La ricorrenza è passata, proprio ieri, ma come ormai accade da decenni non se ne accorge più nessuno. Ovviamente parliamo del 20 Settembre 1870. Della liberazione di Roma dal potere temporale dei papi. Momento culminante di quel processo di unificazione politica che si chiama Risorgimento italiano. Che secondo alcuni storici, tra i padri dell’Interventismo democratico del 1915, ebbe la sua consacrazione definitiva con la Quarta Guerra d’Indipendenza e la liberazione di Trento e Trieste. Dopo di che nazionalismo e fascismo devastarono tutto.
Va detto che all’indomani della “Presa di Roma” (la famosa carica dei bersaglieri a Porta Pia), lo stato italiano impiegò venticinque anni per proclamare con una legge il “XX Settembre” festività nazionale: anno di grazia 1895.
Sono gli stessi anni dei lavori di sistemazione del Belvedere, al colle Gianicolo, con l’edificazione del monumento equestre dedicato a Garibaldi. O “Roma o morte”, vi si legge. Era Crispi al governo, uomo politico autoritario e mangiapreti. Ma già all’inizio del Novecento, a parte la fiammata libertaria ai tempi del sindaco Nathan (1907-1913), il 20 Settembre lo si celebrava in sordina.
Il fascismo addirittura cancellò la celebrazione e la legge delle Guarentigie (1871) , le cui disposizioni avevano scontentato sia clericali, che parteggiavano per il confessionalismo, sia gli anticlericali che sognavano la separazione netta tra stato e chiesa. La si sostituì con la celebrazione dell’11 di febbraio, ricorrenza della firma dei Patti Lateranensi, che in Vaticano è tuttora celebrata ogni anno.
Nel 1984 i Patti Lateranensi con alcune modifiche, soprattutto di ordine economico, furono sostanzialmente recepiti attraverso un “accordo-quadro”da Craxi, che colmo dell’ironia era collezionista di reperti garibaldini. Il precedente finanziamento diretto venne sostituito con l’8 per mille.
Va premesso che nel secondo dopoguerra, con due chiese politiche, una al potere, l’altra all’opposizione, Democrazia cristiana e Partito comunista (inutile qui rispolverare le polemica sulla firma congiunta, per così dire, dell’articolo 7 della Costituzione), la celebrazione del 20 Settembre, divenne ricorrenza celebrata, da quattro gatti anticlericali. Che non avevano (e non hanno tuttora) perdonato al liberalismo moderato la Legge delle Guarentigie, da Croce ricordata giustamente come “monumento di sapienza giuridica”.
Il punto è che la celebrazione del 20 Settembre, già negli anni successivi alla “Presa di Roma”, veniva considerata una ricorrenza divisiva. Si diceva che il paese era cattolico e la classe politica liberale. Di conseguenza si doveva avere pazienza, mediare, smussare gli angoli. Soprattutto per difendersi dai primi movimenti socialisti. La classe politica liberale, soprattutto quella più conservatrice, vedeva nel cattolicesimo un alleato politico in chiave di instrumentum regni.
La pressione politico-sociale, soprattutto dal basso, era talmente forte che lo stesso Giolitti, liberale che guardava a sinistra, si tutelò scegliendo la strada degli accordi elettorali con i cattolici, per attutire gli effetti di un suffragio quasi universale, da lui stesso promosso, in vista delle politiche del 1913 (Patto Gentiloni).
Insomma, con questi precedenti, non c’è da meravigliarsi che oggi del 20 Settembre si siano dimenticati quasi tutti. O che se ne siano impossessati gli ultimi anticlericali in circolazione (altro reperto politico-archeologico).
Chi scrive, oltre ad accompagnare al Gianicolo gli amici non romani in visita durante l’anno per rievocare insieme la Roma liberale e repubblicana del 1849, il “XX Settembre”, solo soletto, se ne va in Corso Italia, nei pressi di Porta Pia. Ma non per visitare il gigantesco monumento al Bersagliere (1932, opera di Publio Morbiducci), voluto dallo stesso ipocrita dittatore che aveva firmato i Patti Lateranensi, ma 100 metri prima. Per soffermarsi ( con il permesso delle automobili parcheggiate) dinanzi al più sobrio monumento alla “Presa di Roma”, proprio dove fu aperta la “breccia”. Opera degli scultori Giuseppe Guastalla e Adolfo Apolloni, che risale alla fine dell’Ottocento.
E vi resta qualche minuto, in silenzio. Pensando all’Italia che non fu. E che forse mai sarà.
Carlo Gambescia
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