sabato 25 aprile 2020

Riflessioni
Psicologia, sociologia e storia  dello statalismo


 Che cos’ è lo statalismo? Chi  è statalista? Come individuare le caratteristiche dello statalista tipo?  Quali sono le forze sociali e politiche stataliste?  Qual è la sua storia? Qual è la sua sociologia?
Innanzitutto, statalismo significa ritenere  che le competenze dello stato debbano estese a tutti i campi della vita sociale, dall’economia alla morale, dalla religione alla cultura, perché, come si legge spesso,  solo lo stato avrebbe le risorse e le capacità prospettiche per intervenire  e risolvere qualunque problema. 
Pertanto lo statalista è colui che crede nel ruolo dirimente dell’intervento statale.  Le caratteristiche principali dello statalismo sono rappresentate dalla riduzione progressiva, fino alla soppressione, delle libertà individuali. Le forze politiche  che nel mondo attuale difendono lo statalismo, vanno dal “democristianismo” al liberalsocialismo, ai rottami dei socialcomunismo,  del fascismo e  nazionalsocialismo, per finire con l’ecologismo  e l’ambientalismo.  Senza però dimenticare che appartengono alla famiglia statalista  anche  populisti e sovranisti,  tutti nervosamente dalla parte dello stato.  
Quanto più la società è regolamentata tanto più la forza dello statalismo tende a soverchiare la libertà individuale.  Di regola, il punto di equilibrio reale tra regolamentazione  e libertà è di natura storica. Tuttavia, storicamente parlando,  mentre non si sono mai avute società totalmente prive di regole, soprattutto scritte ( se non agli albori della storia), sono  invece  esistite  società totalmente regolamentate: dalle monarchie idrauliche orientali ( e medio-orientali) ai grandi imperi dell’Occidente, dallo stato assoluto allo stato totalitario del Ventesimo secolo.

La regola storica è la regolamentazione ( si scusi il bisticcio di parole).  E per secoli, proprio a causa della regolamentazione, i progressi economici e sociali sono stati limitatissimi. E ciò perché la regolamentazione ha natura politica e rinvia al rafforzamento del potere delle élite governanti. Consolidamento che viene rappresentato, dalle stesse élite,  come necessario per perseguire il bene comune. E così è avvenuto per migliaia di anni attraverso guerre e conquiste manu militari. Il modo più semplice per redistribuire: massacrare e rubare agli altri popoli, per dare al proprio.
L’idea di deregolamentazione ha pochi secoli di vita e si sposa, non a caso,  con  una visione non polemogena  del potere, visione  sorta dopo le guerre di religione, quando si  riconobbe  all’individuo la libertà di fede. Dall’idea di tolleranza religiosa sono discese   tutte le successive libertà politiche, economiche e sociali.  Un fenomeno che in seguito - e attenzione  in  assenza di qualsiasi teorizzazione dall’alto -   si è denominato liberalismo. Un esperimento ancora in corso,  accettato (ma non da tutti), perché ritenuto migliore, dal punto di vista evolutivo e funzionale, di altri sistemi storici. Per ora, ovviamente.
Lo statalismo, che viene da lontano, sorta di archetipo antropologico-sociale, rappresenta una minaccia costante  e ricorrente che nelle nostre società, una volta battuti i totalitarismi nazista e comunista,  si va profilando sotto varie forme, molto pericolose:  del welfare state, del fiscalismo, dell’ecologismo,  del militarismo, del nazionalismo; tutte dottrine che dichiarano a priori (a differenza del liberalismo che si rimette alle scelte individuali)  di sapere a menadito ciò che sia bene per l’individuo:  “l’obbligo di una salute di ferro”, “l’eguaglianza delle fortune”,  “un pianeta incontaminato” “l’onore militare”, “la razza e l’identità, “la fede in un dio che è più dio di qualsiasi altro dio”.


A questo punto ci si potrebbe chiedere come funzionano le società, storicamente parlando. Secondo i principi statalisti o individualistico-liberali?  Un passo indietro. La sociologia insegna che gli individui interagiscono e perseguono i propri interessi senza avere alcuna visione generale. Tuttavia  alcuni individui più forti, tendono a imporre i propri interessi su quelli altrui, aggregando altri individui, promettendo in ricompensa la redistribuzione di risorse materiali e culturali.  La redistribuzione implica  però strutture redistributive, che per  migliaia di anni sono state rappresentate e monopolizzate dallo stato.  Negli ultimi secoli,  senza alcun disegno precostituito, si è scoperto( quindi dopo) che la redistribuzione attraverso il mercato (vera  miniera d'oro per migliaia di anni inesplorata) funziona meglio della redistribuzione attraverso conquiste e guerre.  
Lo scambio tra privati,  in precedenza  giudicato un’area marginale della vita sociale,  si è così  ritrovato  spontaneamente al centro dell’universo sociale. Questa centralità  ha consentito (ripetiamo, dopo la formazione del libero mercato, quindi ex post)  di  scoprire  il   valore della libertà individuale.  Quella stessa  libertà,   che pur essendo un importante fattore sociale (magari elogiato in passato  da qualche solitario poeta per eccentrici) il dominante pensiero statalista  giudicava pericolosa.

La modernità liberale e individualista, che ha  tre o quattro secoli al massimo, si trova perciò dinanzi un  pericoloso avversario, lo statalismo, che ha dalla sua un potente fattore antropologico-sociale.
Certo, la sociologia insegna che  l’individualismo è un fattore sociale importante, reale. Ma asserisce pure che  l’individualismo sta vivendo la sua infanzia, forse adolescenza. Di qui, se ci si passa la metafora, quel suo piegarsi, talvolta riottoso,  a  forme di individualismo protetto, paternalistico, ben rappresentate dal welfare state. Uno statalismo dolciastro ma non meno pericoloso di quello duro e puro.
Concludendo, sebbene la terminologia non sia di nostro gradimento, la "guerra" antistatalista dell'individuo è ai suoi inizi. Perdere qualche battaglia - basti vedere ciò che sta accadendo in questi giorni - non si significa perdere la "guerra". Ce n'est qu' un debut, continuons le combat. Coraggio amici liberali! 
Carlo Gambescia