La scomparsa di Sabino Acquaviva
Così vicino, così lontano
Di Sabino Acquaviva (*) come ultimo ricordo abbiamo il suo fare
capolino, sette-otto anni fa, a una riunione di intellettuali di varia estrazione culturale e politica, organizzata da
Alessandro Campi, allora direttore scientifico di “Fare Futuro”. Acquaviva si sporse dal portale che introduceva all’ antico e freddo salone della Roma
patrizia. Esitava. Sembrava un passerotto, timido e curioso. Indossava un giacchetto di pelle, da lontano,
segaligno e in jeans, ricordava un poco Pasolini. Si mise
seduto vicino all’uscita, senza poi dire una parola. Sparì, dopo una decina di minuti. Evidentemente, aveva capito tutto, in un lampo: la cultura
critica, quella che piaceva a lui, non abitava lì. Come, del resto, trent’anni
prima, aveva subito compreso, molto prima di chi scrive, che la Nuova Destra di Marco Tarchi non era che l’ennesimo flop in
divenire di una cultura politica morente. Perciò leggere - benché su Wikipedia, dove si cita da
un libriciattolo in argomento - “considerato
vicino alle idee delle Nuova Destra”, lascia perplessi. E parecchio.
Acquaviva
ha rappresentato in qualche misura il
genio e la pavidità del sociologo di successo. Diciamo, da Prima Repubblica,
imbevuta di futurismo (e buoni affari) catto-socio-comunista (socio, sta per socialista). Genio, per gli studi pionieristici sulla
secolarizzazione, dove però già trasparivano certe sue arcaiche perplessità da
immaginario post-dossettiano verso la società moderna e di mercato; pavido, per il suo atteggiamento, non solo come studioso, verso
l’ala più violenta e prevaricatrice della sinistra extraparlamentare,
sconfinante nel terrorismo, alla quale egli concedeva, con ostinazione, un sostrato religioso, millenarista, salvifico. A tale proposito, il suo Sinfonia in rosso resta lettura interessante, come malinconico e terribile bilancio del
dominio, barbaro e incontrastato, degli autonomi di religione toninegriana
nell’università padovana. Pagine dense, perfino
dolorose in alcuni passaggi, che decostruiscono i disinganni di un teorico
della resa. A un tempo, così vicino, così lontano alle e dalle cose che si imponeva di studiare (da vicino). E di capire (da lontano), forse per tutto assolvere, benedicente. Come il Papa di Morselli.
Acquaviva, dentro il secolare, cercava ancora il
sacro, però separato dal
trascendente. Nulla di male, era il
classico sociologo imbevuto di materialistica e pragamatica cultura (però con rimorsi) trial
and error. Di qui, i suoi inevitabili e rapsodici innamoramenti epistemologici e
politici, seguiti dalla regolare caduta delle illusioni: culturalismo,
biologismo, sinistra, destra. Però l’unico
dato certo, rimane che la ricerca, la
sua, non poteva, non doveva finire. Mai. La ricerca come fine, non come mezzo. In questo senso, Acquaviva non era
vicino a nessuno. Forse neppure a se stesso.
Carlo Gambescia
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