Gentile donna
Mestizia,
“Ius sanguinis”.
Diciamolo: il sangue mette malinconia, perché il sangue tuo quand’è che lo
vedi? Quando ti fai male e quando ti fanno una trasfusione, occasioni in cui
c’è poco da ridere. Il sangue versato sul campo di battaglia lo lasciamo
perdere, perché tanto la leva obbligatoria non c’è più, e chi va a farsi
sparare lo fa perché l’ha scelto lui in quanto lo pagano bene. Vero che il
sangue inteso come parentela diretta lo vedi quando erediti, e allora in
effetti ha un suo perché; ma tanto fra poco i gay potranno sposarsi, e i loro
figli saranno in pole position per l’eredità anche senza impicci di emoglobina.
Insomma, il sangue sporca, è brutto, è triste, e serve a poco o niente.
“Ius soli”. Intanto,
la formula presenta un serio problema di comunicazione: la forte assonanza con
“ius solae”, in latino maccheronico “diritto della sòla” (per i non romani:
sòla = fregatura). Non sottovalutiamo questi aspetti solo apparentemente
marginali: nel mondo di Twitter e dei soundbites il successo o l’insuccesso di
una proposta si gioca, in una frazione di secondo, su uno slogan indovinato o
no. Poi, il suolo è sporco, a volte pericolosamente sporco: mai sentito le
mamme nei parchetti, quanta paura hanno che i loro bambini, ruzzando al suolo,
si pungano le manine con una siringa? Magari infetta di AIDS? Non solo: il
suolo è molto scomodo. Dicevano un tempo i contadini: “la terra è bassa”, così
lamentando la scomoda posizione curva e la pesante fatica fisica richieste dal
lavoro nei campi. Insomma, il suolo è sporco anche lui, è pericoloso, è scomodo,
è faticoso, e - forse per questo - fa pensare a una fregatura.
A queste
considerazioni culturali, se ne aggiunga una politico-economica che a mio
modesto avviso taglia la testa al toro: con lo ius sanguinis e con lo ius soli
non si becca una lira, pardon un euro. Sangue e suolo, in questa fattispecie
giuridica del diritto di cittadinanza, sono desolatamente gratuiti. Che ci
vuole a nascere da un sangue x, y, z? Niente. Due perdigiorno italiani se la
spassano un quarto d’ora, ed ecco che l’eventuale fantolino, quel raccomandato,
si vede gratuitamente assegnata la cittadinanza italiana. D’altronde, che ci
vuole a nascere su suolo italiano? Altri due perdigiorno, di nazionalità
purchessia, svagatisi anche loro un quarto d’ora, scodellano l’effetto collaterale
del loro momento di relax su un metro quadro a piacere entro il perimetro
nazionale: ed ecco che, sfruttando la rendita di posizione come una tabaccheria
all’angolo, il furbo bimbetto si becca gratis la cittadinanza italiana. E dove
sta l’incremento del PIL, tanto agognato in questo momento di grave recessione?
Dove l’incoraggiamento all’iniziativa privata? Dove i profitti? Dove il
mercato? Dove, insomma, la libertà, dove la scelta, dove la civiltà? Troppo
facile e scontato rispondere, tristemente: da nessuna parte. Ius sanguinis e
ius soli, questi falsi nemici segretamente complici, rispondono entrambi a una
logica premoderna che privilegia il caso e il destino sulla volontà e sulla
scelta. Che poi caso e destino si esprimano nella pigrizia del familismo
amorale, o nella banale contingenza geografica, che differenza fa? Non
producono un nanopunto di PIL nessuno dei due.
E qui passo ad
illustrare la mia proposta di soluzione del dilemma, avvisando che è già
depositata presso la S.I .A.E.
e protetta dalla vigenti leggi sul diritto d’autore, e che adirò le vie legali
contro chiunque tenti di attribuirsi la paternità di un’ idea, pur semplice
come l’uovo di Colombo, che non esito a definire un vero e proprio salto di
paradigma giuridico-politico-culturale, e forse anche, perché no,
antropologico.
Si tratta dello “ius
aeris”, il “diritto dell’aria”. Come funziona, si chiederà il lettore? Niente
di più facile. Ti compri un barattolo d’aria italiana a denominazione d’origine
controllata, te lo fai recapitare per posta a casa tua dovunque essa sorga nel
mondo, lo dissigilli, ne respiri profondamente il contenuto e sei cittadino
italiano. Prego notare le infinite possibilità di marketing racchiuse in questa
semplicissima formula. Anzitutto, l’aria italiana dev’essere a denominazione
d’origine controllata, prelevata e inscatolata sul suolo nazionale da personale
specializzato e autorizzato. La filiera di produzione deve essere attentamente
sorvegliata e certificata da una apposita e costituenda Authorithy: propongo il
nome di Autorità dell’Aria Italiana, che risulta nell’ acronimo di facile
memorizzazione “AAI”. Naturalmente, visto che l’aria italiana è un bene comune
nazionale per definizione, lo Stato italiano non mancherà di apporvi il suo
sigillo di garanzia e il Ministero del Tesoro la sua accisa, variabile in
ragione delle esigenze di bilancio. Sarebbe però contrario all’efficienza e
all’efficacia produttiva, nonché alle direttive europee, affidare la produzione
dell’Aria Italiana a imprese di Stato: essa sarà invece commessa a imprenditori
privati operanti in regime di concessione (e dunque interessati a contribuire
generosamente alla stabilità delle istituzioni politiche). Va da sé che nella
patria dei cento campanili, la produzione non si limiterà a una generica aria
italiana, ma si differenzierà in arie regionali, provinciali, comunali,
paesaggistiche, con le relative differenze di prezzatura, di benefit
aggiuntivi, e di imposizione locale. Si immagini il vero e proprio assalto dei
consumatori internazionali all’ “Aria di Venezia”, che oltre a garantire la
cittadinanza italiana assicurerebbe la cittadinanza onoraria della Dominante;
all’ “Aria di Firenze”, che renderebbe l’acquirente, per ipotesi birmano,
concittadino di Michelangelo Buonarroti e Matteo Renzi; all’ “Aria di Roma”,
grazie alla quale il consumatore, mettiamo neozelandese, potrebbe diventare una
pecorella del Vescovo di Roma e un elettore della sig.ra Polverini; o
l’entusiasmo di tutti gli appassionati delle vacanze al mare o in montagna per
“l’Aria del Monte Bianco” o l’ “Aria di Portofino”, di tutti gli amanti dei
libri gialli e delle storie di mafie per l’ “Aria di Palermo”, l’ “Aria di
Napoli”, l’ “Aria di Calabria”…
Non mi dilungo oltre
per non approfittare della Sua cortesissima ospitalità, per la quale La
ringrazio sentitamente. La saluto con cordialità, sperando che la mia idea si
sia guadagnata la Sua
simpatia. Suo
Jonathan Esposito,
Posillipo
Gentile Signor
Esposito,
che dirLe? La Sua proposta mi sembra una
boccata d’aria fresca. I miei auguri a Lei e alle potenze che La ispirano.
Roberto Buffagni è un autore teatrale. Il suo ultimo lavoro, attualmente in tournée, è Sorelle d’Italia – Avanspettacolo fondamentalista, musiche di Alessandro Nidi, regia di Cristina Pezzoli, con Veronica Pivetti e Isa Danieli. Come si vede anche dal titolo di questo spettacolo, ha un po’ la fissa del Risorgimento, dell’Italia… insomma, dell’oggettistica vintage...
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