Chiunque mastichi qualcosa di metapolitica, sa benissimo che un militare, soprattutto se di carriera e di grado elevato, si è formato all’interno di un gruppo sociale che crede fortemente nei valori gerarchici, quindi antiegualitari.
Per estensione concettuale, un esercito, se vuole vincere, deve essere meritocratico, e la meritocrazia mal si accorda con l’egualitarismo e il pietismo sociale. La meritocrazia presuppone la gerarchia: cariche gerarchiche e funzionali da assegnare sulle basi del merito. Quindi delle abilità non delle disabilità. Così, piaccia o meno, ragionano i militari: secondo un' ottica funzionale non morale.
Inoltre un esercito deve usare le maniere forti. Di conseguenza più si scende nella sfera militare, più spiccano i rozzi comportamenti antiegualitari, perché nei gradi meno elevati, per non parlare della truppa, viene meno, quella leggera mano di vernice sociale (buone maniere, innanzitutto), che rimanda ai titoli di studio, alle frequentazioni, alla voglia di far carriera, eccetera, eccetera. Insomma, in qualche misura, al venire a patti con il mondo esterno, civile, non militare.
Allora perché meravigliarsi di quanto ha dichiarato ieri il generale Vannacci sulle classi differenziate per disabili? Un militare, anche se liberale e democratico (per esasperare il concetto), imporrà l’eguaglianza sulla punta delle baionette. Con le maniere forti. A prescindere.
Come prova del resto la grande esperienza napoleonica, che è alle origini del militarismo di sinistra, che, facendo forza su stesso, accettava l’eguaglianza, ma volle imporla non solo con la forza dei codici. Si potrebbe parlare di dittatura (napoleonica) dell’eguaglianza. Certo, post rivoluzionaria, quindi mitigata dai compromessi del potere. Resta però tuttora un elemento giacobino nel militarismo. Esercito, si dice, al servizio della nazione. La diseguaglianza resta ma è proiettata verso l’esterno.
Se poi un militare ha sposato idee di destra, la filosofia militare e quella politica combaceranno perfettamente. Le maniere forti saranno poste al servizio della diseguaglianza. Sotto questo aspetto Francisco Franco resta un ottimo esempio, anzi macroesempio, a destra. Mentre, come detto, Napoleone lo è a sinistra. Il micro-caso, del generale Vannacci invece “combacia” a destra.
Il problema non è quel che dice (o comunque non solo) il generale spezzino. Si tratta di un problema, più generale, di approccio alla realtà da parte di un gruppo sociale (i militari) fortemente istitituzionalizzato (bandiere, divise, tradizioni, status e ruolo sociale) che rinvia: a) a una concezione gerarchica della vita interna e/o esterna ; b) alla logica della forza come unico mezzo di affermazione di a).
E, detto per inciso, si lasci da parte tutta la zuccherosa vernice pacifista sui militari al servizio della pace. L’esercito è forza organizzata al servizio della guerra, cioè della distruzione parziale o totale del nemico. O è questo o non è. I pacifisti confondono, intenzionalmente o meno, il corpo dei pompieri con quello dei granatieri.
Pertanto un militare, che cambi improvvisamente professione, passando addirittura alla politica, rappresenta una potenziale mina vagante per la liberal-democrazia, che invece trasforma il nemico in avversario da convincere con le buone. Ma anche per le concezioni egualitarie della vita sociale, come prova il brutale (dal punto di vista civile) atteggiamento di Vannacci, quasi da manuale di sociologia militare.
Come ha potuto il generale imporsi in politica? E peraltro così rapidamente?
In Italia la politica come nobile professione è in crisi da almeno trent’anni. Il politico viene giudicato una zavorra, un costo, se non peggio, per la società. Di qui il guardarsi intorno, non solo dell’elettore, verso altri ambiti, in particolare tecnocratici.
Se ci si passa la distinzione tra magia bianca e magia nera, Monti e Draghi sono due ottimi esempi di tecnocrazia bianca, economica. Mentre Vannacci, rinvia alla tecnocrazia nera. E si badi: potrebbe essere solo il primo esemplare di una nuova specie di tecnocrati, non più con cattedra, ma con le stellette.
Perciò, come dice un vecchio proverbio, chi è causa del suo mal pianga se stesso. E qui dovrebbe essere la politica a piangere amare lacrime. Per decenni si è fatto a gara tra i partiti a tirarsi palle di merda populista (pardon) e questi sono i risultati.
Ripetiamo: per ora, siamo dinanzi al timido inizio di un potere con le stellette. Il clima di guerra non aiuta, perché, mette in risalto, socialmente parlando, il ruolo dei militari: li rende popolari.
Come pure non aiuta il ritorno delle destre da sempre in sintonia con il militarismo. Ferma restando una cosa: che il populismo ha fatto terra bruciata intorno ai politici. Perciò anche per la sinistra non è facile ripartire da zero, perché ha contro di sé: 1) i militari, 2) i politici di destra, e 3) quel populismo diffuso antipolitico, che essa stessa ha contribuito a creare negli ultimi trent’anni.
Concludendo, non solo Vannacci. Siamo solo alle prime prove tecniche di tecnocrazia militare. Il generale spezzino è il battistrada. Altri verranno.
Carlo Gambescia
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