venerdì 24 maggio 2013


Il matrimonio gay e 
la “megamacchina dei diritti”





La prendiamo da lontano. Quindi chiediamo ai nostri lettori un briciolo di pazienza.
Le democrazie liberali hanno il loro punto di forza nel relativismo politico-culturale. Dare la parola a tutti e favorire, anche sul piano dei diritti, le diverse minoranze è un importante strumento di democrazia. Per contro, dove invece predominano maggioranze dispotiche non si può parlare di democrazia.
C’è però una controindicazione. Se il relativismo - semplificando: la tua e la mia idea hanno pari valore e diritti - viene spinto oltre un certo limite può trasformarsi in elemento di debolezza.  Per funzionare bene il relativismo necessita di una forte coesione politica e sociale. Parliamo in particolare di un "sentimento" di responsabilità;  una  "sensibilità"  diffusa e perciò  condivisa da tutti:  dalle maggioranze come dalle minoranze politiche, sociali, economiche, culturali.
Cosa intendiamo dire? Che ogni gruppo sociale deve essere consapevole dei propri valori, mezzi e meriti in rapporto a tutti gli altri gruppi. E di conseguenza  assolutamente cosciente di  alcuni limiti insuperabili, pena il dissolvimento sociale. Pertanto, ogni buon relativismo non può  non essere fondato trasversalmente sull’autodisciplina dei diversi gruppi sociali.  Certo,  nella pratica, le cose possono seguire  un andamento diverso, se non opposto. Il buon senso non  si costruisce stando alla scrivania... La maturità sociale è conquista difficile perché di natura pratica.   Ad esempio,  Durkheim, fondatore della moderna sociologia e padre di una notevole teoria sull’autodisciplina gruppi sociali, visse politicamente inascoltato nella Francia della Terza Repubblica, spezzata politicamente in due blocchi contrapposti - si pensi al caso Dreyfus - e quindi ben lontana da quell’idem sentire de re publica, che deve sostanziare il buon relativismo.
Sotto questo profilo la “megamacchina dei diritti”,  nel senso di un meccanismo sociale automatico dove basta inserire un gettone per avere diritto a qualcosa,  rappresenta forse il più importante tentativo di conciliazione tra unità e diversità. Parliamo di un meccanismo, oggi predominante, che punta sulla concessione - ma in realtà sempre più “creazione” autoriproduttiva - di uguali diritti, estesi a tutti cittadini. Funziona? Dipende. E qui veniamo al punto.
Questo meccanismo,  se  lasciato libero di svilupparsi,  può produrre, come nel caso del matrimonio gay ( e corollari nell'ambito delle adozioni),  fratture sociali difficilmente ricomponibili.
Di solito, coloro che magnificano la “megamacchina dei diritti” invocano il suo essere al servizio di un progresso, genialmente favorito da una repubblica illuminata. In questo modo si vuole puntellare dall'esterno il relativismo,  introducendo  un fattore assoluto.  Il vero  problema è che però  il concetto di  progresso non può essere   interpretato in maniera univoca. Non esiste una “versione unica” circa "le  sorti progressive dell'umanità".  Da molti, infatti, il matrimonio gay viene giudicato una forma di regresso e penalizzazione sociale della famiglia.  Di qui, i  conflitti incomponibili, spesso violenti, nonostante, o meglio   grazie  all'inarrestabile  "motorizzazione" di un diritto oggettivo, costitutivamente  incapace di dire no a qualsiasi nuovo e presunto diritto soggettivo. 
Concludendo, servono freni sociali, ovviamente non imposti. Occorrono, insomma, senso della misura nei politici e autodisciplina sociale nei cittadini: capire fin dove ci si può spingere.  Evitando, si capisce, di   scaricare  la "produzione" della coesione sociale  su una megamacchina che  pretende di unificare  e livellare le coscienze   distribuendo diritti  à la carte.  Serve,  ripetiamo, senso del limite: valore tipicamente umano, anche se difficile da acquisire e "stabilizzare".  Del resto quali alternative? Dal momento che   il relativismo privo di confini o  basato su pseudo-limiti, come nel caso dell'idea di progresso, si trasforma inevitabilmente  nella  guerra autodistruttiva di  tutti contro tutti?
Purtroppo, la “megamacchina dei diritti”, se ci si passa l'abusata  metafora, assomiglia a una gigantesca automobile lanciata a folle velocità ma priva di freni.

 Carlo Gambescia 

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