I cori dei tifosi laziali contro un giocatore del Lecce dal colore di pelle “diverso” e le grandi manifestazioni pubbliche e mediatiche di cordoglio per la morte di Pelè in Brasile, di Mihajlović e Vialli in Italia, invitano alla riflessione sulla natura mitologica e identitaria del calcio. Come pure sulle differenti tipologie dei tifosi di calcio, che abbiamo qui ridotto a due, anche per ragioni di chiarezza.
Il che potrebbe indurre a pensare che il calcio sia una specie di lotta di classe che prosegue con altri mezzi. In realtà le cose sono molto più complesse.
C’è il tifo estremo, totale, spesso proletario, arrabbiato, basato sulla dicotomia amico-nemico, come pure il tifo da settanta pollici, parziale, tranquillo, che rinvia all’universo dei ceti medi, per i quali lo sport non è un campo di battaglia ma un gioco da gustare nella versione postmoderna del vecchio salotto borghese.
Tuttavia, i tifosi parziali e totali, trovano un comune punto di riferimento nelle tradizioni calcistiche della squadra preferita: un ricordo personale, magari di famiglia, legato a una partita; un giocatore carismatico; un allenatore amato; un campionato vittorioso, eccetera, eccetera. In questo modo pubblico e privato si intrecciano, andando così a fondersi nell’identità individuale del tifoso. Ma anche a dividersi, come vedremo.
Infatti il vero punto della questione è come viene vissuta la fusione individuale. Il tifo estremo tende a praticarla in chiave polemologica, il tifo parziale in chiave ludica. Di riflesso i meccanismi identitari e mitologici assumono un ruolo differente.
Ad esempio, il ricordo mitologico di Mihajlović può rinviare “a quando spezzammo le reni alla Roma”, oppure a un certo tipo di potenza agonistica concretizzarsi in un’azione di gioco elegante e vincente.
Il fenomeno del razzismo negli stadi va perciò ricondotto al tifo estremo, che si nutre di una mitologia e di un senso identitario di natura polemologica non ludica. Per contro le grandi manifestazioni pubbliche di cordoglio per la morte di una campione rappresentano il trait d’union tra le due tipologie di tifo. In tali occasioni il calcio sembra veramente riunire tutti i tifosi, totali e parziali.
Non si irride più al colore della pelle (si pensi al fenomeno Pelè), ma si celebra, neutralizzando l’aspetto polemologico, ciò che di ludico, e all’ennesima potenza, è rappresentato dal e nel campione.
Pertanto è vero che il calcio quando resta un gioco può riunire. Come pure è altrettanto vero che, una volta accettata la logica polemica, il calcio può dividere.
Come far sì che il calcio, con la sua mitologia e i suoi richiami identitari, resti un gioco e non diventi una guerra, rimanda al mistero dell’agire sociale umano. Al quale la sociologia non è in grado di rispondere, se non in termini organizzativi: stadi più grandi e comodi, riduzione dei conflitti sociali, eccetera.
Insomma, come e perché l’ homo ludens si tramuti in homo bellicus resta un mistero sociologico, che va oltre il calcio e i cori razzisti. Purtroppo.
Carlo Gambescia
Nessun commento:
Non sono consentiti nuovi commenti.