Mario Draghi non è un personaggio da prendere sottogamba. Come presidente della Bce e del Consiglio ha mostrato buone qualità politiche e di indipendenza decisionale. Draghi non è la marionetta di nessuno. Al contrario rappresenta la migliore espressione di una visione liberalsocialista, anche per sua stessa ammissione, della politica e dell’economia.
Il problema è che la “visione” è più socialista che liberale. Socialista – attenzione – non nel senso epico del termine ma nel senso specifico del controllo pubblico dell’economia.
Sul punto, come in ogni forma di interventismo statale, gioca un ruolo importante l’aspetto tecnocratico. Cioè di una visione che considera la democrazia rappresentativa – il sale che dà sapore al liberalismo, quello vero, storico – un fenomeno secondario, quasi privo di importanza.
Diciamo che Draghi alla discussione privilegia la decisione, ancora meglio, se quest’ultima è presa da dirigenti altamente specializzati nei rami dell’economia e della scienza.
L’idea del controllo pubblico dell’economia, coordinata in chiave europea, verticistica e tecnocratica, è al centro del suo annunciato Rapporto sulla competitività europea, che ieri ha anticipato nelle sue linee generali (*).
In pratica il Rapporto si muove intorno a tre idee: a) riduzione della dipendenza tecnologica ed energetica dell’Ue dal resto del mondo; b) formazione di grandi imprese a livello europeo in tutti i settori, ancora meglio se controllate dai poteri pubblici, per competere ad armi pari con il resto del mondo; c) introduzione di una specie di nuovo patto dei produttori tra sindacati e imprese, basato sulla politica dei redditi, cioè sulla concertazione tra imprenditori e sindacati, che vincola l’accrescimento dei salari alla crescita della produzione e degli utili di impresa.
In sintesi: Draghi all’offerta esterna oppone la domanda interna. Non crede nel libero mercato. Ma molto probabilmente, da buon tecnocrate interventista, non vi ha mai creduto.
Sembra di rileggere un vecchio scritto di Keynes, degli anni Trenta, dove si celebrava l’ autosufficienza o autarchia economica britannica, allora di tipo imperiale (**).
Ovviamente Draghi, che traspone il concetto a livello europeo, non usa questo termine, non abbastanza sofisticato, ma parla, più volte, della necessità di una difesa europea della “catena di approvvigionamento”. Come qui:
«In un mondo in cui i nostri rivali controllano molte delle risorse di cui abbiamo bisogno, tale agenda deve essere combinata con un piano per proteggere la nostra catena di approvvigionamento, dai minerali critici alle batterie fino alle infrastrutture di ricarica. La nostra risposta è stata limitata perché la nostra organizzazione, il processo decisionale e i finanziamenti sono progettati per “il mondo di ieri”: pre-Covid, pre-Ucraina, pre-conflagrazione in Medio Oriente, prima del ritorno della rivalità tra grandi potenze».
Draghi, da sbrigativo realista a breve termine, dà per scontata, come un tempo Keynes, la fine definitiva del laissez-faire. E punta su quello che è il fratello gemello dell’interventismo statale: il protezionismo economico e sociale.
Si dirà che Draghi non ha tutti i torti perché il barometro della politica internazionale da alcuni anni indica maltempo. Però un vero politico – ecco la differenza con il tecnocrate – non può dare come definitivi processi (di vario tipo), ancora in corso, “contingenti”, e puntare su misure economiche “permanenti”, come se non ci fosse domani (per dirla alla buona).
Di qui, al contrario, la necessità “politica”, non tecnocratica, di valutare il rischio futuro di ricorrere oggi a massicce dosi di protezionismo (le politiche contrarie all’offerta, prima ricordate); di concentrazione delle imprese (quindi scelte monopolistiche, contrarie al libero mercato); di welfarismo contrattato tra imprese e sindacati (il costoso rilancio della domanda interna, cui accennavamo).
Il problema è quello dell’esistenza di un’ isola che non c’è. Per capirsi: parliamo di misure che al momento possono apparire salvifiche, mentre in realtà possono pregiudicare l’economia europea e mondiale per almeno mezzo secolo. E qui si pensi ai guasti del protezionismo degli anni Trenta del Novecento, i cui effetti negativi si prolungarono fino agli anni Sessanta. Ma anche quello dell’ultimo trentennio dell’Ottocento. Che poi dietro il protezionismo ci sia lo stato o un insieme di stati è la stessa cosa.
Riassumendo: non esiste alcuna isola felice, separata dal mondo. Non si può separare la competitività dal libero mercato, chiudendosi in casa e gettando la chiave. Come canta Morgan? "Ho deciso di perdermi nel mondo". Ecco questo è lo spirito giusto. Non la competizione, se e quando tale, foraggiata dallo stato e pagata cara, per ricaduta da prezzi monopolistici, dai consumatori.
Non si tratta di un puro atto fede nel libero mercato. Il vero politico deve ragionare se non per millenni almeno per secoli. Si chiama realismo a lungo termine. E gli ultimi secoli ci dicono che il libero mercato, pur tra alti e bassi (guerre e disgrazie varie incluse), è molla di progresso e libertà. Per contro un tecnocrate, cioè un realista a breve termine, non va oltre lo studio accurato dei bilanci e la compravendita imprenditori-sindacati. Come dire? La storia neppure come accessorio, aggiunta, surplus mentale.
Qui i limiti di Draghi e delle sue idee sulla competitività europea. Idee che possono addirittura raccogliere consenso a destra, dal momento che l’interventismo pubblico, a partire dall’idea protezionista, oggi come oggi, accomuna destra e sinistra.
Per capirsi, e restare in Italia, la tentazione interventista mette insieme, sfumature ideologiche a parte, Giorgia Meloni, Elly Schlein, Matteo Salvini, Giuseppe Conte e perfino il "liberale" Antonio Tajani. Sotto questo aspetto, al di là delle polemiche spicciole, Mario Draghi è ben visto dai due schieramenti.
Il che la dice lunga sul liberalismo di Mario Draghi, come pure su quello dei quadri politici italiani. Non dissimili del resto da quelli europei.
Come osservava Ortega, il conferenziere migliore è quello che dice al pubblico ciò il pubblico vuole sentirsi dire.
Carlo Gambescia
(*) Qui la versione integrale del sui discorso: https://www.adnkronos.com/economia/draghi-il-discorso-integrale-come-deve-cambiare-lue_2YqgqZph2dMWoRrMrM9Ao4 .
(**) John Maynard Keynes, Autosufficienza nazionale (1933), in Id., Come uscire dalla crisi, a cura di Pierluigi Sabbatini, Editori Laterza 1983, pp. 93-106 .
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