Parola di Charles Adams
Al di là dei
“balletti” politici di questi giorni sull’Imu che, siamo pronti a scommettere,
verrà riproposta sotto altra veste, il dato di fondo è un altro e
ben più pesante: nell’ultimo quarto di secolo, né destra né sinistra
hanno tagliato le tasse. Anzi...
Evidentemente, si tratta di una questione strutturale. Infatti, stando alle agghiaccianti statistiche, il Novecento può essere descritto, senza ombra di dubbio, come il secolo delle tasse, prima alimentate da guerre e ricostruzioni e dopo dal mito della giustizia sociale da perseguire a mitragliate di prelievo fiscale. Una caccia grossa al contribuente che alla lunga non ha potuto non influire negativamente sull'economia e sul sacrosanto tentativo di elevare i ceti meno abbienti grazie all'effetto a cascata della crescita.
Cosa intendiamo dire? Che il sistema fiscale, non solo italiano, si è trasformato, per l'economia, in una palla al piede. Insomma, ci siamo ritrovati nelle grinfie di un fisco-idrovora a zero sviluppo, vuoi perché al servizio di voraci burocrazie (la famigerata funzione che sviluppa teratologicamente l’istituzione preposta), vuoi perché furbescamente nobilitato (il fisco) come portatore dell’idea di giustizia sociale (idea totalmente astratta e pericolosa dal momento che può essere interpretata nei modi più differenti, contrastanti e fantasiosi).
Evidentemente, si tratta di una questione strutturale. Infatti, stando alle agghiaccianti statistiche, il Novecento può essere descritto, senza ombra di dubbio, come il secolo delle tasse, prima alimentate da guerre e ricostruzioni e dopo dal mito della giustizia sociale da perseguire a mitragliate di prelievo fiscale. Una caccia grossa al contribuente che alla lunga non ha potuto non influire negativamente sull'economia e sul sacrosanto tentativo di elevare i ceti meno abbienti grazie all'effetto a cascata della crescita.
Cosa intendiamo dire? Che il sistema fiscale, non solo italiano, si è trasformato, per l'economia, in una palla al piede. Insomma, ci siamo ritrovati nelle grinfie di un fisco-idrovora a zero sviluppo, vuoi perché al servizio di voraci burocrazie (la famigerata funzione che sviluppa teratologicamente l’istituzione preposta), vuoi perché furbescamente nobilitato (il fisco) come portatore dell’idea di giustizia sociale (idea totalmente astratta e pericolosa dal momento che può essere interpretata nei modi più differenti, contrastanti e fantasiosi).
In realtà, per farla
breve, chi di tasse ferisce, di tasse perisce… A dirlo, con grande
autorevolezza, è Charles Adams avvocato, esperto di diritto tributario,
professore e storico americano, autore qualche anno fa di un
magnifico libro in argomento tradotto in Italia da Liberilibri (2007, ristampa
2008), casa editrice, che considerata l'elevata qualità di tutto ciò che
pubblica, ribattezzeremmo subito “LiberiBuoniLibri” ( per apprezzarla
cliccare su : http://www.liberilibri.it/ ) .
Il Libro di Adams (per ulteriori informazione sull’autore si
veda qui:http://mises.org/media/author/600/Charles-Adams ) ha un titolo invitante: For
Good and Evil. L’influsso della tassazione nella storia dell’umanità(http://www.liberilibri.it/charles-adams/52-for-good-and-evil.html ). Quel For Good and Evil sta per
“nel bene e nel male”. E qui si scopre l’originalità - e
diremmo anche l’onestà scientifica - di Adams. Il quale
non è un Āyatollāh anti-tasse, come alcuni tendono a
presentarlo, dal momento che da buon realista politico
ammette la necessità delle imposte. Ma, ecco il punto, entro certi
limiti. E soprattutto evitando i due opposti estremismi
della regressività/progressività. Seguiamo il suo ragionamento.
«Fin dai tempi biblici, nel contratto matrimoniale la clausola nel
bene e nel male non
includeva l’adulterio. Non solo si giustificava il divorzio, ma a volte la
moglie infedele veniva condannata a morte. Come nel matrimonio, la relazione
politica tra uomo e Stato si basa su un contratto, e anche in questa relazione
c’è un accordo nel bene e nel male. Inoltre, come in
un matrimonio, ci sono dei peccati per cui non ci si aspetta e non si richiede
indulgenza. La tassazione rientra in questa categoria. Nella dichiarazione di
indipendenza, gli americani giustificarono il tradimento e la violenza perché i
britannici stavano “imponendo delle tasse senza il nostro consenso” »(p. 534).
Due sono i
percorsi tratteggiati da Adams in un libro di seicento
pagine, che tuttavia grazie all’eccellente traduzione di Cristina
Ruffini, attentissima a conservare lo stile brillante
dell’autore, si legge in un baleno.
Il primo percorso,
per così dire, è di tipo storico-spengleriano. Adams prova,
fornendo una montagna di dati storici ripresi dai migliori
lavori accademici (basta scorrere le note), come, ciclicamente,
un'eccessiva pressione fiscale conduca inevitabilmente a tre
reazioni sociali tipo con epilogo (brutto):
schiavitù, evasione/fuga all’estero, ribellione e, dulcis
in fundo, disgregazione politica, economica
e sociale. Insomma, il libro è una autentica miniera
d'oro: dalle Monarchie Orientali, passando per
la Israele, Grecia e Roma, Cina, Islam, fino alle gigantesche
crisi delle Rivoluzioni Inglese, Americana e Francese che misero fine
all'opprimente fiscalismo dello Stato di “Antico Regime”. Ma non al
fiscalismo in quanto tale...
In verità, la
riflessione sulle tasse come cronico fattore destabilizzante
- ecco il suo secondo percorso, non storico ma teorico
- inizia con l’Illuminismo: quale reazione al
“massacro-sfascio fiscale” (se ci si passa le espressione) de L'état,
c'est moi. Semplificando, il principio difeso dai Lumi
è questo: nessuno può togliere all’uomo ciò che gli è proprio, se non con il
suo libero consenso. E anche in quest’ultimo caso sussistono pericoli.
Perché, come scrive Adams parafrasando Montesquieu, «gli
uomini che vivono in uno stato di libertà, concedono scioccamente ai propri
governi il diritto di imporre tasse elevate, cosa che promuove l’evasione
fiscale, che a sua volta richiede gravi misure punitive. È la conseguenza
di queste misure punitive ciò che porta il paese alla rovina» (p. 354). Come
appunto si diceva: chi di tasse ferisce, di tasse perisce…
Quali rimedi?
Adams parte da una constatazione storica: anche i buoni sistemi
fiscali tendono a corrompersi perché «tutti i governi tendono a divenire
patologicamente spendaccioni». A suo avviso, i poteri pubblici
finiscono sempre per assecondare un riflesso carnivoro
che li spinge irresistibilmente a conformare «le spese alle proprie
brame, e non alle proprie tasche» (p. 569). Cosicché suggerisce
di separare il potere di spendere da quello di tassare. L’esatto contrario
di quel che ora avviene. Parliamo di Governi che
spendono e tassano al tempo stesso con la complicità
di Parlamenti altrettanto spendaccioni.
Secondo Adams
andrebbero introdotti precisi limiti costituzionali alle spese dello
Stato e alla progressività-regressività della tassazione. Ma,
innanzitutto, servirebbe «moderazione». Ad esempio, nello
stabilire le aliquote, nell’evitare discriminazioni (con esenzioni, privilegi e
quant’altro) e intrusioni nella privacy. Ma in particolare occore un decisivo
cambio di mentalità: l’evasione fiscale non
va considerata un crimine penale. C’è un
intero magnifico capitolo (quello sull’Illuminismo, cui abbiamo già accennato),
fitto fitto di geniali e ghiotte citazioni in difesa dell' argomento
depenalizzazione: Locke, Montesquieu, Blackstone, Smith. Si
legga questo significativo passo, tratto dai Commentaries di Blackstone, eminente giurista
inglese del Settecento: «Pertanto si è dovuto far ricorso a punzioni
straordinarie per evitarla [l’evasione fiscale, n.d.r]; forse anche punizioni
capitali; la qual cosa distrugge ogni equilibrio nella punizione, e mette gli
assassini sullo stesso piano di coloro che in realtà sono colpevoli non di un
delitto contro le leggi della natura ma solo di un’infrazione positiva” (p.
356).
Con questo termine
Blackstone indicava un’infrazione praticamente inventata, e imposta per legge,
dallo Stato Il vero e unico Dio in Terra dei moderni, al quale
sacrificare tutto… Imu compresa.
Carlo Gambescia
Qualsiasi tentativo di stabilire il “giusto” o sopportabile livello della pressione fiscale o di una singola tassa è destinato a naufragare miseramente: ogni tassa è ingiusta non per motivi quantitativi (peso o sacrificio), ma per motivi qualitativi: perché, come dice la stessa parola, non è consentita, ma “imposta”. La rivoluzione fiscale americana non fu solo contro una tassa “troppo alta”, ma contro una tassa “imposta” dagli inglesi. Se la tassa fosse, come auspicabile, il giusto corrispettivo per un servizio reso dallo Stato, cesserebbe di essere tale.
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