mercoledì 31 dicembre 2014

Il libro della settimana: Martin Jay, Le virtù della menzogna. Politica e arte dell’inganno, Bollati Boringhieri 2014, pp. 272, Euro 25,00.  



http://www.bollatiboringhieri.it/scheda.php?codice=9788833924991



Se  nel   libro di Martin Jay, Le virtù della menzogna. Politica e arte dell’inganno (Bollati Boringhieri), si  prova a cercare “la” risposta  alla questione posta nel titolo,  la si può  trovare alle pagine 254-255. Leggiamo:
 «Tuttavia, per quanto permeabili siano i confini delle sfera del politico, al suo interno la ricerca della perfetta verità non è soltanto vana ma anche  potenzialmente  pericolosa. Perché, paradossalmente, l’immagine speculare della “grande menzogna” può essere l’ideale della “grande verità”, la verità assoluta e univoca che  mette a tacere chi non  la accetta e tronca ogni discussione. Entrambe sono nemiche  del pluralismo di opinioni e del continuo dibattito, del confronto tra valori e interessi diversi»

Ciò significa che

« il politico che segue in modo intransigente  le proprie convinzioni aderendo a quella che Weber chiama Gesinnungsethik, “etica  della convinzione” o “dei fini ultimi”, in ultima istanza può fare più danni di quello che pratica  un Verantwortungsethik , un’etica della responsabilità»

Dal momento che 

« la politica, a prescindere da come vogliamo  definirne l’essenza e limitarne i confini, non sarà mai una zona interamente libera dalla menzogna, una sfera di autenticità, sincerità, trasparenza e giustizia. E che in forse (…) in fin dei conti è una buona cosa»

Ora, il lettore si chiederà per quale ragione  recensire un libro partendo dalla chiusa… Insomma, perché svelare subito, il nome dell'assassino...  Perché parliamo di un saggio, non di un  giallo. E quindi per  onestà verso i possibili lettori.   Poiché, quel che deve essere  subito chiaro, è  che l’ottimo lavoro di Jay,  professore di storia delle idee alla Berkeley ( autore, sempre per i tipi di Bollati Boringhieri, di una eccellente  studio sulla Scuola Francoforte*),   non è adatto alle anime belle, tipo  il suo maestro: Henry Stuart Hughes, storico di Harvard ben noto per i suoi lavori  di italianistica, comunque rilevanti.  Insomma, chiunque si proponga di trasporre in politica, magari  manu militari ( perché i giustizialisti,  si sa, hanno sempre un lato oscuro…) i  criteri dell’etica assoluta, troverà pane per i suoi denti.  Perché   Jay, se ci si passa l'espressione, in quattro densi capitoli (inclusa l'introduzione), di elegantissima Intellectual History (**),  smonta il paradigma “buonista”, senza però mai scadere nel “cattivismo” programmatico, o se si preferisce nel cinismo a buon mercato. Naturalmente, per chi non conosca il modus operandi di Jay, parliamo di un libro complesso, metodologicamente impeccabile (un pastoso esempio di métier d 'historien),  non privo di sfumature, di prudenti antilogie e analogie, di taglienti  analisi linguistiche, nonché sapienti  rinvii alla tedesca  Geschichtliche Grundbegriffe.  Sempre però con il piglio del professore americano in cerca di nuove frontiere cognitive.  
Nell'  introduzione, (“Le virtù delle menzogna”) Jay si dichiara subito per un approccio realistico, assai distante dal mainstream puritano statunitense: da un lato, scrive,  va tenuta presente la natura umana per quel che è: ciò significa che  non si può ignorare l’ ineliminabilità  della menzogna dal cuore dell'uomo; dall’altro,  nota,  non si deve  mai dimenticare  che la politica non può farne a meno  a tutti i livelli,  perché  la menzogna, talvolta è  strumento difensivo del debole contro il forte.  Quindi prudenza con la ghigliottina dei valori  assoluti…  
Nel  primo capitolo (“Sul mentire”), dopo un dottissimo excursus negli ambiti della psicologia, della biologia, della sociologia, della linguistica, nell’ultima parte (“Menzogna e morale”), si propone un denso e paradigmatico confronto Kant-Constant: il primo, che aveva  osservato la Rivoluzione (francese) da lontano,  insiste troppo  sulla natura assoluta dell’etica ; il secondo, che invece  aveva visto  i giacobini all’opera, ne teme la geometrica arroganza.  Da un lato il rigorismo morale (monovalente, dunque impossibilista e pericoloso), dall’altro, la prudenza politica  (polivalente, quindi meno esclusiva e possibilista). Jay,  come vedremo,  rivaluta  Constant.
Nel  secondo  capitolo (“Sul politico”), che in qualche misura, per  ricchezza espositiva, è una specie di libro a parte, si approfondisce, prima del rush finale, cui abbiamo già  accennato,  il concetto di politico come essenza o, più moderatamente,  sfera autonoma.   Jay  prende in considerazione sei definizioni: 1) il politico come antagonismo amico-nemico (la politica come guerra tout court:  qui il protagonista  è Carl Schmitt, pur con molte, giuste,  riserve);2) il politico come agonismo (la politica quale ricerca di un equilibrio sempre instabile, come nel pensiero dei teorici della Ragion di  Stato, ma anche, curiosamente, in quello delle beghine  seguaci dello Stato etico. E qui fa si affaccia Hegel); 3)  il politico come contrattualismo (la politica  quale  pacifica negoziazione degli interessi: Hobbes, soprattutto Locke e la tradizione liberale); 4) il politico come governo del saggio (la politica quale  frutto dolciastro  di un  benevolo   elitismo cognitivo: qui, tra gli altri giganteggiano Platone e Leo Strauss); 5) il politico come virtù repubblicana (la politica quale  realizzazione maggioritaria del bene comune: da Machiavelli alla Arendt); 6) il politico  come estetica,  (la politica quale culto del bel gesto, anche collettivo,  e progressiva  deificazione di feticci sociali di volta in volta diversi:  dagli organicismi post-medievali alle rivoluzioni conservatrici novecentesche fino ai languidi tramonti dei decostruzionismi post-moderni  ).
Va da sé  che ogni definizione  rinvia,  oltre che a un sistema istituzionale,  al tortuoso rapporto tra politico e menzogna.  Argomento al quale è dedicato il terzo capitolo ( “Sulla menzogna in politica”). Precisazione importante: Jay, come abbiamo visto,  sembra  accettare la distinzione tra “politico” e “politica”,  ma - ecco il punto -  non  nei  termini di quel che giganteggia   in senso  metastorico (e  che  perciò  trascende la politica nelle sue manifestazioni storiche: il transeunte),  bensì di corpose,  durkhemiane, costruzioni culturali, o  almeno così sembra   All’approccio essenzialista di Schmitt e Freund (eccellente studioso, purtroppo  trascurato nel libro…), Jay oppone un costruttivismo  moderato.  Di che genere?  Cerca  di coniugare, l’essenzialismo di Schmitt,  il prudente cognitivismo  liberale di Constant, l’esigente repubblicanesimo ad alta intensità gnoseologica  della Arendt.  Vi riesce? Non vi riesce? Qui dovremmo sospendere  il giudizio… Perché  mettere insieme -  semplificando al massimo -   Schmitt (pure con le riserve di rito), Constant, Arendt è  roba da Rambo della Intellectual History. E come per il film di Ted Kotcheff, l’operazione può generare nello spettatore in sala  (qui studiosi e lettori)  reazioni opposte ed estreme:  o   di odio  o di amore. Diciamo però che a noi il "film" di Jay è piaciuto.  E comunque sia,  lo si  raccomanda  a tutti coloro che desiderino scoprire, da vicino, come lavora il perfetto storico delle idee.  Infatti,  al di là dei risultati -   buoni, comunque -   non si può non restare ammirati  dal “mestiere” di Jay: dalla  sapienza euristica  con cui prepara  il suo cocktail storiografico. Uno spettacolo nello spettacolo.          
Perciò riassumendo (anche rispetto alle conclusioni del  terzo capitolo): il politico (in senso di sfera autonoma) come lotta mortale amico-nemico accetta la menzogna come arma letale nella lotta per la sopravvivenza;  il politico come agonismo, vi aderisce, scorgendovi  un necessario  strumento diplomatico; il politico come contrattualismo, vive, spesso male,  la contraddizione tra una certa dose di ipocrisia, propria della prassi liberale, e il percepire se stesso come alternativa alla politica ipocrita: contraddizione che talvolta, si tenta di superare ricorrendo alla versione mano invisibile, per poter così  criticare,  dall’alto di un misterioso provvidenzialismo sociologico,  il moralismo in politica;  il politico come governo del saggio, suddivide invece le menzogne  rispetto alla loro capacità di favorire la conservazione del buon governo; il  politico  come virtù repubblicana è duramente  segnato dall’intreccio verità/menzogna: tra una verità coercitiva che discende dall’alto e una menzogna difensiva, liberatoria,  che vi si oppone dal basso. Che a sua volta, però, una volta istituzionalizzata,  può trasformarsi da difensiva  in oppressiva tirannia di una maggioranza composta di presunti deboli, e così via, lungo le strade della storia (ma può esistere una repubblica pluralista? La Arendt, dalle cui sapienti dissezioni concettuali,  Jay trae sostegno,  non sembra dare risposte esaustive); infine il politico  come estetica, sprofonda  nella menzogna  ogni volta che al simbolico, componente sociologicamente  necessario,  sostituisce l’immaginario. Per quale ragione? Perché correndo sulle ali della fantasia  ( magari con i pascaliani occhi bendati)   si finisce sempre  per sottovalutare un fatto importante:  le menzogne pronunciate nella sfera politica, a differenza di quelle dette o scritte nella sfera   “letteraria”,   hanno sempre conseguenze reali. E, se credute ( o "bevute")  fino in fondo,  possono  uccidere uomini in carne e ossa...
Sicché, conclude saggiamente Jay, «forse il meglio che si possa sperare in politica è un calcolo morale utilitaristico, analogo alla casistica probabilistica che tanto suscitava sdegno nei rigoristi giansenisti e puritani, il quale soppesa le diverse trasgressioni e consente che il politico consapevolmente e con coraggio prenda su di sé il gravoso onere di sporcarsi le mani  per una causa superiore. La riposta di Constant all’assoluta proibizione kantiana  della menzogna, anche se non applicabile  in tutte le circostanze, è tuttavia valida per il politico, il quale non può  separare facilmente, se mai può farlo del tutto, il mondo noumenico dal mondo fenomenico, il mondo dei principi dal mondo degli effetti. L’interazione, ovviamente, precede nelle due direzioni».
C’è da aggiungere altro? Sì, leggete il libro di  Martin Jay.

Carlo Gambescia       
                              


(**)  Per un bilancio critico del  pensiero di Jay  si veda The Modernist Imagination: Intellectual History and Critical Theory: Essays in Honor of Martin Jay, curato da  cinque suoi ex allievi Warren Breckman, Peter E. Gordon, A. Dirk Moses, Samuel Moyn, and Elliot Neaman.  Per un bilancio critico del bilancio critico, anche se a volo di uccello,  si veda qui: http://www.h-net.org/reviews/showrev.php?id=26129

martedì 30 dicembre 2014

Ipotesi
Lavorare meno, lavorare tutti? O non lavorare affatto? O lavorare troppo? 
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Capitalismo e società del non lavoro


Partiamo dalla possibilità di realizzare una società del non lavoro all’interno del quadro economico e sociale capitalistico, segnato dalla continua innovazione tecnologica. Strada, sia detto subito, non facilmente praticabile.

Innanzitutto sarebbe assai ingenuo puntare sul ruolo salvifico del progresso tecnologico. Dal momento che i processi di innovazione non sono qualcosa di socialmente neutrale. Perché, di regola, vengono gestiti all’interno del quadro di rapporti gerarchici e di potere esistenti, di cui riproducono le stratificazioni. Pertanto l’uso sociale dell’innovazione tecnologica resta ancorato ai rapporti di classe, o di ceto, per usare in terminologia più soft. Senza poi considerare il fatto che il capitalismo per riprodursi ha necessità di tassi elevati di crescita ( e non di decrescita…).

Di conseguenza nel capitalismo l’innovazione tecnologica, per un verso è usata dalle élite dominanti per ridurre i costi; per l’altro viene “spalmata” sulle esistenti gerarchie sociali, nonché collegata alle esigenze di continuità del sistema. In buona sostanza, l’obiettivo è quello di tagliare le spese per il fattore lavoro, ma senza provocare consistenti mutamenti e/o sommovimenti sociali ed economici. Insomma, anche se in camice bianco e seduti davanti allo schermo di un computer si resta operai, condannati a lavori ripetitivi e spesso poco retribuiti. Quanto alla gestione della manodopera, il “sistema” può ricorrere, come già sta avvenendo, a un mix di flessibilità, allungamento dell'età pensionabile, immigrazione, delocalizzazione, welfare minimale, sorveglianza sociale e consumismo. Legando così, a scopi di controllo sociale, il produttivismo al divertentismo a buon mercato, se ci si passa l'espressione. Si tratta di un meccanismo imperfetto, moralmente discusso e discutibile, che tuttavia funziona. E che nelle sue linee pratiche, anche se criticato dagli intellettuali anticapitalisti, resta gradito - piaccia o meno - alla maggioranza della gente comune in Occidente e invidiato o ambito nel resto del mondo. Non è sicuramente la quadratura del cerchio, ma vi si avvicina...
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Socialismo e società del non lavoro

Secondo altri la società del non lavoro potrebbe tuttora nascere in un quadro economico e sociale completamente diverso: di gestione socialista dell’innovazione tecnologica. Tuttavia anche in tale circostanza, resterebbe sempre la questione che l’uso sociale della scienza, anche se rivolto al progresso tecnologico disinteressato, implica sempre al suo interno lo sviluppo di gerarchie di scienziati, esperti ed organizzatori: uomini che continuerebbero, oggettivamente, a comportarsi come membri di una casta.
Di conseguenza il punto "sociologico" della questione è che ogni specializzazione rinvia a una gerarchia di dipendenze esterne ed interne al gruppo sociale che la gestisce: una società più è articolata, più si regge su una stratificazione sociale complessa. Che, a sua volta, si compone di numerosi gruppi ed élite, poste ai vari livelli della scala sociale delle professioni. Gruppi ed élite con i quali anche in una società socialista in transizione verso forme comuniste, il potere politico (la élite delle élite, che tende sempre a ricostituirsi) non potrebbe non contrastarsi al suo interno. A che scopo? Ma per individuare il giusto mix di socialismo e produttivismo: una miscela, come mostra la tragica storia del comunismo novecentesco, non sempre facile da “scoprire”, soprattutto in una società che si voglia pretenda fondata non sul profitto ma sulla liberazione dal bisogno. Una società che perciò non potrebbe rinunciare, proprio per lo scopo titanico che si propone, a buone basi di crescita economica. Le cui modalità, come è noto, implicano però divisione del lavoro e forme, anche larvate, di profitto e di redistribuzione del medesimo. Per farla breve: una impossibile quadratura del cerchio…

Decrescita e società del non lavoro


Secondo altri ancora, una terza possibilità di società del non lavoro, potrebbe essere rappresentata dalla rinuncia a ogni tecnologia come a ogni bisogno di tipo consumistico: una società della decrescita.

Una scelta del genere però imporrebbe non solo una profonda rivoluzione culturale in chiave anti-materialistica (dalle "modalità" sociali tutte da scoprire...), ma anche la necessità di produrre comunque mezzi economici e militari per fronteggiare le restanti società del lavoro. Le quali non vedrebbero sicuramente di buon occhio, nel quadro di un capitalismo mondiale ancora dominante, una società che scegliesse volontariamente la decrescita, violando l’ “alleanza” capitalistica de mercati. Certo, va giustamente presa in considerazione anche l'ipotesi di una simultanea conversione alla decrescita e al non lavoro di tutte le società. Ma in che modo? Anche qui le "modalità" sociali sarebbero tutte da scoprire... Pacificamente? Le rivoluzioni, anche se permanenti, non sono mai indolori. E la decrescita - ripetiamo - includerebbe anche quella delle forze armate e dell'industria pesante? Come riuscire a far quadrare il cerchio ?

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Concludendo...

Per non complicare le cose abbiamo lasciato fuori dalle nostre riflessioni la questione del rapporto tra religione e politica a proposito, ad esempio, delle varie dottrine sociali; questione che avrebbe condotto troppo lontano.
Ci limitiamo, infine, a porre alcune domande sul problema della rappresentanza o forma politica: liberalismo e democrazia parlamentare sono conciliabili con la società del non lavoro e della decrescita? La società del non lavoro e della decrescita si accorda con il socialismo? Liberalismo e socialismo sono conciliabili con la critica all'idea di sviluppo? Oppure no? Esiste un liberalismo sobrio, privo di ricadute consumiste e mercatiste ? Esiste un socialismo non materialista e antiburocratico.
Come si può notare, i problemi non sono pochi e facilmente risolvibili. Certo, resta sempre la possibilità del "cataclisma" sociale, che alcuni avventurieri delle idee addirittura auspicano. Ma da una società "post-catastrofe", basata sul ritorno all'autodifesa, sulla paura vera, e distinta dall'uso della forza allo stato puro, che tipo di sistema economico e sociale potrebbe nascere?


Carlo Gambescia 

lunedì 29 dicembre 2014

La sinistra delle tasse
Mancava solo Tito Boeri all’Inps




La sinistra è solo tasse, tasse, tasse. Gli italiani imbevuti di  cultura familistica da questo orecchio sembrano non sentire: credono nella favoletta dello stato-provvidenza ed, eventualmente, nella possibilità dell’ evasione-fa-da-te.   Né,  a dire il vero, la destra politica ed  economica mostra maggiore maturità , perché da sempre è  in prima linea -  politici,  grandi e piccole imprese, partite Iva, perfino gli ambulanti - per papparsi, appena si presenta l'occasione, finanziamenti pubblici a pioggia: da quello ai partiti agli  sconti-Fiat  fino ai contributi per l’imprenditoria giovanile (o meno) e per la salvaguardia degli asinelli pugliesi...
Insomma,  un quadro disastroso. Non si salva nessuno. In Italia un movimento dello stesso vigore del  Tea Party  non sorgerà mai. La nostra,  a differenza degli Stati Uniti, è la nazione  dell’Individualismo Protetto e degli sprechi di denaro pubblico, delle partecipate, delle convenzioni sanitarie. E, ovviamente, della conseguente corruzione.  
Per uscirne vivi  lo  stato dovrebbe fare un bel  passo indietro. Ma i primi a non volerlo sono proprio gli italiani che ingenuamente  credono  nella  favoletta delle tasse a fin di bene. Il nostro  è il  paese del "lavoro per la pensioncina", "pochi ma sicuri"...   E così   si  nazionalizza l’Ilva  e si nomina  alla presidenza  Inps Tito Boeri, economista di sinistra dal grilletto contributivo  facile.  Invece di sciogliere un immondo baraccone pubblico che succhia denaro ai cittadini,  per tornare alle mutue associative, professionali  e volontarie,  Renzi  (che da  uomo di sinistra ha le tasse nel Dna),   lo  regala a  un fanatico del contributo di solidarietà.    Si legga qui, come Boeri  vuole sanare lo “squilibrio” della macchina mangiasoldi di via dell’Amba Aradam:   

«Potrebbe perciò essere preferibile operare con progressività, avendo aliquote che crescono con l’importo della pensione. La progressività dovrebbe però essere molto marcata (giungendo a chiedere un contributo sullo squilibrio fino al 50 per cento per le pensioni più alte) per raccogliere più di 4 miliardi di euro.
In particolare ecco come potrebbero essere strutturate le aliquote :
- 20 per cento dello squilibrio su pensioni tra 2mila e 3 mila euro
- 30 per cento dello squilibrio su pensioni tra 3 mila e 5 mila
- 50 per cento dello squilibrio su pensioni superiori 5 mila»

Capito?  Poveri noi.
Due  cose, infine.
La prima:  Che ne pensa il professor Bagnai? Bene, di sicuro. Visto che si tratta di un compagnuccio  di banco (politico).
La seconda: il principio di progressività  è roba da socialismo reale, introdotta nella Costituzione dai cattocomunisti  per mitologiche  ragioni punitive verso il  “grande capitale”.  Anche se, a  dire il vero,  non dispiaceva e dispiace  anche ad alcuni politici ed economisti liberali (macro-archici, di sinistra).  Nessuno è perfetto. Purtroppo. 

Carlo Gambescia


  

sabato 27 dicembre 2014

La morte di Enrico Mattei nel giudizio (sintetico) di un grande giornalista
Montanelli  e  Gomulka  
di Carlo Pompei


Ho intervistato l'infermiera personale di Indro Montanelli quando il giornalista più famoso e contestato di Italia per il suo carattere (e per le sue mai nascoste simpatie politiche) venne costretto a letto con una gamba fratturata. Montanelli si ruppe un femore, il destro, ovviamente. Egli era reduce da una rovinosa caduta dalla bicicletta che usava per spostarsi tra i set cinematografici di Cinecittà. Il suo fedele cane - Gomulka (1) - gli aveva attraversato la strada (nella foto sono insieme a Cortina). Era una femmina, probabilmente il 4 zampe più amato dai propri padroni: 600 lire al giorno di riso con macinato di manzo. D'altronde pagava la Cineriz di Angelo Rizzoli...
In quei giorni d'agosto caldissimo del 1962 (2) Montanelli seguiva le riprese del suo "I sogni muoiono all'alba" (3), film non troppo riuscito sulla rivoluzione ungherese: la critica non perdonò all'autore di non aver voluto delegare la regia della trasposizione cinematografica dell'omonima rappresentazione teatrale del 1960. 
La sua infermiera abitava in via Panisperna, non lontano dall'appartamento dove pochi anni prima i "ragazzi" di Enrico Fermi elaboravano e sperimentavano teorie atomiche (4). Ogni giorno una automobile della Cineriz passava a prenderla e a ricondurla a casa. Il boom economico lo consentiva.La degenza si prolungò e, fatta salva una pausa a Cortina, Montanelli volle che ella gli prestasse ausilio finché non gli fosse stata rimossa la steccatura metallica post gesso.
Qualcuno malignò, ma Giovanna (l'infermiera) era simpatica anche a "Donna Letizia", pertanto...

Fu così che una mattina di fine ottobre, per la precisione il giorno 28, l’amata Gomulka portò i giornali a Montanelli e lui, insolitamente, lesse il titolone di prima pagina a voce alta. Ma non fu per le ricorrenza della Marcia su Roma e neanche per la incredibile coincidenza della distensione USA-URSS sulla baia dei porci.
La sera stessa, siccome era domenica, anziché della macchina della produzione, si presentò un ragazzo alla guida di una Giulietta fiammante: il "piacione" faceva il filo all'infermiera con l'automobile dell'agenzia di viaggi per la quale lavorava, la "Colosseum". La sposò l'anno successivo, nel 1963. Montanelli e Colette li salutarono, c'era anche Angelo Rizzoli quella sera. Il ragazzo, da umbro ex seminarista si improvvisò improbabile "romano de roma": "Buonasera dotto', che ne pensate?", disse battendo le nocche sulla prima pagina del giornale, usando una gestualità non abituale. "I sogni muoiono all'alba... sempre..." rispose il giornalista. Rizzoli alzò le spalle. La sera precedente era precipitato l'aereo (5) di Enrico Mattei... 


Carlo Pompei


Post Scriptum
Una sorella di mia madre, Angela, lavorava presso la clinica Villa Lidia, ove Montanelli fu ricoverato per essere ingessato (come una mummia, dicevano le comparse). Quando fu richiesta assistenza personale, mia zia fece il nome di mia madre. Ah, le raccomandazioni...
Il "piacione", invece, è mio padre, oggi hanno entrambi 80 anni e sono sposati da 51. Hanno un ottimo ricordo delle persone citate. Non sono mai stato raccomandato, nonostante Montanelli contraccambiasse la stima.
Gomulka morì nel 1966, il mio anno di  nascita.  Non è  strano che  io mi chiami  Carlo?

5) http://www.disinformazione.it/enrico_matei.htm


Carlo Pompei, classe 1966, “Romano de Roma”. Appena nato, non sapendo ancora né leggere, né scrivere, cominciò improvvisamente a disegnare. Oggi, si divide tra grafica, impaginazione, scrittura, illustrazione, informatica, insegnamento ed… ebanisteria “entry level”.


venerdì 26 dicembre 2014

Un  bel  libro di Gianni Statera sul Cavaliere uscito nel 1994
Aveva capito tutto



Quando si dice  gli amici me li scelgo io, eccetera, eccetera... L’amico Carlo Pompei mi ha passato un ottimo libro su Berlusconi, da lui curato graficamente (in modo splendido tra l’altro), che avevo dimenticato. Scritto in tempi non sospetti da Gianni Statera (nella foto), si intitola Il volto seduttivo del potere. Berlusconi, i media, il consenso (Edizioni Seam 1994),  Statera, scomparso  nel 1999, ha insegnato sociologia, e va ricordato, tra le altre cose,  per un aureo libretto,  La politica spettacolo (Mondadori 1986),  in cui poneva  le basi,  senza neppure sospettarlo, del successivo studio  sul Cavaliere,  che di  lì a qualche anno si  sarebbe improvvisamente  materializzato sulla scena politica come una specie di   “cavia” sociologica  perfetta.
Statera, aveva praticamente capito tutto già nel 1994, anticipando gli argomenti che  hanno distinto  il dibattito pro e contro Berlusconi  nei successivi  venti anni..  Nel libro si parla  non solo  del Cavaliere quale   autentico mago  nel “ramo” della personalizzazione politica,  ma anche del controproducente atteggiamento  dei suoi avversari, intriso di supponente superiorità intellettuale e politica.   E questo molti  anni prima del fin troppo celebrato volume di Ricolfi, anno di grazia 2005 (Perché siamo antipatici? La sinistra e il complesso dei migliori, Longanesi). Scrive Statera: 

« Insomma nella sua  straordinaria impresa, Berlusconi ha avuto come alleati “oggettivi” (come una volta si diceva a sinistra) molti dei suoi avversari, sorprendentemente incapaci di cogliere la logica elementare della cultura di massa e della politica-spettacolo, assurdamente pronti a sparare sul Cavaliere ricorrendo a temi polemici che finivano per rivolgersi contro una larga fetta di quegli italiani da cui si sarebbero dovuti aspettare il voto. Incapaci, ancora, di capire che ormai è un dato decennale quello dell’identificazione della politica con l’intrattenimento televisivo, con il suo peculiare linguaggio che rifugge da tono aggressivi, ultimativi, intellettualisticamente arroganti» (Il volto seduttivo del potere, p. 15).

Certo, il  vincere, come poi è accaduto, non implica il saper governare:  Berlusconi ha deluso.  La politica-spettacolo, il sedurre,  come riconosce anche Statera,  non è tutto.   Però, la stessa coalizione di trogloditi politici, sembra   ci stia  riprovando con  Renzi…   Insomma, non hanno capito la lezione.  Che tristezza.   

Carlo Gambescia

P.S. Per approfondire il pensiero di Gianni Statera attraverso i suoi libri:  https://www.ibs.it/libri/autori/Gianni%20Statera 

mercoledì 24 dicembre 2014

 Natale  amaro per romani che non lo hanno votato
Marino non molla


Marino, il sindaco-medico (solo per questo  i romani non avrebbero dovuto votarlo, evidentemente si ammalano poco…) non molla. Per  ragioni che sfuggono ai più, nonostante gli scandali   è ancora in sella. Una vergogna.  E questo è il primo motivo di amarezza per i romani   che non lo hanno votato.
Il secondo,  è nel modo di procedere  di una magistratura a senso unico,  che ha  giustamente  indagato Alemanno e massacrato  la sua corte di neofascisti arricchiti a spese del Comune,  dimenticandosi però di approfondire i più che evidenti legami politici  con le  giunte precedenti. Di sinistra. Una vergogna.
Il terzo motivo è la cattiva prova di sé che ha dato e sta dando la destra romana nelle varie componenti (berlusconiane e non) divisa, rissosa, corrotta.  Una vergogna
Il quarto motivo  è nelle condizioni in cui versa la città: sporca, strade dissestate, male illuminate, servizi scadenti nonostante le tasse altissime. Una vergogna.
Nella foto Marino e i nuovi assessori  ridono.  Che cazzo ci sarà da ridere?  O forse sì...  E anche questo è motivo di amarezza.
Buon Natale a tutti? Mah…
Carlo Gambescia    
   

martedì 23 dicembre 2014

 La sentenza di un  giudice argentino
Per favore,  non prendete
in giro gli animali…



Certe notizie fanno saltare sulla sedia. Un giudice argentino ha esteso l’habeas corpus a Sandra un simpaticissimo orango femmina dello zoo di Buenos Aires,  dichiarandolo “soggetto non umano” con “sentimenti e capacità di prendere decisioni”. Sicché a breve, probabilmente, verrà liberato (*).
Sul fatto  che   vedere  un animale   vivere  in cattività non sia  un bello spettacolo non ci piove. Qui però cominciano i problemi.  C’è chi , come  il giudice argentino, ritiene che dal un punto vista procedurale, l’unico sistema per liberarlo, sia  dichiararlo titolare di diritti soggettivi.  Ragionamento che dal  punto di vista legale non farebbe una grinza.  Se  non che  sul  fatto che un animale oltre a una capacità giuridica, per così dire, attribuita dall’alto (e non conquistata intenzionalmente dal basso come prova la storia politica dell’habeas corpus),  possa poi disporre, come per incanto,  anche di una capacità d’agire,  sono in molti a nutrire dei dubbi.  Anche perché,  come prevede la legge, per Sandra sarebbe allora  necessario un tutore… Però, ecco il punto,  quel che può valere per un essere umano, che con la maggiore età, conquista la piena capacità d’agire,  può valere per un animale?  Sul piano giuridico, quando si parla di capacità decisionale, ci si riferisce alla capacità di porre in essere atti giuridici validi (comprare, vendere, eccetera). Che alcuni soggetti, come anticipato, acquisiscono con la maggiore età, altri invece mai,  per ragioni di deficit intellettivo, di salute, eccetera.  
Quindi dal punto di vista strettamente giuridico  un animale, per quanto dolce, simpatico e fedele, sembra destinato a restare (ed essere legalmente considerato) un  minus habens  per tutta la vita. Insomma,  la decisione del giudice argentino di attribuire a Sandra  una condizione di soggettività giuridica suona come una presa in giro.  Certo, gli animali non se ne accorgono, ma non è  bello stesso...
Perché allora, non fare un passo indietro e chiamare il tutore, padrone?  Ed eventualmente, continuare a proteggere gli animali dai maltrattamenti, per semplici ragioni umanitarie (dipendenti dall’uomo) dei cattivi proprietari?  Che c’entra l’habeas corpus?

Carlo Gambescia


lunedì 22 dicembre 2014

Al via la "corsa"  per  il Quirinale 2015
La destra  di Gresham  
senza candidati credibili



 Dal punto di vista della destra  liberale e democratica (escludendo i  centristi troppo morbidi e i populisti di ispirazione neofascista e leghista, impresentabili),  il  vero problema “strutturale”  sul  Colle, crediamo sia  quello  di non aver alcun candidato all’altezza della situazione:  né dal punto di vista politico  né culturale.Attenzione: problema strutturale,   nel senso che qualora  la destra avesse  i voti  per vincere,  non avrebbe comunque alcun  nome credibile da insediare al Quirinale.
Dei famosi professori di Berlusconi -   nell’ottica di una presidenza  einaudiana, "culturale" (non strettamente politica) -   si sono ormai perdute le tracce: alcuni sono morti (Colletti, Melograni), altri sono tornati agli studi (Rebuffa, Mathieu). Resterebbero  Pera e Martino, culturalmente validissimi, ma sui quali -  non se ne abbiano a male -  pesa l’ombra lunga del  dilettantismo politico (*).  Forse il solo professor Antiseri avrebbe tutte le carte in regola… Ma, da  quel che sappiamo, sembra da  anni  soffrire  di orticaria politica.  E per sposarsi (anche politicamente) si deve essere in due.   Quanto a  possibili candidati  baciati dalla fortuna mediatica come Sgarbi e altri  intrattenitori   non vale  neppure la pena di parlare.
Nemmeno esistono possibili candidati "politici",  della caratura  -  ma “posizionati” a destra -   di  Saragat, Pertini,  Cossiga.  La destra, in fondo, non possiede neanche  "tecnici"  - dello stesso livello -  di un Ciampi. Il corteggiatissimo professor  Cassese, che sembra piacere anche  a Berlusconi,  è sponsorizzato  dal centrosinistra.  Quanto a Monti, meglio stendere un velo pietoso (anche se in politica, mai dire mai…)  
Perciò non avendo alcun “suo”  candidato “forte” :   capace, pur essendo dichiaratamente di destra,  di imporsi  per “chiara fama”  e/o accreditate  capacità politiche, la destra sarà costretta a ripiegare, dopo aver magari  indicato un  puro candidato di  bandiera (magari qualche Yes Man  di Forza Italia),  su  nomi  di compromesso indicati dagli avversari.  Insomma,  ad andar  di lusso, la destra  rischia fortemente  di ritrovarsi  sul  Colle  un cerchiobottista di sinistra.   
Concludendo, per la destra  la questione non  è  istituzionale né politica, bensì  culturale.  Nel senso, se ci perdona la caduta di stile, di non avere  uno straccio di candidato "intellettualmente" credibile - per capacità e preparazione -  sul quale puntare prendendo in contropiede il  centrosinistra e costringendolo a trattare su  un nome friendly, ma di destra...  E qui non basta prendersela con  l’egemonia culturale della sinistra, bla bla bla.  Evidentemente,  c’è qualcosa che non funziona nel Dna di una destra, che definiremmo alla Gresham, dove la moneta cattiva  finisce sempre per scacciare quella buona…   
                                                                                                                        Carlo Gambescia    

 (*) Nel senso, per essere chiari, non della faciloneria,  ma  dell' "atleta"  politico, che "pratica" senza  fini di  lucro...              .               

domenica 21 dicembre 2014

Pessimismo cosmico  dell’Ansa  sulle “feste senza vacanze”

Continuiamo a farci del male

  

Ecco il titolo Ansa di oggi sugli spostamenti degli italiani in occasione delle festività. Per chi  lo ignorasse, l'Ansa  per importanza  è  la prima agenzia stampa italiana:


Feste senza vacanze per 48 milioni di italiani

Natale e Capodanno di crisi, solo 11,8 milioni si muoveranno

 http://www.ansa.it/web/notizie/canali/inviaggio/news/2014/12/20/feste-senza-vacanze-per-48-milioni-di-italiani_10b18326-1aa7-44f7-8f21-040c76da88d0.html

 

Se poi si va a leggere si scopre  che in realtà rispetto allo stesso periodo del  2013, gli italiani sono tornati  di nuovo  a viaggiare, soprattutto all'estero.  I numeri - come si può facilmente rilevare  -  sono incoraggianti. Certo, la crisi persiste, però…

Perché allora un titolo leopardiano? Masochismo italico? Cattocomunismo pauperista? Crisi di identità (brutto segno) dei padroni del vapore?  Desiderio, stupido, di non fare sconti a Renzi?  Pigrizia redazionale? Imbecillità pura e semplice? 

Di sicuro,  si tratta di una scelta comunicativa controproducente che non fa bene all'Italia. Del resto l’Ansa è in buona compagnia, perché la stragrande maggioranza dei  giornali di oggi, più o meno,  ha riciclato lo stesso titolo.

Che dire? Ennesima puntata della serie (antropologica) continuiamo a farci del male…   

                                                                                                                    Carlo Gambescia

sabato 20 dicembre 2014

A proposito del post di Carlo Pompei
Mano visibile o invisibile?



Ha  un qualche  senso  parlare ancora  di comunismo e fascismo?  A questo pensavo leggendo il notevole post di  Carlo Pompei (che non intendiamo qui criticare, anzi...). 
Crediamo però che il problema debba essere  posto in maniera diversa e  radicale, principalmente sul piano cognitivo.   Esiste la possibilità di costruire un ordine sociale e politico "a tavolino"? Insomma  ex ante ?   Dietro i fenomeni sociali c’è un’ intelligenza sociale collettiva?  E se esiste è visibile, cumulabile, gestibile?  Oppure, esiste sì,  una qualche mano, che però resta   invisibile e insondabile, perché  frutto delle imponderabili  micro-decisioni di milioni di uomini,   micro-scelte che acquisiranno senso soltanto nel tempo: non prima ma dopo "l'evento storico" . Ex post, per riparlare difficile...  
Ad esempio,  il capitalismo, piaccia o meno,  non è stato inventato a tavolino da nessuno. Si è sviluppato nel corso di alcuni secoli interagendo con una letteratura di riflessione  a posteriori. Parliamo di un sistema economico che si è formato  attraverso un  lento  e complicato processo di evoluzione-selezione. Comunismo e fascismo invece sì.  Soprattutto il primo  resta il prodotto di una riflessone a priori.  Il fascismo invece  ha saccheggiato la  letteratura esistente ( comunque  ex ante)  in corso d’opera. Mentre  il nazismo aveva la  sua bibbia, quella  hitleriana.  Infine,  il discorso "costruzionista" potrebbe essere  esteso anche alle democrazie di welfare, dove  sembra  dettare  legge  la  modellistica sociale.  
Ovviamente, il costruttivismo non va confuso con le forme di organizzazione derivanti da libere convenzioni, patti  e contratti,  quali singole risposte  a singoli  problemi organizzativi, come nel caso di un’impresa, di un ente caritativo, di una società di studiosi, di una cassa professionale. Il costruttivismo, invece, si presenta sempre come la risposta organizzativa  collettiva  a tutti i problemi.  Insomma, c’è una bella differenza… Il convenzionalismo, piaccia o meno,  rinvia agli uomini liberi, il costruttivismo ai burocrati.  
Naturalmente, sulla bontà dei processi sociali  a mano  visibile  e invisibile,  possono essere dati giudizi politici diversi se non del tutti opposti…  Però il problema cognitivo rimane:  i processi di costruzione politica e sociale possono essere diretti oppure no?

Carlo Gambescia



venerdì 19 dicembre 2014


Ipotesi personali sul passato che non passa
Fascismo e Comunismo
di Carlo Pompei


Comunismo e Fascismo




Oggi affrontiamo un argomento spinoso, cercando di andare oltre la semplice (si fa per dire) contrapposizione destra-sinistra.
Abbiamo notato che il Fascismo fa ancora paura, tanto da aver bisogno di  un antifascismo anacronistico, mentre il Comunismo genera sentimenti emotivamente distaccati rispetto a quelle che erano le pulsioni del primo e secondo dopoguerra o degli anni '70 del '900.
Proviamo a capirne i motivi. 
Sicuramente le durate, cioè la diversa longevità, influiscono sul giudizio: il Fascismo, specialmente quello originario, quello pensato e proposto da Mussolini e dai suoi in Italia durò ufficialmente venti anni, più qualche cosa se si considerano i movimenti preparatori post prima guerra mondiale.
Quello più longevo, il Franchismo spagnolo, ebbe modo di aggiustare il tiro. Tuttavia, tra le non poche critiche internazionali, tanto da trasformarsi con il tempo in anticomunismo, conservava metodi e modalità brutali.
Il Comunismo, invece, durò circa 70 anni (lo diamo per morto nel 1989), passando per le sue varie declinazioni, più o meno contraddittorie, del principio cardine iniziale della ideologia concepita da Carl Marx.
Marxismo, leninismo, trotskysmo e stalinismo (per non parlare di tutti gli altri, da Mao a Pol Pot a Fidel Castro) furono adattamenti dettati da esigenze locali e mentalità "parallele", a volte disoneste e con metodi che non avevano nulla da invidiare al franchismo. In Italia Gramsci, Togliatti e Berlinguer alla guida del PCI furono gli interpreti principali e scrissero anch’essi un'altra storia ancora (in tutti i sensi).
Fu, insomma, un continuo ricalibrare che, nel tentativo di accontentare tutti, probabilmente non accontentò nessuno, se non - paradossalmente - soltanto la sua classe dirigente. In questo, quindi, l'idea primigenia - seppur valida in alcune sue letture di una società che si andava via via facendo sempre più complessa - esaurì la propria spinta propulsiva, contaminata o inquinata da parametri che cozzavano con la corretta messa in pratica dei principi fondanti, ivi compresa la socialdemocrazia di ispirazione marxista. Il fatto stesso di aver attraversato più di una generazione, senza soluzione di continuità, ha forse contribuito alla sua dissoluzione.
L'imbarazzo malcelato che generano nelle masse gli eredi impropri di quella "dottrina" è evidente anche ad occhi non troppo critici e preparati. La caduta del muro di Berlino rimane un simbolo troppo forte ed invadente per essere ignorato. Fu un colpo troppo grave per i sostenitori dell'URSS e, in Italia, per le casse del PCI. Ancora oggi parlano di complotto al cui vertice ci fu addirittura Papa Giovanni Paolo II e il suo sostegno a Solidarnosc in Polonia. Ipotesi "papabile", ma che, evidentemente, non assolve dalle troppe colpe cumulate negli anni dai propugnatori di una idea alla fin fine utopistica.
Il Fascismo, invece, quella spinta non l'ha mai esaurita. In primis perché la sua caduta fu violenta ed esplosiva, quindi per certi versi "eroica", a differenza di quella comunista che fu implosiva e passiva, come già detto. In secondo luogo perché il Fascismo ha un suo "fascino maledetto", attira fasce di giovani cui piacciono simboli immortali, eroi mitologici e battaglie per la conquista del mondo. Dalle due cose combinate scaturisce quella ipotesi filo nietzscheana che tante discussioni ha animato anche in questa sede.
Infantile? Può darsi. Sta di fatto che, ciclicamente, torniamo a parlarne: è innegabile che la conquista del mondo sia il gioco preferito dagli uomini adulti. 
È da rilevare che spesso si definisce "fascista" ciò che non lo è affatto, come ad esempio il neofascismo, che non ha nulla da condividere con il principio sansepolcrista. Principio già tradito, peraltro, anche dal fascismo mussoliniano della seconda ora.
Inoltre il Comunismo non disdegnava affatto la guerra nei fatti, come invece  vorrebbero far credere i suoi ultimi sostenitori: la carne da cannone dell'Armata Rossa di Stalin, seppure in nome di  un  riscoperto principio di nazione, racconta un’altra cosa; il Fascismo, diversamente, esaltava la guerra come principio valoroso ed eroico,  funzionale, come è noto,  a un motivo nazionalista.
Che, al di là del fascismo e del comunismo,  sia  l’idea di nazione, che muove i popoli dal profondo?  

Carlo Pompei



Carlo Pompei, classe 1966, “Romano de Roma”. Appena nato, non sapendo ancora né leggere, né scrivere, cominciò improvvisamente a disegnare. Oggi, si divide tra grafica, impaginazione, scrittura, illustrazione, informatica, insegnamento ed… ebanisteria “entry level”.

giovedì 18 dicembre 2014

Il libro della settimana: Gary B. Gorton, Perché non vediamo le crisi,  pref. ed. it. di Paolo Mottura, Franco Angeli, 2014, pp. 288, Euro 33,00. 


http://www.francoangeli.it/Ricerca/scheda_libro.aspx?CodiceLibro=1420.1.163


Finalmente un libro che non delude  sulle ragioni profonde della crisi economica:  Perché non vediamo le crisi (Franco Angeli). Scritto da Gary B. Norton, già consulente della Federal Reserve e professore di Management e Finance  presso la Yale School of Management. A dire il vero, si tratta di  un volume molto ricco, perché non parla solo dell'oggi , dal momento che  offre  almeno tre  piani  di lettura.
Il primo, “generalista”,  più vicino agli  interessi  del  lettore medio, curioso di capire le ragioni  del  terremoto economico. Il secondo, metodologico, rivolto agli economisti, che stuzzicati dal titolo, vogliano mettersi in discussione. Il terzo,   invita a riflettere, e criticamente,  sulle spiegazioni facili-facili della crisi ( e delle crisi) avanzate  da giornalisti e attivisti politici.  Procediamo per gradi.
Quali ne sono le cause?  Le banche, di regola,  producono debito a breve termine per finanziare l’economia; debito che viene garantito attraverso  l’emissione di “collaterale”, ossia  titoli di vario genere.  Però, ecco il punto,  non  può esistere collaterale senza rischi. Di qui, la vulnerabilità del debito bancario, sul quale pende ( e penderà)  sempre  la spada damoclea  del dubbio ciclico  del  depositante sulla qualità del collaterale. Insomma,  una crisi finanziaria, osserva Gorton,  “nella sua forma più pura è una fuga dal debito bancario, una corsa agli sportelli o ai riscatti”.  Si tratta di “un problema connaturato nelle economie di mercato”(p. 35). Concludendo,  e per venire all'oggi,  la crisi  è scoppiata perché, le banche hanno emesso troppo collaterale di rischio, favorite - altro nodo -  da  una  politica (si parla degli Stati Uniti) tesa a  finanziare lo sviluppo attraverso l’offerta (borsa, detassazione, prestiti facili) e non mediante  la domanda (investimenti pubblici e redistribuzione del reddito). Dopo di che,  la crisi finanziaria,  estendendosi ad altri settori,  si è fatta "sistemica", con quei  risultati  che ora sono sotto gli occhi di tutti.  
Per quale ragione è divampata  nel 2007 e non prima?  Perché 1) il collaterale aveva superato i valori reali, grazie anche al combinato disposto 2) tra  tecnologie procedurali e informatiche, rispettivamente  sempre più rischiose e  veloci.  A tale proposito, Norton, definisce  il periodo precedente alla grande burrasca, tra il 1934 e il 2007,  come   il “Periodo  di calma” della “Grande moderazione” : “idea basata -  osserva - sulla constatazione che a partire dagli anni Ottanta la volatilità dell’attività economica aggregata aveva subito un marcato declino nella maggior parte del mondo industrializzato”. Il che era spiegato “con l’assenza di crisi finanziarie o di ondate di panico”. Tuttavia, conclude Norton, “la grande moderazione (…) abbraccia un periodo storico piuttosto breve; in un’ottica di lungo periodo, gli episodi di panico bancario sono la norma. A quanto pare gli economisti erano implicitamente convinti che appartenessero al passato” (p. 30).
Quest’ultima osservazione,  conduce  alla seconda pista (“Perché, gli economisti, non hanno visto la crisi”). Gorton qui colpisce duro. Parla di una disciplina - l’economia - che  non studia più la storia. All’argomento dedica un capitolo memorabile (il Settimo: “L’astoricismo della teoria economica”, pp. 114-125). Per quale motivo  Clio è  finita in soffitta?  In primo luogo, perché i dati più precisi su fondamentali economici risalgono, grosso modo, alla seconda metà del Novecento. In realtà, “ non è che gli economisti abbiano volutamente ignorato  le crisi; il problema piuttosto  è che hanno studiato prevalentemente  il Periodo di calma, perché lo consideravano la fase storica più rilevante e soprattutto perché coprendo un arco temporale  molto recente forniva loro  la maggiore quantità di dati”.  Sicché sembrava che  “sarebbe durato per sempre; quando poi la crisi si è palesata, gli economisti hanno proposto spiegazioni superficiali, dimostrando una scarsa conoscenza storica  e istituzionale e concentrandosi sugli aspetti esteriori della crisi” (p. 114).
In secondo luogo, all’oblio della storia si è affiancata una disdicevole pigrizia cognitiva: Oggi “gli economisti, si concentrano solo su alcuni stadi di questo processo [di produzione del sapere economico] e non su altri: in genere si dedicano soprattutto a produrre modelli, e raramente possiedono l’Esperienza diretta che si acquisisce lavorando al servizio di un’impresa privata o della pubblica amministrazione” (p. 114).  E quando si parla di “modelli” ci si riferisce alla eccessiva “matematizzazione” della disciplina. E qui Gorton  cita Deirdre McCloskey (economista che consigliamo di leggere): “Dopo quaranta anni di investimenti nella matematizzazione dell’economia, per gli economisti è diventato meno accettabile ammettere la propria ignoranza in matematica che riconoscere di non sapere la storia” (p. 123).
L’ultima pista concerne le spiegazioni facili-facili della crisi ( e delle crisi)  fornite da attivisti politici e non pochi giornalisti. Tradotto: dai complottisti un tanto al chilo.  All’argomento, Gorton  dedica un ghiotto capitolo (il Dodicesimo: “Ricchi banchieri, costo delle crisi e il paradosso delle crisi finanziarie”, pp. 192-208). Qual è la sua spiegazione? “L’idea che il debito bancario soffra di un problema strutturale è irrilevante per quanti vanno a caccia  di specifici colpevoli. Dopo una crisi non è possibile vendicarsi del sistema, o quanto meno in passato questo non è mai accaduto. Il capitalismo è un sistema nel quale milioni di persone prendono decisioni sulla base dei prezzi e dei propri vincoli di bilancio, e innovano, provocando il cambiamento; l’attività bancaria si distingue unicamente per il fatto di essere calata all’interno di uno specifico contesto normativo. Dopo l’introduzione dell’assicurazione dei depositi è iniziato il Periodo di calma, poi il sistema bancario è cambiato ed è riemerso un vecchio problema. Le crisi scaturiscono da debolezze strutturali. (…) . A ben vedere, l’idea che le crisi finanziarie sistemiche che si sono susseguite  nella storia delle economie di mercato siano state causate dalle azioni criminali di un manipolo di persone è semplicemente ridicola. Il sistema si evolve nel tempo in conseguenza delle decisioni di milioni di persone. Quello che ci si chiede,  in realtà, è chi sia responsabile dell’esistenza del capitalismo” (p. 195). 
Bella domanda, tra l'altro molto importante perché collegata ai profili normativi, insomma alle regole per prevenire, punire, emendare. Che pure servono.  Però, se sono -  come sono -  in milioni a decidere, sarà difficile trovare una risposta.   Per dirla brutalmente: tutti colpevoli o tutti innocenti… Oppure, alcuni sono più uguali degli altri?  O, invece,  come scriveva  Poggio Bracciolini, più di sei secoli fa,  nel  De Avaritia, gli uomini  sono tutti uguali nel non accontentarsi mai di quel che hanno. Vogliono progredire. Sempre. Il che può essere fonte di bene come di male. Osservazione, ahinoi, che  ci riporta al    quesito di Gorton…    

Carlo Gambescia        

        

mercoledì 17 dicembre 2014

A "Famiglia Cristiana" e "Avvenire"  è piaciuto lo show di  Roberto Benigni
Portare la Bibbia in “prima serata”


Sembra che la Bibbia “in prima serata” di Benigni,  ateo al caviale, sia piaciuta a “Famiglia Cristiana” e  “Avvenire”. Il che la dice lunga sulla situazione preagonica in cui versa il  cattolicesimo giornalistico-culturale italiano (per limitare il campo),  giunto  ormai alle pappine  dolciastre per  fedeli  sdentati, tipo quella ammannita dal comico toscano.
Qualcuno si chiederà: ma che si  vuole tornare al cattolicesimo  con elmo, spada, scudo?  No, non ci piacciono neppure i tradizionalisti lancia in resta…  Per non parlare degli “atei devoti” alla Giuliano Ferrara.  E allora? Vorremmo un cattolicesimo senza fronzoli, che dicesse ai fedeli che i Dieci Comandamenti non sono una raccolta di barzellette o di aforismi atei. Ma un durissimo cammino di vita…  E, soprattutto, che con la felicità in  Questo Mondo (“È qui l’eternità. Dobbiamo dire sì alla vita, inginocchiarci davanti all'esistenza, questa la chiusa atea di Benigni)  i Dieci Comandamenti non c’entrano affatto.  E, cosa fondamentale, che ci si deve inginocchiare solo  davanti a Dio....   Scelta  che dovrebbe soprattutto valere per chi  difende, anche in campo culturale,   la  causa dell’Altro Mondo.   E invece,  giù ad applaudire… 
Ciò non significa che sul piano individuale (su quello collettivo, invece, è  altra cosa, molto pericolosa…) non si debba perseguire la felicità. Tutti ai nastri partenza, per carità...  Però,  per  chi si dichiari cattolico -  e fortunatamente, oggi,  nessuno obbliga alla conversione  -    prima viene Dio,  poi il resto…  
Una semplice  verità,  che gli atei di sacrestia, quelli  di "Famiglia Cristiana" e di "Avvenire"  sembrano aver perso di vista.  

 Carlo Gambescia