Ricevo da un amico lettore di lungo corso del blog, Gianfranco Rutigliano, la seguente mail, a mio avviso molto interessante. Che giro ai lettori. Di seguito la mia risposta.
Carlo Gambescia
Caro Prof.,
sono Gianfranco Rutigliano e seguo il Suo blog da tanto.
Oggi provo a domandarle una cosa che non capisco.
Lei critica il costruttivismo in quanto processo di pianificazione contrario alla libera singolarità di ogni individuo. E fin qui capisco che l’obiettivo polemico è Marx (L’ha ribadito anche l’altro ieri sul Suo blog). Giusto, sono d’accordo.
Però io interpreto la famosa frase “I filosofi hanno variamente interpretato il mondo, ma si tratta di cambiarlo”, non in maniera prescrittiva ma descrittiva.
Descrittiva perché l’essenza della trasformazione del mondo è il nucleo della Modernità. Ciò che essa ha a cuore e che porta avanti senza mai quasi dormire è la possibilità che il mondo sia plasmabile e dunque modificabile attraverso i nostri sforzi. Marx in un certo senso scopre quest’essenza come principio, ma la Modernità sembra non aver bisogno di enunciarla: si va avanti per tentativi, successi ed insuccessi (in questo sono ancora una volta d’accordo con Lei).
Per questo motivo credo Marx affascini, ed allo stesso tempo dico: nulla di nuovo, caro Marx. Poi, sul come cambiare il mondo ci stiamo attrezzando già da un po’!
La storia – che come ricorda Vico, col metterci mano degli uomini è intimamente opera nostra- ci mostra che sorgono le nazioni, e che poi si emanano le costituzioni. Tutte cose che nulla avevano a che fare a con quello che li aveva preceduti, nel pensiero e nell’azione.
Si costruisce, insomma. Mettendo tra parentesi diritti divini o naturali, metafisici ed eterni, suscitando l’ira dei detentori del potere che attaccano i moderni proprio con l’accusa di costruttivismo.
Bene. Dunque la domanda è: possiamo dire che il costruttivismo in sé potrebbe non essere del tutto cattivo?
Certo, vanno poste delle condizioni. Se auto-analitico, aperto alla realtà può funzionare…
Piccola digressione personale: Lei sa che io lavoro in una comunità che accoglie persone con alcuni disagi. I Servizi specialistici territoriali che inviano queste persone alla nostra struttura ci chiedono di pensare ad un progetto.
Ecco, in linea teorica il progetto è un atto di costruttivismo dei peggiori: dei Servizi calano dall’alto un progetto che una persona dovrà realizzare, pena la perdita di aiuti. Però la logica costruttivista negativa (che noi nell’ambiente chiamiamo “assistenzialista”) è stata sostituita da un’altra più mirata ad incentivare le risorse personali della persona con disagi. Si guarda alla storia personale, alle abilità, alle sue risorse, alla presenza di una rete affettiva intorno alla persona, a quella di Servizi specialistici che lo tengano compensato. E poi si tenta mettendoci tutti in gioco: comunità, persona, Servizi specialisti, famiglia o rete amicale.
Quello che ho imparato da un lavoro che faccio da ormai vent’anni è che il costruttivismo sembra poter reggere la sfida nel momento in cui si radica sulla storia, cioè sull’analisi del rapporto successo-insuccesso dei suoi continui tentativi e dunque sul reale.
Letto così questo è il motivo per cui lo trovo superiore al socialismo iperuranio (ma detto reale).
Cordiali saluti
Gianfranco Rutigliano
P.S.: La leggo sempre con attenzione, anche quando dissento. E, a tal proposito: so che mi dirà che sono un macro-archico… accetto la definizione!
***
Caro Rutigliano,
lei si addentra in una questione che conduce al cuore stesso della modernità. Ma non solo (come vedremo). Una questione che può essere affrontata sia in termini di storia delle idee, sia in termini sociologici.
La storia delle idee mostra che i moderni (fin dalla polemica secentesca sul primato dell’ antichità sulla modernità e viceversa), parliamo di alcuni intellettuali, sapevano in qualche misura di esserlo, più che altro, come presuntiva accumulazione di esperienze rispetto agli antichi.
La sociologia mostra invece che i processi sociali non hanno una direzione precisa: per capirsi i moderni (parliamo di alcuni milioni di interazioni individuali) ignoravano di essere moderni.
Immagini, caro Rutigliano, una società in cui pochi si propongono una nuova idea di scienza non tolemaica (semplificando) e altri, molti milioni di individui, che navigano, scambiano, rubano, inventano, eccetera, senza sapere che stanno creando il capitalismo, cioè il fulcro della modernità economica.
Intorno alla metà dell’Ottocento, tutti o quasi, minoranze intellettuali e masse, iniziano a rendersi conto che è nato un mondo nuovo: la modernità. Di qui la ricerca delle radici, la nascita di una tradizione pro e contro, rivoluzionaria per alcuni, reazionaria per altri, liberale per altri ancora. Ma si delinea anche una nuova fede parareligiosa che finisce per accomunare tutti intorno alle plusvalenze della scienza, anche i reazionari, che, come i cattolici, usano la democrazia rappresentativa (scoperta della moderna scienza politica), per combattere la modernità.
Ora la sociologia di Adam Smith, padre non riconosciuto della sociologia moderna, (paternità che però resta confermata di fatto dalle successive opere di Simmel, Pareto, Weber. la sociologia di Smith dicevamo, cioè la lezione dell’individualismo metodologico, ci conferma che le azioni sociali hanno effetti imprevedibili legate alla discontinuità tra intenzioni individuali ed effetti compositivi (collettivi). Marx invece sostiene il contrario, presume che alcune intenzioni siano migliori di altre e soprattutto prive di effetti compositivi.
Semplificando, diciamo che Smith fotografa la storia dell’umanità fino alla rivoluzione industriale, sottolineando il ruolo della mano invisibile, cioè del mercato, diciamo così, delle azioni sociali. Invece Marx si occupa di quella successiva, puntando sul costruttivismo della mano visibile della scienza e dello stato.
La vera domanda è come funziona realmente la società. Il resto è storia delle idee, interessante, ma storia di come gli uomini hanno promosso e difeso le proprie posizioni. In fondo, parliamo di storia delle ideologie, erudite quanto si vuole, ma ideologie.
La questione dei servizi sociali, che le sta così a cuore, e giustamente, rinvia a una visione costruttivista.
Infatti siamo davanti a una questione di storia delle idee. Che va tradotta in dinamica sociologica reale: si può attagliare il “servizio sociale” – il mondo ideale che nasce come prolungamento difensivo dal marxismo – all’idea di mano invisibile e di effetti perversi? Il nodo fondamentale è questo.
Per capirsi: il welfare può essere individualizzato, ma fino a che punto? Se si continua a privilegiare la costruzione della realtà dall'alto, rispetto alla captazione dal basso del flusso spontaneo della realtà così com’è, che procede, da par suo, “naturalmente” e non “artificialmente” per prove ed errori? Flusso reale, mai dimenticarlo, ben fotografato da Smith e dall’individualismo metodologico?
L’ideale, se proprio si vuole usare questo termine, resta perciò quello dell’auto-organizzazione, questa sì, come detto, per prove ed errori. Si pensi alle mutue professionali, alle organizzazioni caritative, alle forme cooperativistiche. O comunque sia a una “macchina” statale, più piccola di una utilitaria, se mi si perdona la brutta metafora.
Il che non significa – si badi bene – che non ci si debba difendere dai nemici della libertà, dagli aggressori, dagli intolleranti. La libertà, quando necessario, va difesa anche con le armi. Qui, per inciso, la differenza tra liberalismo archico, che interviene, anche militarmente, solo quando è in gioco la libertà, e il liberalismo macro-archico, intrusivo, che vuole sempre costringere gli uomini ad essere liberi, sia sul piano interno (welfare), sia su quello esterno (warfare) (*).
In una parola, lasciando da parte l’opzione-militare in casi estremi (il cosiddetto stato d’eccezione), si deve essere moderni senza pensare la modernità, lasciando fare, lasciando passare. Siamo diventati moderni senza saperlo. Perché allora non proseguire così?
Ovviamente lei, caro Rutigliano, può disconoscere l’ identità tra sociologia reale e individualismo metodologico. Che, inutile nasconderlo, rimanda all’individualismo liberale.
Non nego le parentele. Però, per parafrasare Churchill, diciamo che l’individualismo liberale, sul piano cognitivo, quindi dell’individualismo metodologico, resta la peggiore forma di “governo” cognitivo delle cose ad eccezione di tutte le altre forme che finora si sono sperimentate, incluso il costruttivismo. Perciò come si può capire anche il mio approccio si muove sul piano descrittivo: delle cose come sono e non come dovrebbero essere.
Probabilmente mi sono dilungato. Però la stringente lettera dell’amico Rutigliano meritava una riposta adeguata.
Ricambio i cordiali saluti,
Carlo Gambescia
(*) Il punto è discusso nel mio Liberalismo triste, Edizioni Il Foglio 2013.
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