Il libro della
settimana: Edward Glaeser, Il trionfo della
città. Come la nostra più grande invenzione ci rende più ricchi e felici, Bompiani 2013, pp. 588, Euro 23,00 .
Arnold Toynbee, di
cui negli ultimi anni si è quasi persa memoria, dedicò nel 1970 al destino
della città un bel saggio dal titolo molto suggestivo Cities
on the Move (Città in movimento), reso dall’editore
italiano con La città aggressiva. Nel libro lo
storico britannico, sulla base del suo famoso schema sfida-risposta, applicato
alla civiltà urbana, individuò la nuova e bruciante sfida posta all'uomo del
tardo Novecento dalla "meccanizzata città
mondo": un gigantesco ed eruttivo agglomerato
teso come lava a travolgere e assorbire differenze,
culture, economie. In certa misura Toynbee, forse da buon
lettore di Lewis Mumford (altro studioso del fenomeno urbano come macchina in
grado di riprodursi all’infinito), anticipò l’idea di “megamacchina”, in
seguito teorizzata, in chiave più ampia, dal sociologo-economista
Serge Latouche, il padre della decrescita.
Per farla breve,
Toynbee, come oggi molti decrescisti, scorgeva e temeva la trasformazione
della città in pura e semplice sommatoria di
megalopoli: una "città-mondo" estesa, per l'appunto,
a tutto il pianeta. Con una differenza: il decrescista invoca il
ritorno alle campagne e all’autoconsumo nel nome di una visione comunitarista
se non socialista, mentre Toynbee proponeva uno sviluppo sostenibile guidato da
élite liberali e illuminate, capaci di affrontare la sfida della
megalopoli omologante. Insomma, l'eterno scontro rivoluzione-riforme.
Dove vogliamo andare
a parare? Che l’interessante volume di Edward Glaeser, professore di economia
alla Harvard University, Il trionfo della città. Come la nostra più grande
invenzione ci rende più ricchi e felici (Bompiani), va in direzione
opposta. Al meno città dei piagnoni decrescisti e al città
con giudizio di
Toynbee, Glaeser, snocciolando montagne di dati statistici, oppone il più
città. Ma, come vedremo, al plurale e vero
l'alto... La sua tesi è dirompente e può far saltare sulla sedia
persino l’ ecologista all’acqua di rose. Ascoltiamolo: « Per capire
le nostre città e sapere cosa farne, dobbiamo (…) sbarazzarci di dannosi miti.
Occorre abbandonare l’idea secondo cui ambientalismo vuol dire vivere intorno
agli alberi e che gli abitatori della città dovrebbero sempre e solo battersi
per preservare il passato fisico delle città. Dobbiamo smettere di idolatrare
il possesso della casa, che favorisce la formazione di distese suburbane di
villette a scapito di palazzi a molti piani e smettere di idealizzare villaggi
rurali. Dovremmo evitare di concepire l’idea semplicistica che una migliore
comunicazione sulle lunghe distanze ridurrà il nostro desiderio e bisogno di
stare vicini gli uni agli altri. Soprattutto dobbiamo liberarci dalla tendenza
a considerare le città come l’insieme dei loro edifici, e ricordare che la
città reale è fatta di carne, non di calcestruzzo» (p. 32).
Ed ecco ciò che egli
osserva, in modo ancora più tranchant, a proposito degli Stati
Uniti: «Attraverso tutto il paese le grosse città significano minore uso
dell’automobile. In media, quando la popolazione raddoppia, le emissioni di
biossido di carbonio a famiglia dovuto all’uso dell’auto scendono quasi di una
tonnellata all’anno. Le città del Sud in particolare presentano alti livelli di
uso dell’auto, e oltre il 75 per cento in più di carburante rispetto a New York
(…). Questi fatti indicano che la densità abitativa urbana riduce le emissioni
di CO2 nelle vecchie aree metropolitane del Nordest, ma anche nelle aree
metropolitane più nuove che si sviluppano più velocemente (…). In parole
povere, se volessimo ridurre le emissioni modificando le nostre politiche sullo
sviluppo del territorio, un numero maggiore di americani dovrebbe vivere in
ambienti più densamente abitati e più urbani» (pp. 346-350).
Anche se può
apparire come un’ingiustizia verso un libro ricco di suggestioni, ridotta
all’osso, la tesi di Glaeser è che le città dovrebbero svilupparsi in altezza e
non a macchia d’olio sul territorio: più grattacieli meno villette suburbane;
meno traffico automobilistico, meno inquinamento. Quindi stop alle
megalopoli, e avanti tutta - il termine è nostro - con le
"verticopoli".
La premessa
cognitiva - in effetti, difficilmente negabile - su cui è costruito il volume è
che la città è sempre stata e sarà la culla intellettuale dell’umanità: più
città, più contatti, più creatività, più invenzioni, più gioia di
vivere, eccetera. Naturalmente, la
tesi è ben corroborata sotto il profilo storico, economico e
statistico. Lasciamo al lettore il piacere di scoprire tutta
l’anticonvenzionale preziosità informativa di un libro ben scritto e tradotto.
Un testo che si può anche non condividere, ma che va assolutamente
letto. E per una semplice ragione: aiuta a liberare
il nostro orizzonte intellettuale da molti luoghi comuni,
soprattutto di matrice ecologista-decrescista.
In qualche misura,
ma non sappiamo se consapevolmente o meno (Toynbee non è mai citato), Glaeser
recupera lo schema sfida/risposta. Ma in modo particolare. A differenza
di Toynbee, che forse amava troppo passeggiare tra le rovine, Glaeser crede,
rasentando l’atto di fede, nella possibilità della civiltà urbana di farcela
ancora una volta: « Le lucenti guglie della città additano la grandezza che
l’umanità può raggiungere, ma anche la nostra tracotanza. La recente recessione
ci rammenta dolorosamente che l’innovazione urbana può distruggere valore oltre
che crearlo. Ogni crisi viene a sfidare il mondo e le sue città. Con la
contrazione del commercio e dei mercati finanziari, le aree urbane soffrono.
Con la riduzione del gettito fiscale, le città devono lottare per fornire i
servizi fondamentali. I livelli crescenti della disoccupazione vengono a pesare
ulteriormente su quei servizi, specie nella città che sono già povere». Però,
conclude Glaeser, « il nostro futuro urbano resta luminoso. Neppure la Grande Depressione
è riuscita a spegnere le luci della città. La tenace forza delle città riflette
la natura dell’umanità. La nostra capacità di comunicare gli uni con gli altri
è la caratteristica distintiva della nostra specie. Noi siamo cresciuti come
specie perché abbiamo cacciato in branco e condiviso le nostra abilità. Lo
psicologo Steven Pinker sostiene che la vita di gruppo, versione primitiva
della vita in città “ crea i presupposti per l’ evoluzione dell’intelligenza di
tipo umano” » (pp. 447-448).
Concludendo,
sembra che per Glaeser la città, o se si preferisce lo spirito stesso
della megamacchina urbana, sia addirittura racchiuso (nel bene come
nel male) nel nostro corredo evolutivo. Una specie di bisogno
atavico... Detta in chiave filosofica: un'invenzione, quella della
città, già codificata nel nostro destino di uomini. Un
po’ troppo forse? O no? La parola ai lettori.
Carlo
Gambescia
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