Ieri sera ho visto in tv “Il sol dell’avvenire” di Nanni Moretti. La prima cosa da notare è che il luogo comune sulla somiglianza da vecchi tra genitori e figli è vero. Oggi Nanni Moretti è quasi uguale al padre Luigi (nella foto sotto).
Venendo alla critica del film, non ho competenze tecniche, ma
sociologiche sì. E sotto questo aspetto la pellicola è interessante
per mettere a fuoco la figura del dolente post comunista di oggi (per
citare “La terrazza” di Scola). Si pensi all’intellettuale di
sinistra, con origini borghesi, dalla luna perennemente storta, che non si riconosce
più non solo nel partito comunista ma in tutti quei partiti che
provengono dal mondo del post comunismo italiano.
Si sogna ancora la rivoluzione d’Ottobre del 1917 ma non si riesce a
dimenticare il 1956: l’invasione dell’Ungheria liquidata dai russi
come sordido teatro di una controrivoluzione. Si continua a vedere in
quei fatti l’ occasione perduta per farla finita con l’abbraccio
mortale dell’Unione Sovietica, opportunità che i comunisti italiani non
colsero. La pellicola ruota intorno a un appuntamento mancato con la
storia. Di qui la luna storta. Per ciò che non fu.
L’ elemento tragico – innegabile – è nel contrasto tra grandezza
passata, il 1917, e l’impotenza presente, che deriva dall’ “errore” del
1956. Una specie di traversata del deserto, mai finita. Il Vittorio Gassman di Scola che si veste un poco meglio, ma rompe sempre i coglioni (pardon).
Si badi bene, un mare di sabbia , privo di oasi, dove però, nonostante la scarsità di acqua, gli abiti a brandelli, eccetera, l’intellettuale Moretti, cerca puntigliosamente di mantenere la sua igiene quotidiana.
Come? Evocando, nonostante tutto, il valore dell’utopia, o se si vuole di un inconsapevole principio blochiano di speranza, filtrato però attraverso una chiassosa e fellinania morale da Cinecittà, come prova nelle ultime battute del film la sfilata in stile Quarto Stato con tecnici, figuranti e attori, elefanti e quant’altro. Mancava solo la musica di Nino Rota.
Un decoro che si chiama utopia. Come dire? Levatemi tutto ma non il ferro da stiro. Un film che dal punto di vista di una antropologia dell’italiano può essere oggi definito sub-culturale. Chi si cura più del dolente comunista postmoderno? Una minoranza di impietriti (secondo altri, di impettiti), che come i soldati britannici del famoso “ The Bridge on the River Kwai”, con divise consunte ma pulite e stirate o quasi, cerca ormai solo di salvare le apparenze. Il decoro appunto.
Come? Ripetiamo, tornando al valore dell’utopia. Del ferro da stiro.
Il che potrebbe essere se non giustificato, perdonato.
Ma che c’entra, e qui pensiamo al finale del film, la gigantografia di Trotsky? Portata in giro come quella della Madonna? Un comunista che era più duro di Lenin e Stalin messi insieme? E che agli ungheresi, avrebbe fatto il pelo e il contropelo?
Carlo Gambescia
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