mercoledì 2 dicembre 2015

Caro vecchio zio Isaiah (Berlin) 



Oggi che molti si proclamano liberali, resta ancora più difficile definire che cosa sia il liberalismo. Diciamo, semplificando, che può essere definito liberale chi anteponga l’individuo alla società e allo stato. Dopo di che nascono  però altri problemi. Perché troveremo pensatori liberali archici come Aron che ritengono irrealistica l’idea dell’individuo isolato e autosufficiente. Oppure, liberali, micro-archici come Mises, che invece asseriscono la necessità di costruire la teoria politica liberale, proprio partendo dall’individuo, come unico attore  razionale. O liberali di sinistra, macro-archici come Rawls (soprattutto il primo Rawls, quello di Una teoria della giustizia), per i quali lo stato gioca un ruolo decisivo nello stabilire condizioni di partenza eguali per tutti (*).
Il vero punto della questione è che  Aron, Mises e Rawls considerano la politica con sospetto. Aron, da buon realista, la sopporta, cercando di addomesticarla, attraverso la lezione della storia. Mises, invece antepone l’economia alla politica. Rawls invece trasforma  la  politica in regole e procedure, e di fatto, in statalismo dei diritti. 
Un autore prezioso, che può essere affiancato ad Aron, per sensibilità politica e curiosità intellettuale, è certamente Isaiah Berlin (1909-1997).  Un liberale molto particolare, al quale Norberto Bobbio rimproverava che per argomentare il suo liberalismo, ricorresse ad autori poco liberali come Machiavelli, Vico e Sorel… In effetti Berlin, da autentico storico delle idee,  si  è sempre mosso a suo agio, tra i pensatori più diversi, cogliendone genialmente contraddizioni e potenzialità. Nato a Riga, ma presto trasferitosi con la famiglia  in Gran Bretagna, che diverrà la sua patria d’adozione e d’insegnamento, Berlin era  e resta  un  modello di raffinato “saggismo” universitario. Ma rimane anche un instancabile critico del dogmatismo: da quello comunista a quello liberista.  Ha pubblicato ottimi libri come Il riccio e la volpe (Adelphi 1986), Il legno storto dell’umanità (Adelphi 1994), Il senso della realtà (Adelphi 1998),  i Four Essays on liberty (raccolti poi nel volume La libertà, Feltrinelli 2005). E quello che è il nostro libro preferito:  Le radici del romanticismo (Adelphi 2001), dove  traccia un magistrale ritratto del movimento romantico cogliendone bene luci e ombre. Un testo che andrebbe letto insieme a Romanticismo Politico di Carl Schmitt : quello che il giurista e politologo tedesco chiama - semplifichiamo - l’opportunismo politico del romanticismo, che   spinge l’intellettuale romantico  a sposare  cause politiche anche opposte (progressiste e reazionarie), per Berlin è puro antideterminismo storico: volontà di non dare mai un senso definitivo alla storia. E soprattutto alla libertà umana.   
In realtà, Berlin, è prezioso, proprio per il  suo liberalismo realista, a piccoli passi, o se si vuole, triste. Come dire, non ridens.  Perché consapevole, come quello aroniano, ma per certi versi si potrebbe citare anche la Arendt, dei limiti insiti nella natura umana. E dunque della pericolosità sociale delle visioni salvifiche, anche se apparentemente liberali.  Molto interessanti, ad esempio,  le pagine che Berlin dedica  a ogni forma di pseudo-legge storica,  incluse quelle storico-economiche, a cominciare dai cosiddetti principi della domanda e dell’offerta.  Perché lesive delle umane capacità morali . Ecco in pillole la tesi di Berlin: se si ritiene che un certo evento (ad esempio l’avvento della società comunista, liberale, eccetera)  debba accadere, perché allora organizzare un movimento col compito di favorire quel che comunque accadrà? Di qui due rischi:  l’inazione fatalistica, oppure l’iperattivismo, perché alcuni, potrebbero cercare di affrettare i tempi, e a tutti i costi…
 Questo non significa che  non  si debba decidere e agire. Il realismo politico, scrive Berlin, nel Potere delle idee, non impone la fede in  leggi storiche assolute ( cosa ben diversa, a suo avviso, dal ritenere, giustamente, che esistano “ritmi storici”). Ma richiede alcune qualità: “ la capacità di giudizio, l’abilità, il senso del tempo, la comprensione immediata del rapporto tra mezzi e risultati”. Tutti aspetti che “dipendono da fattori empirici come l’esperienza, l’osservazione, e soprattutto quel ‘senso della realtà’ che consiste in  buona parte di un’integrazione semiconsapevole di un gran numero di elementi apparentemente irrilevanti o impercettibili presenti nella situazione; elementi che presi insieme formano un qualche tipo di disegno che di per sé ‘suggerisce’ (‘sollecita’) l’azione appropriata”.
Troppo complicato? No, perché, qualche riga più in là,  Berlin attribuisce  tali qualità a statisti come Bismarck, Lincoln  e Roosevelt. Tutti  “statisti di successo”: un “conservatore” e due “liberali”. Probabilmente, dal punto di vista politico, la verità è nel mezzo. E si chiama conservatorismo liberale. Non è il massimo… Ma non va dimenticato  che Bismarck pose le basi dello Stato Sociale e Lincoln e Roosevelt, rispettivamente, quelle della liberazione dei neri e di un’economia non attenta solo alle ragioni del profitto     
Tutte decisioni, ancora oggi, politicamente epocali.

Carlo Gambescia

(*) Sulla suddivisione (archici, micro-archici, ecc.) ci permettiano di rinviare il lettore al nostro Liberalismo triste.



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