I poveri sono democratici?
Sul piano politico non c’è nulla
di più inattendibile della mansuetudine
attribuita ai poveri o comunque della bontà innata che animerebbe i
ceti più bassi. Qui, il buonismo di stampo progressista, che celebra
la naturale propensione alla democrazia e alla tolleranza di
poveri, operai e disoccupati è totalmente fuori strada.
Una buona guida alla questione è rappresentata dalla classica opera di Seymour
Martin Lipset, eccellente politologo
americano scomparso nel 2006, L’uomo e la politica (1960), dove si
mostra in modo paradigmatico come
«isolamento sociale e culturale»,
«mancanza di sicurezza economica e psicologica» predispongano i «ceti più bassi
all’autoritarismo». Lasciamo la parola
Lipset:
«È
chiaro che tale insicurezza sociale
incide sulla politica e gli atteggiamenti di ciascun individuo. Un forte
stato di tensione esige uno sfogo immediato, e ciò si riscontra spesso nella
ostilità che si crea contro un capro
espiatorio e nelle ricerca di soluzioni a breve scadenza con l’appoggio di
gruppi estremisti. Gli studi infatti rivelano che i disoccupati sono meno
tolleranti verso le minoranze di chi ha
un lavoro, e più facilmente tendono ad essere comunisti se appartengono
al mondo operaio e fascisti se fanno parte della classe media». (S.E. Lipset, L’uomo e la politica, Edizioni di
Comunità, Milano 1963, pp. 116-117,
in particolare
pp. 99-137 (“L’autoritarismo della classe operaia”).
Si potrebbe pensare che l’analisi
di Lipset sia in qualche
misura datata, perché troppo condizionata dal “complesso di Weimar”
e dal clima della “guerra fredda”. In
realtà, il politologo americano, oltre a
spiegare il nesso tra deprivazione economico-culturale e antidemocrazia, individua alcuni tratti sociologici, molto
utili per analizzare e
comprendere un fenomeno in crescita come
quello del populismo anti-europeo.
Osserva Lipset:
«L’accettazione
delle regole della democrazia presuppone
un certo livello di cultura e un senso di sicurezza personale. Meno uno è disinvolto e sicuro,
più tende ad accogliere una visione semplificata della politica e meno riesce a
capire perché debba tollerare coloro con i quali non va d’accordo; del resto
gli riesce anche più difficile
comprendere o tollerare una visione gradualistica dei mutamenti
politici» (Ibidem, p. 118).
Insomma, si vogliono risultati, subito e a qualunque costo.
«Questo
risalto dato a ciò che è immediatamente percepibile, e questo interesse per ciò
che è personale e concreto, si spiega con la mancanza di prospettive di ad ampio respiro e con incapacità di
percepire le complesse possibilità e conseguenze della azioni umane: il che
spesso si traduce in una generale
predisposizione a sostenere movimenti politici e religiosi di carattere
estremista, e in un grado generalmente più basso di liberalismo sulle questioni
di natura non economica» (Ibidem, p.
122)
Riassumendo,
«Tutto
ciò favorisce la tendenza a vedere la politica e i rapporti personali in
termini di bianco o nero, crea un
desiderio di azione immediata, un’impazienza di parlare e di discutere,
una mancanza di interesse verso
organizzazioni che hanno prospettive di ampio respiro, mentre determina
nell’individuo la predisposizione a seguire capi che descrivono con sfumature
demagogiche le forze cattive (si apolitiche che religiose) che stanno
cospirando contro di noi » (Ibidem. p.
125).
Ora, se per un verso, Lipset
“smonta” il mito del povero, dell’operaio, del disoccupato, mansueti e quasi istintivamente democratici,
per l’altro mette in primo piano
la necessità della crescita economica e culturale, crescita che però, inevitabilmente, declina nei periodi di crisi. Di qui, l’emergere, ieri dei movimenti fascisti e comunisti, oggi, di quei populismi, nei quali è possibile rivenire i tratti sociologici, così ben individuati dallo studioso
americano. Ovviamente, per
l’Italia, qualsiasi riferimento al MoVimento Cinque Stelle non è assolutamente casuale…
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