mercoledì 25 settembre 2024

Il decoro come utopia. “Il sol dell’avvenire” di Nanni Moretti

 


Ieri sera ho visto in tv “Il sol dell’avvenire” di Nanni Moretti. La prima cosa da notare è che il luogo comune sulla somiglianza da vecchi tra genitori e figli è vero. Oggi Nanni Moretti è quasi uguale al padre Luigi (nella foto sotto).

Venendo alla critica del film, non ho competenze tecniche, ma sociologiche sì. E sotto questo aspetto la pellicola è interessante per mettere a fuoco la figura del dolente post comunista di oggi (per citare “La terrazza” di Scola). Si pensi all’intellettuale di sinistra, con origini borghesi, dalla luna perennemente storta, che non si riconosce più non solo nel partito comunista ma in tutti quei partiti che provengono dal mondo del post comunismo italiano.

Si sogna ancora la rivoluzione d’Ottobre del 1917 ma non si riesce a dimenticare il 1956: l’invasione dell’Ungheria liquidata dai russi come sordido teatro di una controrivoluzione. Si continua a vedere in quei fatti l’ occasione perduta per farla finita con l’abbraccio mortale dell’Unione Sovietica, opportunità che i comunisti italiani non colsero. La pellicola ruota intorno a un appuntamento mancato con la storia. Di qui la luna storta. Per ciò che non fu.


 

L’ elemento tragico – innegabile – è nel contrasto tra grandezza passata, il 1917, e l’impotenza presente, che deriva dall’ “errore” del 1956. Una specie di  traversata del deserto, mai finita. Il Vittorio Gassman di Scola  che si veste un poco meglio,  ma rompe sempre i coglioni (pardon).

Si badi bene, un mare di sabbia , privo di oasi, dove però, nonostante la scarsità di acqua, gli abiti a brandelli, eccetera, l’intellettuale Moretti, cerca puntigliosamente di mantenere la sua igiene quotidiana. 

Come? Evocando, nonostante tutto, il valore dell’utopia, o se si vuole di un inconsapevole principio blochiano di speranza, filtrato però attraverso una chiassosa e fellinania morale da Cinecittà, come prova nelle ultime battute del film la sfilata in stile Quarto Stato con tecnici, figuranti e attori, elefanti e quant’altro. Mancava solo la musica di Nino Rota.

 


Un decoro che si chiama utopia. Come dire? Levatemi tutto ma non il ferro da stiro. Un film che dal punto di vista di una antropologia dell’italiano può essere oggi definito sub-culturale. Chi si cura più del dolente comunista postmoderno? Una minoranza di impietriti (secondo altri, di impettiti), che come i soldati britannici del famoso “ The Bridge on the River Kwai”, con divise consunte ma pulite  e stirate o quasi, cerca ormai solo di salvare le apparenze. Il decoro appunto.

Come? Ripetiamo, tornando al valore dell’utopia. Del ferro da stiro.

Il che potrebbe essere se non  giustificato, perdonato. 

Ma che c’entra, e qui pensiamo al finale del film, la gigantografia di Trotsky? Portata in giro come quella della Madonna? Un comunista che era più duro di Lenin e Stalin messi insieme? E che agli ungheresi, avrebbe fatto il pelo e il contropelo?

Carlo Gambescia

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