Gianni
Alemanno, Alessandro Campi
e la spasmodica
ricerca di un sasso da far "voltolare"…
Diciamo subito che
la ricomposizione - parola grossa - della destra di origine
neofascista (da Storace ai naufraghi di Fli) non è più un
argomento di grande interesse politico, né politologico: quattro
gatti spelacchiati, litigiosi e dalle idee confuse.
E con un elettorato, in prospettiva, da prefisso telefonico. Tuttavia ci ha
colpito, e spiacevolmente, un articolo di Alessandro Campi, apparso su “Il
Foglio” (http://www.ilfoglio.it/soloqui/18358 ). Dove lo storico dell’
Università di Perugia, non smentendo la sua fama di studioso dalla cotta
politica facile, spezza una lancia per l'unificazione,
cambiando però di nuovo cavallo. E, questa volta, a chi
lancia il carotone? A Gianni Alemanno.
Campi ricorda
- certo, si parva licet
- il
Machiavelli pubblico della chiusa de Il Principe in cui si
invocava l'intervento unificatore della Casa dei Medici. Ma anche
il Machiavelli privato, anzi privatissimo, in riposo forzato
causa cambio regime, che sperava di guadagnarsi il favore dei «Signori
Medici» ritornati al potere dopo la parentesi repubblicana. Insomma, gli stessi
Medici che lo avevano messo alla porta. «Mi cominciassero adoperare - scriveva
all’ amico Vettori – [quand’anche] se dovessimo cominciare a farmi voltolare un
sasso; perché, se poi io non me li guadagnassi, io mi dorrei di me»…
Ma lasciamo il
sasso, pardon la parola a Campi::
«[Alemanno] Da un
lato deve convincere i cittadini romani a confermargli la fiducia ottenuta
cinque anni fa, spiegando loro che la sua sindacatura – piena in effetti di
errori e occasioni mancate – è stata a conti fatti meno catastrofica di come la
raccontano gli avversari più risoluti e la stampa che li spalleggia (basti
un’occhiata alla copertina dell’ultimo fascicolo dell’Espresso). Dall’altro,
Alemanno è l’ultimo esponente della destra italiana – quella che provenendo dal
Msi ha poi dato vita per tre lustri all’esperienza di Alleanza nazionale – che
possa ancora aspirare ad una carica pubblica di una certa importanza e a
giocare un qualche ruolo a livello nazionale. Ed è su quest’ultimo aspetto che
forse vale la pena fare qualche ragionamento» (I corsivi e gli
inserti tra parentesi quadre, anche quelli che seguono, sono nostri).
Il meglio però deve ancora venire:
«E Alemanno, nel caso dovesse riconquistare il
Campidoglio, parrebbe l’uomo giusto – per il prestigio e i mezzi
che gli deriverebbero dal ruolo – sul quale puntare per una simile operazione. Tenendo anche conto che Roma è,
per antiche ragioni storiche, la patria d’elezione della destra italiana in
tutte le sue possibili espressioni: un simbolo identitario, un richiamo
mitologico e ancestrale, prim’ancora che un terreno dove affondare le proprie
radici organizzative e dove formare i propri ranghi».
Notare la
strizzatina d’occhio finale, in stile aquila littoria
con pendant mazziniano-garibaldino. Filone
con cui fascismo e neofascismo hanno
lungamente inciuciato. Sul mito di Roma correttamente inteso
in tutte quelle sfaccettature ( e diversità
tra l'interpretazione liberaldemocratica e
nazionalfascista), su cui Campi sembra agilmente sorvolare,
rinviamo i lettori alle due storie di Croce, da leggere in
parallelo, e per contrasto, con le pagine, comunque mai banali,
di Volpe. Nonché alla tuttora maestosa Premessa
di Federico Chabod, grande storico liberale. Senza
dimenticare le pagine altrettano dense e belle di Walter
Maturi, eccellente storico del Risorgimento.
Ma c'è dell'altro. Sulle ragioni che hanno provocato
l'implosione della destra di matrice neofascista, Campi, ex
consigliere di Fini, un po’ per auto-assolversi, un po’ per
inventarsi una linea di contnuità tra Alemanno e l’ex
Presidente di Fli, un po' per impadronirsi del
sasso di cui sopra, preferisce buttarla, come si dice a
Roma, in caciara. Naturalmente prendendola da lontano. Leggiamo:
«Ma l’obiettivo di
ricomporre la diaspora di questo mondo, rimettendo insieme quel che ne rimane,
forse richiederebbe un’operazione preventiva di chiarimento sulle ragioni che
hanno prodotto la sua débâcle. Per evitare che tutto si risolva, ammesso poi
che l’operazione riunificatrice riesca, in un abbraccio nostalgico,
inevitabilmente strumentale, tra reduci che temono per la propria sopravvivenza
bisognerebbe insomma fare prima un collettivo e pubblico esame di coscienza,
che sinora è del tutto mancato. Il che equivarrebbe a chiedersi, ad esempio,
cosa non ha funzionato – sul piano politico-culturale – nella nascita,
nell’azione e nelle scelte di Alleanza nazionale, un partito che in vent’anni
non ha mai visto modificarsi il suo gruppo dirigente. A interrogarsi sulla
natura del rapporto che la destra italiana ha stretto con Berlusconi e il
berlusconismo (quanto è stato al dunque soffocante e/o penalizzante, dopo
l’euforia e gli indubbi benefici seguiti all’operazione di sdoganamento operata
e sempre vantata dal Cavaliere?). A domandarsi quale sia stato il senso autentico del
tentativo di smarcamento da quest’ultimo condotta da Fini, invece di apostrofarlo
come il traditore per eccellenza di una fazione politica che psicologicamente
sembra non essersi mai emancipata dalla “sindrome di Badoglio” e dalla
necessità, dinnanzi alle proprie sconfitte e manchevolezze, di cercare sempre
il fellone cui appiccicare l’etichetta di voltagabbana»
Siamo d'accordo sulla "sindrome Badoglio". Anche se
a criticarla è l' ex consigliere del Badoglio di turno...
Conflitto di interessi? Ai posteri l'ardua sentenza. Quanto al senso
autentico, presto detto: i post-fascisti di An dovevano
lavorare dentro il Pdl. «Smarcarsi» come
scrive Campi, ma rimanendo all' interno. Senza
immaginare improbabili destre repubblicane, ideologicamente fondate sul
Manifesto di Verona riletto alla luce dell’Impresa fiumana e dello sgangherato
Sessantotto italiano. E per giunta tentando di mettere insieme, Mussolini,
D’Annunzio, de Gaulle, Che Guevara e Mario Capanna. È vero che una destra
"normale" deve parlare di legalità. Ma deve anche criticare il
giustizialismo, le tasse altissime, il burocratismo, gli sprechi
pubblici. E soprattutto evitare, se ci si perdona l’espressione, di
dire fregnacce pseudo-libertarie che la sinistra, per Dna,
sa dire molto meglio della destra di origine
neofascista.
Max
Weber riteneva che il ruolo dell’intellettuale in
politica non fosse quello di assecondare il Principe,
bensì di consigliarlo circa la coerenza tra mezzi e fini da perseguire. Il
succo del discorso weberiano, attualizzato, è il seguente: se ci si colloca a destra
si devono dire e fare cose di destra, e non cose di sinistra, perché a
sinistra, sanno farle e dirle meglio. In politica, la tattica è importante ma
non quanto la strategia. E qui emerge un punto fondamentale: che il neofascismo
italiano, per storia ideologica, non è mai stato compiutamente di destra
né di sinistra. La "terza via" era e resta una specie
di toppa ideologica per coprire due magagne di fondo:
disorganicità politico-culturale e fame, spesso atavica, di
onori e prebende. Di qui però la grande confusione, che
per l'appunto risale al fascismo, tra “regimisti” e “movimentisti”, tra
destra e sinistra fascista, tra tradizionalisti e modernisti, tra borghesi e
antiborghesi, eccetera, eccetera. Parliamo di una specie di
mantra ideologico via via trasmigrato nel Msi,
An, An-Pdl e Fli. Perciò è ovvio che una volta
spariti i valori (anche se pseudo…), e strumentalmente per acquisire,
come osserva Campi, i «benefici seguiti all’operazione
[berlusconiana] di sdoganamento», siano rimasti solo gli interessi.
Tuttavia, se tra i diadochi si tornerà in qualche misura
a parlare di valori, torneranno a galla anche le vecchie
idee fasciste del né destra né sinistra, magari mascherate da
ideologia repubblicana in versione giacobina,
o peggio, da qualche altro
pericoloso fantasma olistico. Tanto resta sempre il
pescoso mare magnum
del sansepolcrismo... Insomma, chiacchiere e distintivo,
distintivo e chiacchiere…
Che c’entra tutto questo con una destra liberale e conservatrice? Ad esempio
con la Signora
Thatcher? Per la cronaca: dentro quel che
resta della destra di origine neofascista (da Storace ad Alemanno),
cui si rivolge Campi, c'è ancora chi difende i generali argentini...
Che c' entra tutto questo, ripetiamo, con la normale dialettica
politica tra destra e sinistra? Nulla. E Max Weber sarebbe d’accordo con noi.
Perché Alessandro
Campi, che, cotte politiche a parte, resta un intellettuale di
valore (si visiti a Roma la ricca mostra su Machiavelli da
lui curatahttp://www.oggiroma.it/eventi/mostre/niccolo-machiavelli-il-principe-e-il-suo-tempo-1513-2013/4950/ ) non torna a piegarsi sulle sudate carte?
Invece di aspirare a far voltolare sassi per Alemanno, mescolando
improbabili identità simboliche tra liberali e
fascisti con ridicoli «richiami mitologici e ancestrali»
dichiaratamente nazionalfascisti?
Carlo
Gambescia