Posta un commento